Quarta tappa: Everglades
Italo Moscati
Quello che segue è il quarto di una serie di resoconti scritti da
Italo Moscati, storico del cinema, sceneggiatore e regista, di
ritorno da un viaggio negli Stati Uniti svolto fra la fine del 2001
e l'inizio del 2002.
Everglades è un parco nazionale, uno degli oltre centocinquanta che
riempiono di verde e di acque gli Stati Uniti. In Italia i parchi
sono ventidue e il primo, quello del Gran Paradiso, risale al 1922,
durante il fascismo. In America il primo parco fu aperto nel 1872.
Everglades si trova in Florida, a sud del Lago Okeechobee e ad est
della palude Big Cypress, per un’estensione di 1097 chilometri
quadrati: un’immensità. Anche a Everglades c’è, e ancora più
c’era, la palude. Le zanzare che sibilano nell’aria, quasi
invisibili, hanno un antico lignaggio: discendono dagli avi che
vivevano lì fin dai tempi dei pellerossa Seminole, e probabilmente
erano pesanti come aerei a reazione.
I Seminole, parenti poveri dei leggendari Sioux e Apache secondo le
lezioni di storia sui nativi americani diffuse e contraffatte da
centinaia di film di sangue e fantasia, conservano, o meglio
conservavano, nella regione una loro riserva; uno spazio di terra e
di specchi d’acqua che però a poco a poco si è svuotato e che si
può visitare come un rudere di stanche membra e di stanchi alberi,
più o meno allo stesso modo in cui in Italia si possono vedere
certe zone di campagna fra Umbria e Toscana dove ci si imbatte in
tombe etrusche levigate dal vento fino quasi alla cancellazione.

Stando così le cose, e cioè essendo rari i
pellerossa che peraltro sono per lo più ottuagenari e sembrano far
parte, vestiti casual come qualsiasi americano, di un grande
magazzino del folklore, l’ago di una bussola immaginaria mi
consiglia di evitare i Seminole e di scegliere il parco di
Everglades. Può essere un altro dei passaggi essenziali per
arrivare negli ultimi giorni del 2001 a New York, meta finale del
mio viaggio.
Essenziale perché luogo del silenzio, della natura, dell’aria
aperta, dell’uomo solo davanti a uno spettacolo rubato all’altra
mano, quella dell’uomo massa che ha bisogno di distruggere per
costruire le sue moderne caverne, alte e fragili come grattacieli,
le sue strade lunghe e soffocanti come le spire di un serpente boa.
Essenziale per guardare l’altra faccia dell’America colpita al
cuore, schiacciata dalla frase “Niente sarà più come prima”,
scolpita sul Ground Zero, rimbalzata tra stampa e tv in tutto il
globo.
Lo spettacolo rubato ti viene incontro solenne e brullo. L’erba è
secca, gialla, bruciata dal sole. Piccole piante strappano foglie
alla polvere. Altre piante, più grandi, curiosamente adorne di
chiome di un verde meno stinto, si attorcigliano su se stesse come
trivelle, come se scavassero sotto la terra in cerca di acqua. Lo
spettacolo è affascinante. Steven Spielberg deve averlo studiato
con cura per il suo Jurassic Park.
L’occhio, plagiato dal cinema, attende. Divertendosi. Attende il
burosauro che si alzi, sbadigliando al cielo, e cominci la caccia
alla preda in quel panorama di stecchi e di ghiande dure come sassi.
Attende il pipistrello gigante che vola anche di giorno, senza
vedere, guidato dal fiuto, verso il cibo guizzante sotto il pelo
degli acquitrini e degli stagni. Attende il mostro che si sollevi
dalle onde del mare che intrecci il suo sale con il sapore dell’acqua
dolce. Lo spettacolo è da vigilia della creazione o, viceversa, da
giorno dopo la fine del mondo. Assolutamente inquietante.
Poi, arriva il gesto dell’uomo. Lo si nota dappertutto, discreto e
onnipotente . Grazie ad esso, Everglades è curato come un antico
giardino all’italiana. Strade e sentieri si nascondono, eppure
sono tracciati con precisione e guidano il passo delle auto e dei
visitatori. Le macchie selvagge sembrano aiuole. Gli acquitrini
sono, agli ormeggi delle barche turistiche a motore, ordinati e
squadrati come piscine. Gli alloggi, spartani e lucidi di ruvido
intonaco, ricordano le casematte dei marine: pare di sentire, all’alba,
la voce del sergente che scandisce cantando gli ordini alla
compagnia che corre col fucile imbracciato. Come in Full Metal
Jacket di Stanley Kubrick.

L’elegante, jurassico giardino all’italiana
nei giorni della guerra in Afghanistan si trasforma in un pezzo di
giungla in cui, dopo i "musi terracotta" dei pellerossa
spuntano i "musi gialli" dei giapponesi, dei vietnamiti,
dei soldati di Saddam Hussein corrosi dal ghibli nel deserto arabo.
Ovvero, ritornano le immagini della guerra infinita combattuta dagli
americani per tutto il vecchio secolo, una guerra che continua.
