Seconda tappa: Key West
Italo Moscati
Quello che segue è il secondo di una serie di resoconti di Italo
Moscati, storico del cinema, sceneggiatore e regista, di ritorno da
un viaggio negli Stati Uniti svolto fra la fine del 2001 e l'inizio
del 2002.
Forse è l’unico posto al mondo che celebra ogni giorno, davanti
al mare, il tramonto di un sole che sta da sempre fisso nel cielo e
non conosce né autunni né inverni. Key West, sottile lisca di
terra e di lunghi pontili di un arcipelago a 180 chilometri da Cuba,
piccola città di trentamila abitanti circa che si gonfia di
tre-quattro volte quando arrivano i periodi delle vacanze, tiene
molto a questa festa che si chiama esattamente “La celebrazione
del tramonto”.
L’appuntamento quotidiano è per le 18 sulla elegante serpentina
di legno che passa davanti a bar e alberghi e ruba spazio al mare,
trasformandosi nel ponte di una nave immobile agli ormeggi. Qui, in
attesa del sunset show, sono pronti gli showmen e le showwomen.
Saltimbanchi bianchi e neri che camminano sul filo e suonano la
batteria in cima a una scala; o che mimano gatti, i quali a loro
volta mimano gli esseri umani secondo gli ammaestramenti degli
stessi mimi. Acrobate che, con un colpo di zip, passano da un
costume alla Mary Poppins all’abito inguainato di Gilda; o che
ballano leggere come libellule il tip tap dei centocinquanta chili.
E poi, tra la gente, scivolano, discreti, rapidi ed evanescenti,
altri personaggi come fantasmi, uomini magri con il cappello a larga
tesa, l’impermeabile stretto sul vestito liso; donne pallide e
truccate a sciabolate di rossetto, che sfoggiano tacchi a spillo,
giarrettiere, persino velette.

E’ un’America in bianco e in nero, anche se
colorata dal sole, come quella che sta in bilico tra ieri e oggi in
L’uomo che non c’era dei fratelli Coen. Stereotipi che diventano
maschere da pontile nell’America del kitsch che si confonde con il
luna park. Figure tipiche di un melting-pot molto speciale, maturato
nel tempo e sugli schermi del cinema e della tv; per cui non ci sono
fusioni tra razze diverse verso un un’unica identità, ma una
sorta di costruzione all’interno di una singola persona, o meglio
di un singolo personaggio. Chi è, infatti, il “barbiere” di L’uomo
che non c’era, interpretato da Billy Bob Thornton, se non appunto
un crogiuolo di normalità, crimine, sentimento e sogno? E chi è
sua moglie, la contabile che se la intende con il suo superiore,
interpretata da Frances McDormand, se non un ibrido di fatalismo,
velleità, illusione e fragilità?
Sul ponte di Key Westi questi ibridi ci sono tutti. Nell’attesa
del tramonto, forse più appuntiti e più febbrili del passato, i
loro occhi guardano la linea dell’orizzonte, per dimenticare all’imbrunire
giorni dolorosi e imbarazzanti. Key West, piattaforma gettata sul
mare, lingua di terra e di cemento, dove il ricordo di Ernest
Hemingway si affaccia da molte vetrine di canne da pesca e in
boutique per gay, accoglie con dignità da nobile decaduta gli
sguardi dei turisti (quest’anno quasi soltanto americani) che
provengono dalle case di legno e colla, pescatori d'altura delle
residue atmosfere del Vecchio e il mare, cacciatori di serenità.
Tra questi, a poco distanza e non mescolati ai ragazzi che bevono la
birra, si muovono a piccoli passi i giovani marine in licenza;
portano come sempre i capelli corti e hanno il volto scavato; della
divisa hanno conservato i pantaloni, per il resto indossano T-shirt
bianche accollate. Parlano tranquillamente. Sorridono poco. Non si
guardano intorno. Non sono Rambo, ma onesti lavoratori volontari del
mestiere delle armi in pausa tramonto.
Sono i giorni in cui la televisione ha scoperto un nuovo personaggio
e lo propone con continuità e insistenza, rivoltandolo tra le
notizie dall’Afghanistan come si fa con gli hamburger sulla
piastra. Il suo nome è John Walker Lindh, vent’anni, il ben noto
talebano americano. Quando assisto alla “celebrazione del tramonto”,
a una settimana dal Natale, il suo nome ha percosso come una
frustata l’intera nazione. Eccolo sul video, il nemico pubblico
numero uno, dopo Osama. La scena, l’unica girata fino a quel
momento, lo mostra sofferente, disteso su una barella. Indossa una
maglietta bianca; una mano cerca di aiutarlo a indossare una camicia
a quadri. I capelli sono naturalmente da talebano, lunghi,
aggrumati; ma più talebana ancora è la barba, nera, fluente,
appuntita.
