Il Flamenco di Marìa Pagés
José Luis Sànchez-Martìn
L’accademia Filarmonica Romana ha presentato in questi giorni a
Roma, al Teatro Olimpico, lo spettacolo di Flamenco della Compagnia
di Madrid di Maria Pagés, la straordinaria “bailaora” e
coreografa spagnola che si è resa celebre per il proprio personale
e innovativo contributo al Flamenco, estendendo i confini del genere
tradizionale fino a inaspettate quanto interessanti contaminazioni.
Maria Pagès comincia a ballare a quattro anni sotto la guida di
Manolo Marìn, Maria Magdalena e Manolo Valdivia, formandosi
definitivamente quando entra a far parte della Compagnia di Antonio
Gades, dove ricoprirà ruoli fondamentali in Bodas de Sangre
e Carmen. In seguito diviene prima ballerina della Compagnia
di Mario Maya, del Balletto di Rafael Aguilar e in quello di Maria
Rosa. Fonda nel 1990 la propria compagnia dando a vita a numerosi
spettacoli che le conferiranno in pochi anni importanti
riconoscimenti a livello internazionale, mietendo successi e
raccogliendo un enorme consenso da parte della critica di tutti i
paesi.

Il 1995 è l’anno della consacrazione
internazionale quando presenta lo spettacolo Riverdance-The Show
in cui il compositore Bill Whelan compone per lei i temi di
ispirazione flamenca; questo spettacolo viene quindi rappresentato
al Radio City di New York, al Chicago Auditorium, e poi a Los
Angeles, Boston, Toronto, Sidney, Dublino e Londra.
Il suo cursus artistico spazia anche al di fuori del palcoscenico
teatrale, si cimenta infatti nei panni di attrice cinematografica
per il grande regista spagnolo Carlos Saura nei film Carmen, El
Amor Brujo e Flamenco e per José Marìa Sànchez,
regista il cui sodalizio era cominciato a teatro già nel ‘94 con
lospettacolo De la Luna al Viento, nei film La Bella Otero,
Hemingway, e Fiesta e Muerte.
Insignita nel ‘96 del Premio Nazionale di Coreografia dell’A.D.E
per il lavoro El Perro Andaluz. Burlerìas, Marìa Pagés è
a tutti gli effetti una autorità indiscussa nell’ambito culturale
spagnolo e non limitatamente alla danza Flamenco.
Veniamo dunque al doppio spettacolo presentato a Roma in questi
giorni, doppio in virtù del fatto che sono due spettacoli e due
coreografie distinte, presentate nella stessa serata, ma che furono
concepite in tempi diversi: il primo ideato e diretto da José
Marìa Sànchez,La Tirana (1998), già presentato in giro per
il mondo, e il secondo dalla stessa Marìa Pagés, Flamenco
Republic (2001) che ha già fatto parlare di sè a New York e
Siviglia. La Tirana è ambientato al Museo del Padro di
Madrid, allorchè un gruppo di giovani visitatori si ferma difronte
al capolavoro di Goya, “Ritratto della Duchessa Alba”, amante di
Goya stesso; uno dei giovani rimane a tal punto incantato dalla
bellezzza della donna che se ne innamora e vuole restare solo con
lei, nella notte, per dichiararle tutto il suo amore danzando per
lei.
Come per incanto la donna affiora dal quadro e risponde a questo
coinvolgente invito con altrettanta sensualità e bellezza, danzando
col giovane. I due ignorano che lo spirito geloso di Goya aleggia su
di loro e interferirà per impedire la loro “amorosa intesa”. Le
musiche di questo spettacolo si alternano tra temi tradizionali,
musica classica (“Casta Diva” dalla Norma di Bellini, e Trio per
piano di Schubert) pop, tango, composizioni d’autori contemporanei
(Bill Whelan) e nell’ ultima danza d’insieme, sorniona e
luminosa, perfino il musical con “Singing in the Rain”.

Il secondo tempo, ovvero “Flamenco Republic”
si svolge in un paese immaginario, retto dalle leggi del Flamenco, l’estrincazione
del mondo interiore della cultura flamenca -dalle sue musiche è
nutrito- costantemente accompagnato dal ottimo quartetto composto da
percussioni, due chitarre e voce, una splendida Ana Ramon, che
riempe tutta la scena di un energia arcaica, cruda e struggente come
solo le grandi “cantaore” andaluse sanno creare.
Disposti per lo più nella caratteristica formazione a semicerchio i
danzatori si avvicendano uno per uno all’interno e sostenuti dal
battito fremente delle mani dei compagni danno vita a vere e proprie
dimostrazioni di bravura nel senso di intensità della propria
presenza, di sfida rituale, di affermazione di sè difronte alla
comunità di cui fanno parte, portando l’immaginario del pubblico
a viaggiare nelle terre gitane dove questo rito si svolge
quotidiamente sotto le forme del gioco, del raccoglimento del gruppo
e del suo cementarsi ma anche della sfida reale con altri gruppi.
Marìa Pagés non è una virtuosa del Flamenco tradizionale pur
avendo una eccezionale preparazione in senso assoluto, con una
capacità creativa unica nel creare di volta in volta danze e figure
nuove attingendo al Flamenco ma arricchendolo con movimenti
originali eseguiti con una capacità tecnica contemporanea
stupefacente, una forza espressiva e comunicativa uniche. Il suo
obiettivo principale infatti è proprio quello di comunicare il
senso tragico, la forza, il nucleo vivo della poetica flamenco e in
più di espanderlo come cifra stilistica verso territori limitrofi o
lontanissimi: cosa che le riesce esemplarmente.
Il suo virtuosismo semmai consiste e si esplicità proprio in questa
inesauribile ricerca sincretica tra il mondo contemporaneo e la sua
variegata danza con le radici immutate del genere Flamenco. Lo
spettacolo è lungo e tuttavia non vi sono mai momenti di noia o di
prevedibilità scontata pur restando nel solco di uno stile
omogeneo, si può invece appuntare che in rapporto ad una
continuità di tensione emotiva e di forza delle immagini non è
abbastanza solida la supposta linearità e coerenza della struttura
drammaturgica, abbozzata per contenere la storia e le azioni che si
svolgono al suo interno, facendo sentire quasi superflua la storia
quanto invece essenziali e di duraturo impatto le azioni. In questo
senso il suo grande maestro Antonio Gades ha raggiunto vette ancora
inarrivate.
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