L’Afghanistan significa la caccia a Osama Bin Laden ,fin dentro le
caverne di Tora Bora o di una delle tante località sperdute su cime
montuose e inaccessibili dove sono disseminati i covi dei talebani.
Un salto storico e geografico: dalla giungla, dopo la lunga
esperienza di vent’anni fa nel Sud Est Asiatico nel lancinante
ricordo del Vietnam, all’antro invisibile, anzi ai cunicoli che si
perdono verso il Centro della Terra: un viaggio non meno
stupefacente di quello raccontato da Jules Verne.
Una caccia difficile, lunga. L’amara lezione della giungla e delle
risaie vietnamite torna a bruciare i piani militari dei generali che
organizzano le strategie a tavolino, affidandosi soprattutto oggi ai
grappoli di bombe sganciati da aerei senza pilota. La paura di
sbagliare e di fallire l’obiettivo principale - la cattura dell’uomo
che si crede dio - si staglia nel cielo delle speranze americane
minacciosa e sinistra, anch’essa “duratura” come l’invocazione
alla pace di Bush junior?
Dall’Everglades senza caverne, piatta e liquida, con i suoi docili
alligatori e coccodrilli, parte un curioso messaggio. O almeno a me
così sembra, salendo sul tranquillo battello che un pilota
silenzioso guida immerso nei suoi pensieri. E’ il messaggio degli
spazi liberi contro gli spazi angusti e scavati nelle viscere della
terra o delle montagne.
La contrapposizione è fin troppo facile. Da una parte, le infinite
praterie e le cavalcate sotto il sole cocente, in cui ebbri di
velocità a cavallo i cowboy tracciavano nuove frontiere; dall’altra,
il buco angoscioso delle caverne: ce ne saranno molte negli Usa, e
nei numerosi parchi che li costellano, ma quelli che il cinema,
regno della verità kitsch, ci presenta sono il più spesso delle
volte i covi dei nemici del mondo.
La lunga saga di James Bond ci ha mostrato potenti cittadelle
nascoste in caverne attrezzate e comunque sepolte vive, e adesso Il
signore degli anelli infila una dopo l’altra caverne in cui Frodo
e gli Hobbitt lottano con i lillipuziani e i mostri della sete di
potere, e della violenza senza quartiere. Insomma, la cavità è
nello schermo delle angosce denunciate dai film un incubo costante.
Le cavità afgane non sono le miniere dei pionieri a caccia d’oro,
promessa di ricchezza della vecchia America, ma la versione
fondamentalista e fanatica delle cittadelle dei piani di morte e di
sopravvivenza oltre la morte dalle quali Bin Laden ricatta il mondo
e gli americani.
Il peso del ricatto. Le truppe speciali e le spie mandate dal
Pentagono in territorio afgano a visitar buche, con la speranza di
bilanciare le polveri degli ignari caduti delle Twin Tower,
setacciano palmo a palmo scampoli di macerie o di zolle sfatte. Lo
abbiamo letto sui giornali e sentito alla tv. Lo scopo, secondo gli
ordini ricevuti, è quello di trovare e di infilare in una provetta
il lembo di pelle che permetta attraverso l’esame del Dna di
stabilire se tra i corpi caduti c’è Bin Laden, il nemico pubblico
numero uno, il santone del terrorismo, il male fatto talebano.
Peggio che cercare un ago nel pagliaio dei fossili dell’era
jurassica.
La visita all’Everglades, fatta di nulla, fatta di occhiate sparse
nelle macchie e nelle radure, fatta di vane ispezioni fra gli spazi
di mare per cercare le orche marine forse assopite sui fondali, l’ho
trascorso soprattutto guardando le persone che vi circolavano:
coppie normali, solitarie; ragazze col fidanzato, signore con il
marito o l’amante, e viceversa; una vera e propria rassegna di
ordinary people.
Non ho notato desideri di vendetta nei loro sguardi, ma forse molti
di loro la pensano come lo scrittore Martin Cruz Smith: “Adesso la
cosa più giusta da fare è catturare Osama. Dobbiamo avere la sua
testa. Bin Laden è nella maniera più assoluta un folle che ha
stabilito, con fredda determinazione, di assassinare migliaia di
innocenti. I cinquemila che sono morti nel crollo delle due torri.
Chiunque uccida tanti tuoi compatrioti va oltre qualsiasi sentimento
tu possa valutare e considerare con la freddezza della logica. Credo
che la vendetta sia il sentimento più esatto, e confesso di non
aver nulla contro la vendetta. Tanto meno in questo caso”.
Everglades è un ambiente perfetto per un paese che ama l’avventura
e le gare di sopravvivenza, tanto è vero che proprio l’America ha
inventato addirittura un format televisivo venduto in tutto il
mondo, Survivor, in cui vince chi resiste a ostacoli reali o
artificiali. Everglades è la curata faccia brulla di un territorio
che ci ricorda da dove siamo venuti, dalla lontana notte dei tempi,
e dove potremmo finire se i nemici rintanati nelle caverne e la
voglia di vendetta continueranno nella loro gara per la fine della
sopravvivenza.
(4 - Continua)
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