| Io l'agenda della sinistra la vedo
            così 
 
 
 Corrado Ocone
 
 
 
 Facciamo un po’ il punto della situazione sull’agenda politica
            del 2002, dell’anno che si è appena aperto, il secondo dell’era
            berlusconiana. L’agenda politica nostra voglio dire, della
            sinistra e dell’area in senso lato “riformistica”, per
            intenderci. Nella speranza che quest’era sia, anche in virtù del
            nostro impegno, la più breve possibile.
 
 Propongo di distinguere due macroaree di analisi e di azione, forse
            convergenti ma sicuramente distinguibili. La prima riguarda noi
            stessi, il “chi siamo”, la nostra identità. E quindi il nostro
            progetto e le forze con le quali intendiamo realizzarlo. Nonché,
            ovviamente, i tempi e i modi di questa realizzazione.
 
 La seconda area è invece esterna, anche se non indipendente da noi,
            dalla nostra azione. E’ separata o separabile, ma si connette a
            noi in mille e più modi. E’ la “questione Berlusconi”, il
            problema del governo di destra, del governo di questa destra.
 
 La distinzione fra noi e gli altri, o “l’altro”, è funzionale
            alla chiarezza del discorso. Non dobbiamo farci imporre i tempi
            della politica, della nostra politica, da Berlusconi.
 
 C’è un discorso che noi, “liberal” di
            sinistra, facciamo da un po’ di tempo. Diciamo pure da una decina
            di anni. E’ un discorso che suona suppergiù così, dal coté
            pratico e politico: il comunismo è morto, con esso è morta (almeno
            nella sua essenza ideale) anche la socialdemocrazia, l’alternativa
            è il socialismo liberale o liberalismo di sinistra.
 Questo schema ha ispirato l’azione, vincente, della sinistra
            europea nell’ultimo decennio: in primis il suo vero leader,
            checché se ne dica, Tony Blair (il quale, forse, più che della
            sinistra, è il leader per antonomasia del nostro tempo, almeno tale
            a me sembra).
 
 Poi ha ispirato e accelerato una chiarificazione interna alla
            S.P.D., con la messa alla porta del simpatico Lafontaine da parte di
            Schroeder. Nonché, sempre in Germania, la sterzata “liberal”
            dei verdi di Fisher. Ed ha anche sostanziato, infine, nella pratica
            reale, l’azione dei socialisti francesi al governo.
 
 Lo schema suddetto aveva avuto, non dimentichiamolo, una genesi
            ideale e teorica. E aveva impegnato, e ha continuato a impegnare in
            tutti questi anni, la migliore sociologia europea, soprattutto negli
            ambienti in vario modo legati alla London School of Economics. E in
            primo luogo al suo dinamico direttore Antony Giddens, teorico di
            quell’istanza che egli stesso ha definito (in maniera forse
            fuorviante) “terza via”.
 
 Giddens fra l’altro, va detto per inciso, ha chiamato alla
            prestigiosa scuola di Londra il sociologo tedesco Ulrich Beck, a lui
            molto affine. Mentre la non lontana e prestigiosa università di
            Oxford ha strappato ad Harvard un altro grande esponente del
            liberalismo di sinistra, il premio Nobel Amartya Sen.
 
 E pensare che, nell’ottica “liberal” più autentica di un
            empirismo post-ideologico e pragmatico rivolto a sinistra, anche noi
            italiani avremmo avuto qualcosa da dire! E infatti, anche se in
            pochi se ne sono accorti, la “terza via” discende per “li rami”
            (forse il termine medio, attraverso Sen, è il suocero di costui
            Albert O. Hirschman) da Socialismo liberale di Carlo Rosselli.
            Un libro rigorosamente post-marxista ma di sinistra, con il “difetto”
            forse di essere arrivato con molto anticipo rispetto al fatidico ’89
            dell’abbattimento del muro di Berlino.
 