Le immagini sono mute, vediamo soltanto le labbra di John-Mujahid
muoversi, forse lamentandosi per il dolore provocato dai movimenti
sulla barella. Ed è proprio da questa scena muta che sembra venire
un’ondata di domande che l’America del dopo 11 settembre ha
cominciato a porsi, a partire dagli occhi fondi e dal fisico sottile
di un solo talebano, cresciuto nella terra a stelle e strisce, e
andato a combattere in Afghanistan dalla parte del nemico. Una
impetuosa ondata di domande che si può riassumere in una sola,
breve, semplice: che significa?
Una semplicità apparente, pesante come un macigno. Ovvero: come e
perché John è diventato Mujahid e, anziché indossare i jeans e
ingozzarsi di pop corn al cinema, si è messo il turbante e ha fatto
la fame nelle caverne del diavolo che si crede dio, Osama Bin Laden?
E’ un quesito così importante, e capace di scavare così in
profondità, che forse neanche il tribunale di fronte al quale è
comparso dal 25 gennaio riuscirà a dare rapidamente ed
esaurientemente una risposta dopo aver concluso il lungo elenco dei
capi d’accusa, dal complotto per uccidere americani all’estero
alla complicità con i terroristi.
Un dato comunque sembra certo: nessuno, sui giornali o le tv
americane, presenta John-Mujahid come l’ultimo “folle” di una
lunga teoria che va indietro nel tempo e dove sono stati elencati,
spesso a gran velocità, Lee Harvey Oswald (l’uccisore di John
Kennedy), Charles Manson (il capo diabolico di una setta assassina),
David Koresh (il leader di un’altra setta composta da pacifici
uomini in attesa di una imminente fine del mondo), protagonisti di
fatti rimasti nella storia e non soltanto nella cronaca, e talvolta
vittime di accanimento infondato e interessato, come pare sia
accaduto nel caso di Koresh.
John-Mujahid è un bianco, non un nero convertito all’Islam come
Malcom X o Cassius Clay, e il frequentatore di una parrocchia
cattolica, cioè non proviene dalla profonda protesta della gente di
colore che, alla ricerca di radici, andava cercando nella religione
musulmana i sensi della lontana Africa. Già, chi è veramente il
giovane Walzer che si era trasferito nel 1999 in Pakistan per
studiare il Corano e aveva deciso di unirsi ai talebani combattenti
della guerra santa? Qual è il suo segreto melting-pot, cioè il
connubio di utopie o frustrazioni che lo hanno prodotto e preparato
al gran salto verso il Capo-dio e avviato alla lunga marcia della
probabile condanna all’ergastolo?

I marine in vacanza a Key West sono coetanei di
John-Mujahid che, quando sarà cambiato e depilato dopo settimane
dalla cattura a cura della amministrazione americana, assomiglierà
a loro in modo impressionante. Gli stessi occhi limpidi, la fronte
chiara e spaziosa, le orecchie un po’ grandi, l’aria sognante.
Ma a Key i marine in libera uscita sanno di essere in vetrina,
riconosciuti dalla folla che si accalca insieme a decine di
ragazzini sul ponte di legno che si affaccia sul mare.
Mostrano tranquillità, non puntano neppure le ragazze, sembrano
emettere così composti e sereni segnali di protezione: “Siamo
qui, domani saremo forse a Kabul a fare il nostro lavoro”,
sembrano suggerire mentre comprano piccoli ricordi o chiacchierano a
bassa voce tra di loro. Sono gli eroi anonimi a passeggio in un’America
che sembra non avere più bisogno di eroi? La tragedia ha effetti
curiosi. Se nel settembre 2000 l’American Enterprise Istitute, un
centro di studi conservatore, stabilì attraverso un sondaggio che
la stragrande maggioranza degli interrogati rispondeva che era
difficile trovare eroi fra i proprio contemporanei e bisognava
andarli a cercare nel passato; dopo l’11 settembre, gli atti di
eroismo dei pompieri e della gente comune, secondo la Carnegie Hero
Fund Commission - una fondazione il cui compito è di premiare
annualmente gli americani che abbiano compiuto gesti di valore -
hanno rovesciato la situazione.
Per questi motivi, la Carnegie ha annunciato che quest’anno dovrà
proporre un riconoscimento collettivo, perché di eroi ce ne sono
stati “fin troppi”. Vedremo. Intanto, a Key West, il sospirato
tramonto arriva sul pontile, veloce, per farsi celebrare. Il sole è
ben nitido dietro poche nuvole, prima di tuffarsi nel mare. I mimi,
i saltimbanchi, i marine, i turisti fanno silenzio, alcuni si
tengono per mano e formano a poco a poco, con altri, una barriera.
Anche loro finiranno nel riconoscimento collettivo della Hero Fund
Commission?
(2-Continua)
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