Finalmente New York
Italo Moscati
Quello che segue è il settimo di una serie di resoconti scritti da
Italo Moscati, storico del cinema, sceneggiatore e regista, di
ritorno da un viaggio negli Stati Uniti svolto fra la fine del 2001
e l'inizio del 2002.
Un filo di tromba contro l’“asse del male”che, come tutti
sanno, è quello tra Irak, Iran e Corea del Nord secondo il
presidente Bush, che ha messo i tre paesi sotto accusa, scaldando i
motori dei B52, in piena caccia infinita a Osama Bin Laden. Il filo
di tromba viene da più lontano.
Seguitemi. Arriveremo per altre vie, in questo giro americano che
volge quasi al termine, al Ground Zero.
Aeroporto di Torino, qualche anno prima della morte di Chetney detto
Chet Baker, famoso trombettista jazz, la cui morte è avvenuta nel
1988. Chi sia Chet forse bisogna spiegarlo un poco, adesso che il
suono della sua tromba e il suo filo di voce si sono perduti, tranne
per chi lo ha ascoltato e ha amato la sua arte. Indimenticabile la
sua esecuzione di My Funny Valentine.
All’aereoporto di Torino, un giorno come gli
altri, mi accorgo che c’è un corpo disteso su una panchina. Senza
scarpe, i blue jeans lisi, una camicia aperta, capelli semigrigi
appiccicati alla testa. Mi avvicino per sedermi, non c’è altro
posto che quella panchina lasciata vuota dalla gente che affolla la
sala partenze per i voli internazionali. Guardo meglio e lo
riconosco. E’ Chet. Non lo vedevo da quando, nella Bologna del
jazz, in cui Lucio Dalla suonava il clarinetto e ancora non cantava,
arrivò questo ragazzo statunitense vestito di grigio, con la
cravatta ben annodata, i bottoni d’argento ai polsini.
Era nella band di Gerry Mulligan, il grande sassofonista del cool
jazz. Quando gli ottoni del gruppo facevano un passo avanti ,verso
il proscenio del concerto che si tenne in quella Bologna
dimenticata, sembrava che il settimo cavalleggeri dell’immaginario
fosse scattato alla carica in un un’offensiva sonora lucida e
travolgente. Poi, finita la carica, Gerry e gli altri arretravano e
lasciavano solo di fronte al pubblico il ragazzo Chet, che si
rannicchiava dentro la sua tromba e faceva partire una sorta di
preghiera laica, intensa e suadente.
All’improvviso l’avevo, di nuovo, nelle orecchie nell’aereostazione
torinese. La tromba fuori dalla custodia, snudata tra povere cose
sparpagliate per terra, taceva. E taceva anche Chet che dormiva il
suo sonno agitato, angosciato, lamentoso. Avvertito da qualcuno,
arrivò un poliziotto, messo in sospetto da uno dei lamenti più
forti, svegliò il jazzista e lo invitò con le brusche maniere dell’inconsapevolezza
a seguirlo.
Andai anch’io. Esitai qualche istante sulla porta del posto di
polizia; poi, deciso, entrai. Lo interrogavano. Volevano sapere se
aveva della droga con sé, lo perquisivano. Chiesi di essere
ascoltato. Dissi chi era. Mi pregarono di farmi gli affari miei.
Insistetti. Finchè, non avendo trovato nulla di quel che cercavano,
negli abiti, nella borsa e persino nella cavità della tromba, me lo
consegnarono come si fa con un pacco. Accompagnai Chet, che certo
non mi riconobbe e che mormorava smozzicati thank you, al cancello
del volo per Francoforte, da dove poi avrebbe preso la coincidenza
per New York. Se ne andò senza voltarsi, stringendo la tromba, il
suo giocattolo, la sua vita.
Qualche anno dopo, seppi della sua morte. I giornali parlavano di un
salto nel vuoto da una finestra. Il fatto era accaduto ad Amsterdam,
l’ultima tappa dell’ultimo concerto. Quel filo di tromba
rimbalzato dalla vecchia Bologna alla città della Mole, alla
Venezia olandese, non si era cancellato dentro di me.
Anzi. Arrivando a New York, passando per il Village, guardando le
insegne dei locali dove ancora è di casa il jazz - un jazz
diventato musica da leggenda e da museo-, avendo come meta il Ground
Zero, ho ritrovato quel filo e sono tornato alla matassa. La matassa
dei geni solitari appartenenti a un’America che non conosce
sconfitte e delusioni ;che non ha meritato la lezione del Vietnam e
non ha avuto o non ha bisogno di eroi sui tanti fronti dell’Oriente
e del mondo. La matassa delle voci e dei suoni che non si mescolano
alle fanfare e alle marce. La matassa della storia che conta, e non
soltanto per gli appassionati di jazz e della piccola mitologia
delle cantine e delle ribalte dei poeti maledetti.