 Perché tutto questo discorso, che interrompo qui? Per dire che quel
            “progetto di sinistra” alla cui necessità richiama Giorgio
            Ruffolo (cfr, da ultimo, la Repubblica del 29 dicembre)
            esiste già, in teoria e in pratica, almeno da una decina di anni. E’
            chiaro, è al passo coi tempi, non solo è a sinistra ma lo è nei
            fatti e non solo verbalmente, ha contribuito a far vincere i partiti
            socialisti dei grandi paesi europei.
 
 Da noi invece la bussola pratico-politica sembra perdersi in
            continuazione, mentre quella teorica alla quale ho fatto cenno è
            conosciuta in pochi e ristretti circoli intellettuali (fra i quali
            annovererei non per piaggeria, e senza autocompiacimento, quello che
            virtualmente ci unisce su queste pagine).
 .
 E veniamo ora al secondo punto della nostra agenda. Che senza toppe
            perifrasi è il punto B come Berlusconi. C’è un problema legato
            al nome del Cavaliere dalla triste (benché sempre sorridente)
            figura. Inutile negarlo. Se così non fosse non ci beccheremmo una
            settimana sì e l’altra pure le critiche feroci o le ironie
            taglienti dei maggiori organi di stampa internazionali. E nemmeno i
            sottili distinguo dei governi degli altri paesi.
 
 Potremmo anche dare ragione a chi ci ricorda ad ogni pie’ sospinto
            che è necessario sconfiggere politicamente e non per altre vie
            Berlusconi, ma bisogna capire cosa significhi in questo caso fare
            politica e non moralismo. Perché se è vero che la politica non
            può essere ridotta all’etica o al diritto, è pur vero che l’etica
            e il diritto (insieme a molti altri elementi, compresa la “politica”
            intesa nel senso stretto di calcolo delle opportunità e delle
            possibilità di riuscita di un’azione), concorrono a determinare
            il giudizio di ognuno. E, in democrazia, è il giudizio di ognuno
            che, alla prova dei fatti, conta.
 
 Ovviamente non siamo (ancora?) in un regime dittatoriale se possiamo
            esprimerci liberamente. Certo, la stampa e le TV sono in mano al “grande
            padrone”. Privatamente, tuttavia, ognuno può dirne peste e corna.
            E, inoltre, i giudizi di stampa e TV estere sono sempre più alla
            portata di tutti (viaggiamo, abbiamo antenne paraboliche sui nostri
            tetti, conosciamo l’inglese…). La storia non si ripete mai e,
            per fortuna, i tempi del fascismo storico sono lontani.
 
 Il problema, come ha osservato Gianfranco Pasquino, è quello della
            sproporzione di forze fra maggioranza e opposizione. Ed è un
            problema che pregiudica, nel senso che ne riduce gli spazi, il
            libero gioco democratico. E’ però anche vero che una buona legge
            sul conflitto di interessi non è stata approvata dalla sinistra
            quando era al governo (né è stata fatta rispettare nella
            formulazione del 1958). E, d’altronde, la stessa via giudiziaria,
            una facile scorciatoia, ci è preclusa in quanto liberali: fino a
            che Berlusconi non sarà definitivamente condannato, giudicato “colpevole”
            da un tribunale, per lui, come per chiunque altro, vale la
            presunzione di innocenza.
 
 La giustizia deve fare il suo corso, ma noi dobbiamo tenerci un po’
            lontani dalle polemiche giudiziarie (che, lo sappiano i vari Caselli
            e Boccassini, fanno comodo al nostro). Salvo che per le inevitabili
            e successive “ricadute” politiche. Corriamo infatti il rischio
            di apparire, agli occhi della gente comune (a cui il nostro sa fin
            troppo bene parlare), come vendicativi e addirittura non
            democratici. Come dire: purtroppo, al punto in cui siamo arrivati,
            la questione giudiziaria può essere un boomerang politico per noi.
            Così come avrebbe potuto esserlo una legge sul conflitto di
            interessi approvata in extremis nella scorsa legislatura.
 
