Terza tappa: Orlando
Italo Moscati
Quello che segue è il terzo di una serie di resoconti di Italo
Moscati, storico del cinema, sceneggiatore e regista, di ritorno da
un viaggio negli Stati Uniti svolto fra la fine del 2001 e l'inizio
del 2002.
Mi metto le scarpe da tennis di Jack Kerouac e m’incammino per il
Walt Disney World di Orlando, il World più grande del Mondo, 43
miglia quadrate, due volte l’area urbana di Manhattan. Le scarpe
da tennis sono blu, con una larga fascia bianca di gomma a sfiorare
la terra, una fascia molto larga: quasi un soffice ammortizzatore.
Le shoes sono simili a quelle che portava lo scrittore di Sulla
strada, come ho potuto vedere in una sua fotografia che lo ritrae a
pochi mesi dalla morte, seduto a un tavolo con la testa appoggiata
alla mano destra e le gambe incrociate, stanche. Le ho comprate in
un enorme magazzino per millepiedi, dove c’è ogni tipo di
calzatura, uscendo da Key West. Gusto per i cimeli o fantasia
retrò? Comunque, le shoes sono belle e comode: metteranno le ali ai
piedi?
In marcia. Con le scarpe del poeta senza meta, seguendo vecchi sogni
del mito americano, mi metto sulla strada, viaggiando indietro nei
ricordi. La molla scattata è nota, e viene dalle cronache della
morte; la morte che, come diceva Pier Paolo Pasolini, favorisce il
montaggio a ritroso della vita. Ecco. Sono sospinto verso il
passato, come tanti altri, dall’urto fatale al World Trade Center
dell’11 settembre - un altro World; in America, la parola Mondo è
nei tempi la moneta della grandezza e della speranza, o della
superbia (come dicono i critici più severi di quel Paese). Dalla
spallata mortale alla non più intangibile New York, l’appena ieri
torna impetuoso dalle tenebre di quel giorno senza cuore.

Quanta sabbia hanno raccolto queste shoes.
Appartengo alla generazione che, in una città del Nord d’Italia,
era già in marcia, e si guardava intorno con stupore, quando,
svanita la polvere sollevata dalle bombe degli Alleati, gli adulti
si riempivano le tasche della cioccolata, dei pacchetti di
sigarette, della gomma di masticare regalati dai soldati americani.
Si continuò, dopo quelle date, a festeggiare a lungo la Liberazione
avvenuta. Con i musical e le canzoni di Glenn Miller o di Cole
Porter, con il boogie-woogie e i primi ritmi afroamericani.
La mia e le generazioni venute successivamente si eccitavano per il
vecchio jazz di New Orleans, recuperato al silenzio della guerra, e
per il nuovo jazz di Charlie Parker, Gerry Mulligan, Chet Baker; si
entusiasmavano per il ruvido neorealismo made in Usa di Marlon
Brando in Fronte del porto o per Il seme della violenza con la
travolgente colonna sonora di Bill Haley and His Comets (Rock Around
the Clock, il primo inno dei teenager del mondo senza
totalitarismi). E poi gli stessi giovani si inoltravano nella
America della Leggenda con i libri, rispuntati nelle biblioteche, di
Dreiser, Caldwell, Steinbeck, Dos Passos, Faulkner; e, quindi, degli
autori della beat generation e poi di Kerouac, trentenne senza
trionfi, comparso sulla strada dei giovani ormai stanchi di feste da
ballo e di eroi da grande schermo. Quanta sabbia d’oro nelle shoes.
Nelle scarpe c’erano anche i sassolini di kryptonite (l’energia
di Superman) che erano Fantasia, il capolavoro di Walt Disney del
1940 che arrivò in Italia nel dopoguerra inoltrato; e Un americano
a Parigi, un altro capolavoro, di Vincent Minnelli. Impasti
inauditi, d’avanguardia. Nel primo i cartoni animati, per alcuni
snob merce avariata, si misuravano con Bach, Stravinskij, Dukas,
Ponchielli; nel secondo, le travolgenti musiche mostravano di andare
d’accordo con gli stili visivi di Dufy, Toulouse -Lautrec, Renoir,
Van Gogh, Utrillo.
Era un nuovo mondo che lasciava spazio per l’esplosione di
irresistibili contaminazioni di un geniale kitsch: come non
ricordare Carmen Miranda e i suoi grandi cappelli di banane e ananas
in Saludos Amigos, sempre scuola Disney; oppure South Pacific di
Joshua Logan, con i più improbabili marine che si siano mai visti
sullo schermo attorno all’amante latino Rossano Brazzi?

Quando entro a Orlando nel Walt Disney World,
queste lezioni d’arte e di spudorata ibridazione mi compaiono
tumultuosamente dentro e mi pare persino di sentire la musica di
Ponchielli per il ballo degli ippopotami e degli elefanti in tutù
di “Fantasia”. Anzi, credo proprio di vederli, questi campioni
di peso e di danza. Vengono da ogni parte. Il World di Disney è
esteso come una città-globo che contiene molte altre città e
lingue di terra d’ogni parte, da Parigi a Venezia, da Londra a
Shangai, come i fondali di un set; per i turisti sono stati
costruiti quartieri e alberghi che portano nomi di terre che fanno
sognare: Trinidad, Barbados, Jamaica, Martinica.
