Sesta tappa: Mystic
Italo Moscati
Quello che segue è il sesto di una serie di resoconti scritti da
Italo Moscati, storico del cinema, sceneggiatore e regista, di
ritorno da un viaggio negli Stati Uniti svolto fra la fine del 2001
e l'inizio del 2002.
Per arrivare a Mystic, Connecticut, nel New England, si passa per
Mystic Pizza. La meta del mio viaggio continua ad essere New York,
anche se a tre mesi dall’attentato del settembre più nero della
storia recente americana, la fretta di arrivarci non c’è. Anzi, c’è
quasi il desiderio di ritardare il più possibile l’incontro.
Perché i miti sfigurati come New York agli occhi di chi ama come me
la città dei titani e delle contraddizioni possono riservare un
dolore acuto, di fronte al quale si può essere sinceramente
impreparati.
Perché il terrore non è finito e, al contrario, continua a
comparire e scomparire dal palcoscenico globale, uscendo e
rientrando da dietro le quinte. Perché il colpo alle Torri è stato
così forte che ha avuto ripercussioni fin dentro quel sogno
americano che è dilagato al di là dei confini degli Usa ed è
atterrato un po’ dovunque, diventando persino un modello
accattivante, spesso proibitivo e talvolta ingannevole. Il colpo ha
prodotto una domanda rimasta senza risposta: è immaginabile pensare
a un mondo senza l’America, un mondo in cui può esistere solo un’America
avvilita, costretta a chiudersi in se stessa?

Mi faccio questa domanda mentre, con un treno
lento, mi avvicino a Mystic, appunto nel Connecticut, regione che fa
parte del New England, che ha avuto un grande ruolo nella storia
dell’America perché fu uno dei tredici stati che diedero vita all’unione
nel 1788. 1788, una data importante: un anno dopo cominciava la
rivoluzione francese, madre o matrigna di molte rivolte,
rivoluzioni, trasformazioni rivoluzionarie in Europa.
Se ho detto che per arrivarci si deve passare per Mystic Pizza è
perché esiste un film del 1989 che porta questo titolo; il regista
è Donald Petrie, e tra le attrici spicca una allora giovanissima
Julia Roberts, praticamente al debutto. Si tratta della storia di
tre ragazze portoghesi che lavorano in una pizzeria, impegnate in
altrettante vicende amorose con alterne fortune e un obiettivo
comune: cercare la felicità. La felicità, questa parola magica che
figura nella Costituzione americana e che il cinema ha coniugato in
maniere talmente diverse, e spesso sdolcinate, da trasformarsi in
una specie di scuola dell’obbligo dei sentimenti, e così come l’ha
pensata e realizzata, la esporta ancora con centinaia di film in
ogni angolo del mondo dove c’è un cuore in attesa di una carezza.
Può essere capitato a molti di ignorare che esistesse in una parte
dell’America una città chiamata Mystic. A me è capitato e l’ho
scoperta grazie a Petrie e alla Roberts. Ma non mi ci sono recato,
lo assicuro, per ritrovare il teatro delle tre ragazze innamorate e
dei loro desideri impastati con farina e mozzarella. Sono andato a
Mystic per recarmi in in visita a una coppia di amici, ex
diplomatici americani (vissuti anche in Italia), che hanno deciso di
vivere lì, o meglio lì vicino, in una località che si chiama
Stonington. Loro stessi, e un po’ se ne dolgono, sanno che il film
di Petrie, e il suo successo molto diffuso, hanno fatto sì che
Mystic e la zona circostante non siano più nomi ignoti per i per i
consumatori di pellicola e i curiosi di geografia.
Per raggiungere Mystic, e quindi Stonington, si può passare
attraverso l’immaginario , come è capitato non solo a me, tramite
la mediazione di un film; ma l’impressione diretta propone subito
altri squarci, altre sensazioni. Lo sguardo si proietta fuori dai
finestrini di treni pigri e riposanti, e ti vengono incontro comode,
dense panoramiche storiche e turistiche.
Ecco dunque il New England, la terra che, come dice la
denominazione, è il luogo dove sbarcarono provenienti dall’Inghilterra
i puritani del “Mayflower” e dove -ripeto- si costituì il primo
nucleo dei futuri Stati Uniti; una terra vasta che comprende appunto
il Connecticut, il Maine, il Vermont, il Massachusetts, il Rhode
Island e il New Hampshire.
E’ un pezzo d’America che, in apparenza, sembra avere poco in
comune con le città toccate dal viaggio che stiamo facendo (Miami
Beach, Key West, Everglades, Sarasota, Orlando). La temperatura è
generalmente più rigida, la natura più bagnata e più verde,
mentre le acque del mare e dei fiumi sono solide come pianure. I
grattacieli non ci sono, almeno a Mystic a dintorni, e tanto meno a
Stonington, che è un piccolo villaggio fatto di case di pescatori,
di ex pescatori o di gente che ha deciso di spendere lì i propri
risparmi per remare e, se capita, per tirare su con l’amo qualche
pesce.