 Dobbiamo dire che il Cavaliere è stato bravo, cioè diabolico: ha
            talmente gonfiato, politicamente, un problema privato, personale,
            che la politica degli avversari per combatterlo deve fare oggi molta
            attenzione. Purtroppo. In quest’ottica non credo che ci serva
            combattere in modo esagitato e con toni aggressivi. Perché, anche
            in questo caso, finiamo per fare il gioco dell’avversario. Di
            più: finiamo per assomigliargli. Che è quanto a lui, al suo gioco
            politico, serve più di ogni altra cosa.
 
 Che fare, allora? Come possiamo liberarci di Berlusconi? L’impresa,
            ammettiamolo, non è facile. Propongo una risposta sotto forma di
            battuta: lasciamo fare lui, facciamo noi.
 
 Lasciar fare non significa che non dobbiamo “disturbare il
            manovratore”, perché anzi dobbiamo tenere costantemente gli occhi
            su di lui e vigilare e controllare. Ma dobbiamo, appunto, lasciarlo
            governare. Montanelli, che aveva ben capito chi aveva di fronte,
            disse una volta che l’unico modo per togliercelo dai piedi era
            farlo governare.
 
 Non crediate che gli italiani siano intellettualmente e moralmente
            inferiori agli altri: questo lasciamolo alla (cattiva) retorica. Con
            Berlusconi, per superficiale curiosità, hanno voluto provare,
            stanno provando. Ma la “luna di miele” non durerà all’infinito!
            A quel punto, presumibilmente fra quattro anni (alla fine della
            legislatura), o noi saremo pronti con un progetto, con un programma
            serio e concreto, con un leader, oppure…
 
 E’ qui che sta il compito che spetta a noi. Secondo me si combatte
            tanto più seriamente Berlusconi, quanto più si lavora su noi
            stessi. Nel senso del quale abbiamo parlato nel primo punto. E,
            soprattutto, costruendoci e facendoci percepire come altri. Come
            quelli, ad esempio, che predicano bene e razzolano altrettanto.
            Sarebbe molto più produttivo che il “contra Berlusconi” lo
            costruissimo proponendo un dossier delle promesse non mantenute e
            sulla non corrispondenza fra il detto e il fatto. Insistendo, ad
            esempio, sulla panzana del Berlusconi “liberale” (come fa
            egregiamente, devo dire, Giovanna Zincone, su L’Espresso; o
            come farà forse l’Osservatorio parlamentare sul tasso di
            liberalismo nelle nuove leggi promosso da Valerio Zanone).
 
 O anche mostrando come, ecco un altro esempio, il conflitto di
            interessi abbia conseguenze economiche in termini di competitività
            del sistema Italia (su quest’ipotesi sta lavorando il professor
            Ghidini della LUISS di Roma). Altro che liberalizzazione e altro che
            efficienza economica! Altro che “sogni di Bengodi”! Ci troviamo
            di fronte uno che è capace di mistificare e strumentalizzare ogni
            idea ai suoi fini. E’ questa l’essenza del berlusconismo. E a
            noi tocca smascherarla.
 
 In conclusione, io penso che si possa essere fermi, determinati,
            chiari, senza perdere in sobrietà e pacatezza. E’ così che si
            può anche essere incisivi ed efficaci. Proponendo agli italiani
            prima di tutto un’alternativa di stile. Consapevoli che, in
            politica più che altrove, la forma è già sostanza.
 
 Prima avevo detto che l’alternativa giuridica e morale a noi non
            è permessa, o è permessa, allo stato attuale, solo in parte. C’è
            però, io credo, una strada politica che possiamo percorrere. E ce
            ne è poi un’altra, che fa tutt’uno con essa, che potremmo
            invece definire estetica. Prendetemi sul serio e chiedetevi anche
            voi con me: e se l’alternativa a Berlusconi fosse alla fine
            (anche) un’alternativa estetica?
 
 
 
 
 
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