Prima tappa: Miami Beach
Italo Moscati
Quello che segue è il primo di una serie di resoconti di Italo
Moscati, storico del cinema, sceneggiatore e regista, di ritorno da
un viaggio negli Stati Uniti svolto fra la fine del 2001 e l'inizio
del 2002.
Viaggio nel kitch dell'America
Come un pellegrino va alla Mecca, o a San Pietro per il Giubileo, o
al Muro del Pianto in Israele, così vado io nell’America dopo l’11
settembre. Sono passati circa tre mesi dai colpi, un micidiale
uno-due, che siluri di acciaio e di umanità guidati dai disumani
piloti della morte hanno messo a segno sul ring dominato dalle
imponenti Torri Gemelle, giganti dall’anima di cemento armato e i
piedi d’argilla.

Sono i giorni prima di Natale. A Miami Beach, dove
atterro, Babbo Natale porta il bikini e sgambetta sulla spiaggia, e
ci sono ombrelloni travestiti da abete. In un giardino, in mezzo ai
sette nani di coccio, ho visto un piccolo presepio, forse anch’esso
di coccio. Ho voluto cominciare proprio da qui, dalla bianca sabbia
davanti all’oceano, il mio pellegrinaggio americano. La meta, il
punto d’arrivo, sarà il Ground Zero, a Manhattan, il luogo delle
ceneri delle Torri e del pulviscolo dei corpi, dove fa molto freddo,
i Babbi Natale scarseggiano e quelli che ci sono tengono una
minuscola bandiera a stelle e strisce appesa come una medaglia alla
giacca rossa. Li vedrò di persona, quando sarò a New York, mentre
si muovono a stento tra le bancarelle del dolore e dell’orgoglio,
in mezzo a centinaia di fotografie e di scritte: un colossale “chi
l’ha visto”, una agghiacciante ghost story.
Lo scopo del viaggio è capire qual è l’influenza che il mille e
più volte mortale uno-due ha avuto, anzi sta avendo nella vita di
tutti i giorni nel paese che ha attraversato molte frontiere nella
sua avventura storica e che oggi, più che mai, si trova obbligata a
misurarsi con una nuova, inaudita frontiera: quella della paura.
Paura che nasce da una vulnerabilità che l’11 settembre, come
sappiamo, ha messo a nudo, improvvisamente, drasticamente,
imprevedibilmente. Paura che scuote New York e tutto il paese ;
passa per i fili e le immagini della tv, della radio, del cinema;
cuce le parole nei giornali anche meno popolari; si infila nella
folla solitaria che si ammassa nei grandi magazzini e nelle
metropolitane; raggiunge e sorvola come l’ala nera di un enorme
vampiro l’America delle molte province sconosciute, l’America
delle vacanze, della spensieratezza, dei pensionati di lusso, del
turismo. Paura che si allarga a cerchi e stringe il cuore, a tutti.
Mi guida, nel viaggio, una parola che oggi si usa poco,
probabilmente perché le cose di cattivo gusto si sono così
moltiplicate che quasi non le riconosciamo più; ci siamo forse
finiti dentro fino a collo. Sono lontani, dimenticati, i tempi delle
belle cose di pessimo gusto di memoria gozzaniana, quando l’Italia
si rifugiava nelle glorie da soffitta e salotto della piccola
borghesia, e i massmedia erano al di là della linea dell’orizzonte.
L’America, in questo senso non era stata ancora scoperta.
La parola è d’origine tedesca ed è stata molto cara a sociologi
e semiologi della seconda parte del Novecento. La parola è kitsch.
Ovvero, come suggerisce qualsiasi vocabolario dell’era
contemporanea, quel sostantivo che è diventato in pochi decenni un
vero e proprio aggettivo, una sorta di definizione che pende come
una spada sulle forme d’arte; e che spesso, in nome appunto del
cattivo gusto affermato e ratificato dalle abitudini, sublima tutte
quelle forme e quei modelli quotidiani che entrano nelle case
uscendo dalle boutique, dai supermercati, dagli schermi del cinema e
della televisione. E vi si aggiungono le addomesticate ebbrezze che
si festeggiano nel gran circo dell’intrattenimento di massa,
piuttosto che popolare, al di là della tv, da una sagra
folcloristica ad un parco naturale ad uno show dei lustrini e dei
cascami.
La parola mi rimanda all’idea, diffusissima, che se c’è un
paese al mondo che ha saputo far fronte alla paura, anzi a tutte le
paure in oltre due secoli di democrazia, questo è l’America. In
nome di un coraggio che è scivolato dalla storia allo spettacolo,
dallo spettacolo alla storia, in un continuo, intenso scambio senza
soste. Un coraggio spinto al massimo, fino allaesagerazione e alla
retorica più esasperata, a volte talmente carico di speranze e di
desideri celebrativi da concludere la sua corsa fra le braccia avide
del kitsch. Allo scopo di trarne antidoti contro ogni veleno, contro
ogni minaccia.