In questa terra virtuale e concreta, fatta sogni che si
trasferiscono negli affari, arrivano gli ippopotami e gli elefanti.
Di carne e ossa, e non di cartone. C’è forse un motivo molto
preciso. Quest’anno, a causa dell’attentato a New York e della
guerra, gli stranieri hanno portato i loro bambini altrove, magari
al Walt Disney World di Parigi; e quindi, di conseguenza, il gran
tour creato dall’inventore di Topolino ha avuto come solo
protagonista il pubblico degli States, che ha coperto in parte le
assenze, pur facendo registrare un calo del 14% rispetto allo stesso
periodo degli anni precedenti.
Eccoli , dunque, svestiti per il caldo, gli americani depurati dai
visitatori provenienti da altri paesi: un esercito di ciccioni, una
massa di pellegrini a piedi, nei bus, nelle vetture della
monorotaia, in cammino verso la Lourdes del divertimento, gravida di
pop corn e di junk-food. Il miracolo che si cerca non è quello,
spesso ossessivo nella società non solo americana, del
dimagrimento; ma è la cura di anime afflitte dal nemico nascosto
Osama Bin Laden e dal terrore che colpisce con corpi obesi di
esplosivo.
La vera rappresentazione del World, oggi, è in questa gente. Sono
decine, centinaia, migliaia questi pellegrini in sovrappeso. La
musica di Ponchielli (che immagino) li accompagna attraverso i
laghetti, i caffè, la taverne; si diffonde nelle sale ,dove si
compiono viaggi del futuro o stanno immobili come statue della
contemporaneità i dinosauri ; si spande nei cinema dove si racconta
la prodigiosa storia di Walt, genio e mercante dell’intrattenimento
per le famiglie; s’infila negli spettacoli e nei cortei
multicolori per strada; sfiora robot e manichini che rifanno la
storia dei pirati o dei cow-boy nel selvaggio West degli ultimi
pellerossa.
Sono i percorsi e le immagini che le televisioni hanno portato in
tutte le case ; fanno parte delle offerte delle compagnie di
viaggio; scenari e robot che comunque vale la pena di scoprire di
persona per il piacere di partecipare ad un gioco senza fine. Un
gioco diventato un po’ triste, nonostante gli strilli di
meraviglia dei più piccoli e l’estasi dei Forrest Gump sopra il
quintale. Gli organizzatori hanno fatto molto per non sciupare il
gioco famoso e per cancellare l’ombra sinistra della morte che
sorvola l’America dall’11 settembre. Ad esempio, nel globo
disneyano mani premurose e rapide hanno tolto le immagini della
Torre Gemelle. New York risplende con i suoi grattacieli di prima,
ma è un fondale amputato e doloroso.
L’ordine regna sovrano in questo World con il fiato sospeso. Il
funzionamento delle macchine è perfetto. Le enormi piattaforme ,in
cui si imbarcano i visitatori ,si spostano agili da uno schermo all’altro,
lungo i tunnel dove si affacciano mostri, bambole leziose, gangster,
topolini, paperini e altri eroi; serpeggiano tra manifesti, cimeli,
costumi dell’era d’oro del cartoon; e planano, alla fine, verso
le uscite, soffici come silenziose e terrestri mongolfiere . Ma ciò
che sembra incredibilmente “vero” sono i manichini. Manichini
fatti talmente bene, con una cura così definita al dettaglio, che
per qualche secondo possono sembrare attori in movimento.
E invece sono Mark Twain o Benjamin Franklin, e altri Padri
Fondatori dell’America, fatti di metallo, stoppa e stoffa, che
raccontano la grande avventura della Patria, fra una battuta
spiritosa e una sentenza. Il popolo del grasso superfluo li guarda e
li ascolta, addirittura si commuove, applaude, ripete le parole
degli inni. Quest’anno questo popolo semplice, imbottito di
emozioni ricreate, pensa al ragazzo che sgancia bombe a Kandahar e
cavalca gli elicotteri nuovi che hanno sostituito quelli, demoliti,
del Vietnam di Apocalypse Now. Ma si attacca appassionatamente, con
la mano sul cuore, ai manichini dei Padri che si svegliano ogni
giorno a orario fisso dentro il magico teatro del World Mickey Mouse
Center.
Quando lascio il monumento di Disney a se stesso e alla sua
indimenticabile soffitta di animali fatti uomini, mi guardo le
scarpe che ho copiato dalla foto di Jack Kerouac. Sulla strada, su
questa strada, nella sabbia d’oro delle forti memorie americane in
cui sono, siamo cresciuti in molti, è forse caduta qualche goccia
di grasso.
(3- Continua)
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