La voce e le note di Chet avevano la discrezione, l’umiltà, la
sottile efficacia sentimentale di creare la rete invisibile dei
ricordi appesa ai grattacieli, l’impasto delle magie senza prezzo,
la struggente eredità di coloro che si rendono cari agli dei
perché muoiono troppo giovani.
Verso il Ground Zero, ai piedi delle Torri Gemelle
ridotte in cenere, questo arpeggio silenzioso era la musica che
sovrastava le migliaia di persone, fra le quali ho cercato un
passaggio-rifugio. Ed ecco che, sollecitato dalla memoria, ho potuto
vederla meglio, questa gente, il people, che andava in processione a
rendere omaggio agli innocenti caduti più che per manifestare il
lutto per la rapida disintegrazione del simbolo architettonico del
grande capitale vincitore, le Torri sicure di poter sfidare per
sempre le nuvole e i fulmini.
Faceva persino male la visione di questa gente composta, ordinata,
solenne. E fu così che, grazie a un contatto sempre più scaldato
dalla pressione dei corpi pazientemente in cammino, questa stessa
gente mi apparve a poco a poco vicina all’idea dell’America di
Chet e dei suoi compagni di sfide (sfide ingenue ,sfumate dal
tempo). Fili intrecciati di una tromba che suona all’ora della
ritirata, dopo il calare del sole.
Era una strana mattina, quel tramonto di fine 2001. Si era sparsa la
voce a Manhattan che il comune di Rudy Giuliani avrebbe aperto una
piattaforma costruita apposta per consentire alle persone di
accostarsi al luogo del delitto e constatare che cos’era rimasto
delle gabbie di acciaio e di cemento, una volta dissotterrati i
cadaveri e recuperate le loro briciole polverizzate.
Quando fui lì, a pochi metri, appresi che l’apertura sarebbe
avvenuta soltanto il giorno successivo, al mattino molto presto. Lo
spettacolo della morte era rimandato. E già era sold out, tutto
esaurito. Ascoltai i commenti. Non uno parlava di rinuncia. Volevano
tutti tornare e magari anche prima dell’alba. Intanto, nell’attesa,
guardavano e riguardavano le foto, le scritte, i disegni appesi dai
familiari delle vittime che non si rassegnavano alla scomparsa dei
propri congiunti. Oppure, sostavano davanti ai banchetti disposti
lì intorno carichi di bandiere a stelle e strisce, di libri e di
riviste, di immagini delle due Torri e della Manhattan com’era.
Oppure, cercavano racconti di seconda e terza mano dei policemen,
dei tecnici al lavoro, dei pompieri e degli infermieri di servizio
in mezzo alle transenne e alle autoambulanze lì pronte.
Notavo, in quel fervore, una tranquillità pudica. Come se i ragazzi
di Brooklyn o i turisti venuti nella Grande Mela da ogni parte d’America,
avessero nascosto i segni della compassione. Le ali dei
pipistrelli-kamikaze si erano abbattute da poco più di tre mesi
nella città del sogno e i visitatori, questi visitatori, avevano
sepolto il cordoglio plateale e lo avevano sostituito con una
tragica capacità di prendere atto. Con dolore intimo. Profondo.
Pragmatico.
L’italiano, io, era invece smarrito. Per evitarlo, mi sorpresi a
seguire i passi degli altri e a ripercorrerne le tappe in quello
scampolo d’asfalto bruciato. Avevo nella mente le immagini della
tv, una per una, dai primi collegamenti in diretta dell’11
settembre sui teleschermi italiani alle ore e ore di trasmissione
proposte dalla CNN e dai canali informativi americani. Non potevo
cancellarle, ne ero prigioniero, ne ero stato addirittura avvinto,
affascinato dallo spettacolo del male compiuto.
Non so se davvero esiste l’”asse del male” tra Irak, Iran,
Corea del Nord, di cui parla Bush. Nello spiazzo delle Torri
azzerate, la sola “asse” che riuscivo a distinguere era quella
del male e dei suoi effetti: una sanguinosa scudisciata inferta al
cuore di una città e del suo people, la New York del prestigio e
del benessere. Attimi di emozione per i visitatori che lasciano
ferite e cicatrici.
(7- Continua)
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