In questa corsa, Hollywood e i network, ma anche i
McDonald’s o il Radio City Music Hall o il Walt Disney World
sembrano fondersi e diventare le grandi, irresistibili centrali di
un gusto più o meno cattivo, comunque sempre vistoso e spesso
attraente. Centrali per colmare un vuoto?
Il kitsch, dunque, come spia per guardare l’America a caccia di
Bin Laden, un Paese della Fortuna e dei Balocchi (benessere ed
entertainment), caro ai vecchi emigranti, che conserva , e vorrebbe
cambiarle, le vecchie maschere postmoderne, per esorcizzare il
terrore, la nuova paura.
Dunque, Miami Beach, prima tappa. Come gran parte la Florida, è
terra di pensionati. La Miami Vice della serie televisiva è un
ricordo; e se i vizi perdurano sotto la coltre della ripetitività e
del controllo poliziesco, un silenzio di lusso ha risucchiato l’atmosfera.
Tutto è o sembra tranquillo, accarezzato dal sole. I giorni dei
kamikaze hanno aggiunto un altro, pesante silenzio. La stagione
turistica non è ancora cominciata. I villeggianti sono pochi, fanno
le lucertole, poi si aggirano spaesati fra le lunghe teorie di
negozi anonimi con l’orologio fermo su un vischioso halloween
senza fine.
Vanno al New Cafè, dovesi trova qualche giornale italiano. Ci vanno
perché da qui si è mosso lo stilista Gianni Versace nel giorno in
cui l’hanno ucciso proprio davanti alla sua casa, una piccola
villa sulla soglia della quale c’è sempre una mano che porta un
mazzo di fiori. La villa sembra vuota. I turisti, specie quelli
giovani, si fermano qualche istante; e anche in quel poco tempo c’è
qualcuno, una ragazza, un ragazzo, che offre una bandierina.
Gli alberghi sono vuoti, anche quelli eleganti e costosi. In uno di
essi si può misurare quel che lo scrittore Martin Cruz Smith -l’autore
di Gorky Park, ha detto in un’intervista:”L’attentato alle
Twin Towers ha fatto emergere il lato migliore e quello peggiore
dell’America. Da una parte, c’è l’eroismo dei vigili del
fuoco di New York che continuavano a salire le scale dei grattacieli
che stavano crollando loro addosso, dall’altra la reazione
opposta, quella di chiuderci nel nostro piccolo privato, lasciando
spazio allo sciovinismo americano e al nazionalismo. Ha preso corpo
anche l’idea un po’ pazza che ciascuno possa bastare a se stesso”.
Nell’albergo esemplare, che ho visitato per puro caso, la
scenografia degli interni riecheggia il castello di Xanadu dove si
è segregato nel film Quarto potere Charles Foster Kane-Orson Welles.
La hall e il bar sono un palcoscenico buio e luminoso insieme,
nascosto al primo colpo d’occhio. Per arrivarci bisogna
allontanare con i gesti le lunghe lenzuola di garza bianchissima,
mosse dal soffio dei ventilatori, che scendono aggraziate dalle
grandi porte e dalle alte pareti. Dietro di esse, sipario che si
agita lentamente e promette la danza di Salomè, ci sono soltanto
televisori, sparsi dovunque, abbastanza lontano gli uni dagli altri
per non disturbare la visione e l’ascolto. Ma giù il sipario, non
c’è nessuno ed è l’ora dell’aperitivo.
I televisori sono tutti sintonizzati sulla Cnn e trasmettono
documenti accurati, densi, interminabili come serial, in cui le
lacrime dei sopravvissuti o dei testimoni del giorno mortale di New
York si mescolano alle cronache in diretta dall’Afghanistan.
Chiedo al barman dove sono gli avventori. Sono, risponde, nelle loro
stanze dove vedono le stesse cose. Per soffrire in solitudine, forse
spinti dall’idea un po’ pazza che ciascuno di loro possa bastare
a se stesso, come dice Cruz Smith.
Le statistiche rivelano che in Florida, come in tutta l’America,
il numero dei telespettatori è cresciuto per tutte le emittenti
significative. L’impasto audiovisivo della new war per lo
spettatore-tipo è denso e potente, curioso. Mentre i documenti
filmati compongono la loro fiction di sangue e di guerra, il Natale
rivendica le sue tradizioni: c’è il sole a Miami Beach, ma sul
piccolo schermo nevica. La neve è quella di La vita è meravigliosa
(1946) di Frank Capra, con l’angelo di seconda classe sceso in
terra a sciogliere angustie e curare ferite.
C’è solitudine e cupezza nella vuota Miami Beach dell’eterno
carnevale, ma l’attesa è quella di un miracolo: quello di Alida
Valli-Giovanna D’Arco che muore sul set nell’ultima scena e il
produttore decide di non distribuire il film, in Il miracolo delle
campane (1948) di Irving Pichel, con Frank Sinatra prete senza voce.
E’ proprio Sinatra che con prediche, radio, trovate pubblicitarie,
campane a storno (mosse da mani misteriose), fa cambiare idea al
produttore: e il lieto fine è assicurato. Celluloide kitsch. Ma chi
farà il miracolo e muoverà le campane nella new war cominciata un
giorno di settembre?
(1- Continua)
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