A Mystic ci sono le tre ragazze portoghesi della pizzeria, e
portoghesi sono gli emigranti che si sono stabiliti in questo posto
da anni e anni, convivendo pacificamente con emigranti italiani che
hanno dimenticato la loro lingua d’origine e spesso vedono
trasformare la pronuncia dei loro cognomi. Fra questi, ho conosciuto
il proprietario di una pescheria, ricca di astici e aragoste, che
gli abitanti di Stonington chiamano ormai definitivamente Puggleise;
un uomo giovane, bello, alto che sorride, senza capire, se qualcuno,
come me, tenta di risvegliare il ricordo almeno della lingua dei
parenti lasciati da tempo in Italia e lo chiama Pugliese.

Ma la diversità di Mystic, e quindi di Stonington,
non sta tanto nel fatto che varie provenienze si sono mescolate o
vivono in pacifiche comunità, quanto nella cura dell’ambiente e
degli insediamenti. Ogni casa, specie se di legno, è considerata
una sorta di museo. Sembra lustra come la schiena di un cavallo da
corsa, dipinta e ridipinta, stuccata e custodita come un monumento o
una statua sacra. Sulla porta o nel piccolo giardino di queste
dimore che trasudano due secoli di vita ci sono iscrizioni con i
nomi di chi le occupò, generali, uomini politici, imprenditori,
cittadini che in quel legno e cemento hanno segnato la presenza di
avi preziosi, gli avi che hanno raccolto e condotto avanti la
leggenda americana della terra promessa trasformatasi, almeno nelle
intenzioni, in terra della giustizia secondo i meriti e della
libertà secondo coscienza e secondo il senso della comunità.
Qui anche un piccolo porto, come quello di Mystic, diventa un museo
all’aperto, con navi esposte al pubblico come se fossero gioielli
etruschi; con abitazioni e altri interni in cui l’arcolaio o il
camino sono lindi come un altare nelle chiese del sud Italia; con
custodi che hanno la grazia e la convinzione degli orgogliosi
superstiti di una gloriosa tradizione di inventori della memoria, in
un immenso paese che ha avuto poco tempo per costruirsela.
Qui l’eco della “guerra giusta” contro la “guerra santa”,
che sembra ruotare ininterrottamente, ineluttabilmente, nella
minacciosa e luttuosa incombenza del massacro delle Torri, arriva
attutito; eppure, lo si sente nelle parole degli ex diplomatici o
del signor Puggleise che si saldano con i segnali di custodia del
vecchio New England e del suo spirito nazionale. Uno spirito
nazionale che è un’altra faccia del sogno americano, quello
riservato e solido, esteso e dominante nelle periferie piuttosto che
le capitali dello show business come Los Angeles, San Francisco e
naturalmente New York, uno show che deve continuare anche se il nodo
alla gola non si scioglie.
Ne parlo con gli amici ex diplomatici, persone che conoscono molti
paesi, parlano diverse lingue e collezionano nella loro casetta di
Stonington libri, musica, videocassette che vengono dall’Africa,
dall’Europa, dal Terzo Mondo. Lui ha vissuto la seconda guerra
mondiale in Ungheria, ha visto da vicino lo stalinismo, si è
adoperato perché questa ideologia totalitaria pragmatica e crudele
non si propagasse altrove; lei, più giovane, parla più volentieri
di cultura, ad esempio di Eugene O’Neill, il grande commediografo
molto amato nel New England che gli ha dedicato teatri e una
venerazione senza retorica. Entrambi i componenti della coppia
continuano a credere negli Stati Uniti, e nella “missione” che
questo paese ha storicamente assunto (spesso sollecitati da paesi
che aspiravano a diventarne stretti alleati).
I due ex diplomatici non pronunciano parole d’odio o di vendetta.
Sono convinti che due secoli d’America possano bastare per
costruire una consapevolezza. Dicono gli studiosi di cose americane,
i cosiddetti americanisti, che non si tratta, in questo caso, di una
ulteriore prova d’innocenza rispetto alla durezza della storia e
oggi come non mai della cronaca; ma di un passo ulteriore, anzi dell’ammissione
che l’innocenza è finita con la prima e la seconda guerra
mondiale, con la guerra in Corea e la sconfitta del Vietnam, e i
conflitti che sono seguiti e ancora continuano.
A Mystic, città svelata dalla cinema, città custode gelosa di un
passato prossimo tenuto alto, solenne, celebrativo come un passato
remoto, il presente scorre come uno “Strano interludio”, il
famoso dramma di O’Neill, un tempo in cui le stranezze possono
essere tragedie senza che ciò convinca gli emigrati portoghesi e
italiani, gli americani discendenti del “Mayflower”, e chi viene
a cercar radici qui, a cambiare strada. Puritani moderni. Per
rispondere all’interrogativo posto all’inizio: a Mystic, e
dintorni non c’è un’America avvilita ma un’America che si
tiene stretta a qualcosa che viene da lontano, e questo qualcosa è
l’idea di avere comunque cominciato appena due secoli fa un
capitolo del romanzo della modernità non ancora avviato alla fine.
Con o senza l’inafferrabile Osama Bin Laden.
(6-Continua)
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