Danza macabra
Antonia Anania
La noia profonda e l’ipocrisia sottile, la vita quotidiana
apparentemente tranquilla e i pensieri subdoli e disperati che
stanno nelle menti di un marito e di una moglie sono alcuni dei ‘sentimenti’
che percorrono Dödsdansen, il dramma che Johan August
Strindberg scrisse nel 1900 e che in questi giorni ritorna al Teatro
Greco di Roma, tradotto e adattato da Antonia Brancati, per la regia
di Armando Pugliese.

Armando Pugliese
Dödsdansen diventa così Danza macabra che -si scrive
su alcuni vocabolari- è quella danza guidata dalla morte, che sta a
fianco di uomini di ogni classe sociale. In termini pratici, la
danza di cui si parla nel testo è la Marcia dei Bojardi, che nei
suoi movimenti, viene ora ballata dal capitano Edgar, impersonato da
Roberto Herlitzka, ora dalla moglie Alice, Giuliana Lojodice.
Due coniugi che vivono isolati su un’isola, all'interno di una
torre, e comunicano con gli altri e con i figli tramite un telegrafo
(per evitare i pettegolezzi delle telefoniste). La messinscena e la
scenografia ricordano l’ambientazione di The Others il film
suspence di Alejandro Amenabar con Nicole Kidman -anche lì
un’isola, anche lì una casa illuminata dalle sole candele, e un’atmosfera
cupa e claustrofobica. Ma lì si trattava di fantasmi.
Danza macabra è una danza cattiva, in certi momenti
isterica, in altri tragicomica, che vorrebbe portare alla morte o
comunque alla distruzione dell’altro ma che alla fine porta solo
al punto di partenza: il divano, dal quale comincia la storia e sul
quale siedono i due coniugi che dapprima immobili e silenziosi -lui
appoggia le mani alla guancia, lei le schiaccia sulla faccia- poi
prendono e riprendono a parlare delle loro nozze d’argento
imminenti. Finisce dunque come era iniziato l’adattamento di
Antonia Brancati, mentre Strindberg scrisse una seconda parte, che
non aggiunge nulla alla situazione coniugale, se non alcuni
corollari -compresa la morte di Edgar.

Roberto Herlitzka
Tra quelle due parentesi si sviluppa l’azione, e il ballo
ovviamente: arriva il cugino Kurt (Toni Bertorelli) che per Alice
potrebbe diventare l’ultima occasione per fuggire da questa grigia
vita coniugale, da un uomo che è “un estraneo tanto quanto 25
anni fa”; “un vampiro” al quale “piace addentare la vita
altrui”. Dal canto suo, Edgar finge di star bene e di aver chiesto
il divorzio e si mostra agli occhi di Kurt un uomo tranquillo con le
sue ragioni e abitudini militari. Allora è una sorta di minuetto di
parole, di canti e controcanti, una lotta dell’uno contro l’altra
ad affiancare Kurt nel loro progetto di fuga dall’altro.
Alice cerca di sedurre il cugino per portare sul lastrico Edgar. Ma
quando quest’ultimo confida a Kurt di aver detto il falso e di
stare per morire, arrivano i rimorsi: Kurt scappa e marito e moglie
ritornano da soli. Perché -e Alice ormai lo sa bene- sono “saldati
insieme senza possibilità di separarsi”.
Ne La vita tranquilla, il romanzo che Marguerite Duras
scrisse nel 1944, si avvertono una simile atmosfera di apparente
tranquillità che cova invece una forte sensazione di disagio, e
soprattutto questo stesso “desiderio di volersi lasciarsi” che
però “trovava ogni pretesto per rinnegarsi”. La storia del
romanzo non ha nulla in comune con il dramma di Strindberg, in parte
è anche autobiografica, ma il sentire a volte è vicino. E Dödsdansen
è uno dei tre testi non suoi che Marguerite Duras ha tradotto e
adattato per il teatro francese, nel 1968. Sarà una coincidenza ma
piace pensare che la Duras si sentisse affine a Strindberg, o meglio
allo Strindberg di questo testo, anche inconsciamente.

Giuliana Lojodice
Ritornando alla messinscena italiana di questi giorni, è un piacere
vedere sul palcoscenico il trio Herlitzka, Lojodice e Bertorelli.
Sembra di ritrovarsi nel bel mezzo di un corso di recitazione. Sono
stati notati più volte i loro modi diversi di recitare, ma proprio
questa diversità e il loro stile individuale e la loro abilità
conferiscono un maggiore realismo ai tre personaggi, una sempre
minore tipizzazione.
Giuliana Lojodice è un’Alice severa, ma a volte anche querula, di
cui diresti: “Difficile viverci accanto!”. Toni Bertorelli
diventa un cugino debole ma che mostra a tratti di volersi vendicare
e così cambia registro e cambia ‘maschera’. E poi. Roberto
Herlitzka. E’ il perno della messinscena. Il marito che in fin dei
conti nessuno di noi vorrebbe avere. Sta sempre sulle righe e sulle
parole, dice menzogne ma con un fare a volte annoiato, quasi
perdonabile, e a tratti riconoscibilmente maschile.
E danza, spesso. Intorno alla credenza che diventa un altare
dedicato alla sua persona, dove accende le candele. Oppure intorno
al tavolo in alta uniforme e col mantello rosso -l’unica nota di
colore in una scena di grigi e marroni.
Danza macabra di August Strindberg, traduzione e adattamento
teatrale di Antonia Brancati, regia di Armando Pugliese, con
Giuliana Lojodice, Roberto Herlitzka e Toni Bertorelli, scene e
costumi Andrea Taddei, musiche Dino Scudieri, al Teatro Greco, fino
al 3 marzo.
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