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Bossi, l'italiano che conta di più



Giancarlo Bosetti



Il riassunto lo ha fatto Umberto Bossi in persona: “Io avevo Ruggiero, Castelli ha Borrelli e Maroni ha Cofferati”. Sono i nemici personali e rispettivi, diciamo così: di competenza. Il primo, Ruggiero, è stato già liquidato, gli altri due “andranno in pensione, perché la Lega deve difendersi e la migliore difesa è l’attacco”. E in primavera “partirà un attacco contro di loro”, dove “loro” sono tutti quelli che non piacciono alla Lega: giudici, immigrati, prostitute, quei “barboni” del governo belga. Cito dal brillante resoconto di Aldo Cazzullo sulla Stampa, dove si spiega che tutti quanti faranno la fine di Ruggiero, cioè: fuori dai piedi.

Il progetto è abbastanza chiaro: la Lega vuole contare di più. Questa non è una novità, è quello che Bossi ha sempre voluto. La novità è che ci sta riuscendo. Non è poi una novità neppure la volgarità (di cui bisogna ricordare - e facciamolo, santiddio! - che nelle democrazie liberali non è un dettaglio decorativo ma un elemento portante degli ordinamenti della tolleranza e del pluralismo non violento). La novità è che la volgarità è salita al potere e intende restarci. Chi fa tanti sforzi per non vederlo, per non prendere atto di quiesta evidenza, si prepari a sforzi ancora più ardui. Ce ne sarà bisogno presto. Perché? Ve lo spiego subito.

La coalizione di governo si regge, tra le altre cose, su un patto e uno scambio multipli, con un intreccio fitto, a doppio ritorto: la Lega si è impegnata a non fare traballare questa maggioranza e a non provocare crisi (è vero che non ne avrebbe i numeri in senso stretto, ma di guai potrebbe provocarne comunque parecchi) Berlusconi a darle peso ed evidenza nel governo; la Lega dà copertura a Berlusconi sul conflitto di interesse e sul conflitto con la giustizia e questi ripaga in tolleranza verso ogni genere di intemperanza e di eccesso “comportamentale”, e sostanziale.

Si capisce per esempio che l’uscita di Ruggiero ha danneggiato il governo, all’interno e all’estero. Non era un guaio strettamente necessario, inevitabile, era un optional voluto dalla Lega e Berlusconi a dovuto organizzarne la “digestione”, entrando in scena come se la cosa rispondesse “anche” a un suo disegno, facendo buon viso, e cercando di cavarne lì per lì persino un improvvisato progetto di riforma della diplomazia italiana.

La Lega conta davvero di più, in termini di potere, anche se nello scambio ha dovuto rinunciare a qualche suo carattere originario: la simpatia per Mani Pulite, i disegni secessionisti-federali, l’autonomia del Nord. Sono rinunce pesanti forse per una parte dei suoi elettori ma sono ampiamente compensate dalle posizioni di prima fila nel governo, almeno per quanto riguarda Castelli. Il ministro della Giustizia si trova proprio nel mezzo dell’intreccio; è suo il filo che regge il peso maggiore per tutta la cordata.

Tocca a lui fare il possibile e l’impossibile per piegare i magistrati e impedire che i processi al primo ministro vadano a sentenza, una possibile sentenza di condanna se ci si arriverà. Lui fornisce al premier una prestazione di prima qualità: assorbe una gran parte del conflitto con la magistratura, fa la punta di lancia dell’attacco all’autonomia della giustizia (le questioni della efficienza e della rapidità dei processi sono puro combustibile retorico, è vero che sono fondamentali per i cittadini ma sono qui solo carne di porco ad uso di altri obiettivi) e riesce nella impresa mirabolante, che davvero “non ha prezzo”, di distogliere un po’ di attenzione dal premier imputato, facendo apparire quello in corso come un “suo” conflitto.

Dal punto di vista del capo del governo sta persino facendo meglio e di più di Mancuso, a suo tempo; fornisce la sponda necessaria ai difensori di Previti e Berlusconi, ma appartenendo a un altro partito, estraneo storicamente al “garantismo" dei difensori della Prima repubblica, riesce a vestire la sua posizione di qualche maggiore credibilità. Per chi ci vuole credere, naturalmente.

Dicevamo dello sforzo crescente di “deglutizione” che si richiede a chi “non vuol vedere”, o diciamo meglio delle deglutizioni sempre maggiori che si richiedono a chi ha già fatto delle “piccole deglutizioni”, ogni volta pensando che fossero le ultime. Chi vuole può consolarsi e trincerarsi dietro la formula del “professionismo dell’invettiva”, o può attribuire a Borrelli, come fa Fini, nientemeno che propositi “insurrezionali”. Ma sono solo, come si dice, mentini.

Gli “eccessi” comunicativi del Procuratore generale di Milano non sono una novità. Con alti e bassi, sono stati compatibili, nel decennio passato, con il dignitoso cammino della democrazia italiana. Ora si tratta di misurare se la disinvoltura della Lega per le forme e la sostanza dell’ordinamento democratico sono compatibili con un ulteriore dignitoso cammino della nostra vicenda politica, quanto lo sono state le esternazioni di Borrelli.

Chi ritiene, in buona fede (degli altri non è questione), i due mali equivalenti, a mio avviso si sbaglia. E cerco si spiegargli perché. Anche supponendo (cosa che non concedo se non con molte riserve e notazioni circa la portata della corruzione ed il peso in Italia dei poteri criminali) che la magistratura abbia goduto in qualche modo di un eccesso di potere, i guai che possono discenderne non potranno mai eguagliare quelli che vengono da un difetto di legittimazione di chi viene eletto, pur legittimamente, al governo. Qui non si tratta di stabilire se l’opinione pubblica italiana sia più o meno sensibile alla questione del conflitto di interesse. Abbiamo capito che lo è poco. Qui si tratta di prendere atto che il conflitto di interesse c’è e produce dei danni che rischiano di diventare irrimediabili.

Chi è poco sensibile al problema dal punto di vista etico o giuridico, consideri ora il modo in cui esso sposta i rapporti di forza, nella stessa coalizione di maggioranza, a beneficio delle componenti più radicali, in particolare la Lega. Molto ma molto meno, almeno finora, a beneficio di Alleanza nazionale e del più moderato Fini. Perché? Perché lo scambio e l’intreccio a doppio ritorto di cui dicevamo prima nasce proprio da un vizio di legittimità: quello di avere un primo ministro impegnato con i suoi interessi privati, i suoi bilanci, le sue rogatorie, e i suoi processi. Bossi si è abilmente offerto, con i suoi ministri di tamponare questo vizio ed è riuscito a farne il suo punto di forza, recuperando alla Lega una spinta propulsiva che era ormai interamente esaurita.

Il fatto è che gli spazi offerti da un primo ministro in deficit di legittimità sono enormi e si presentano a una Lega affamata come immense inesauribili praterie. Fini, più preoccupato della propria legittimazione, non ne può approfittare con la stessa disinvoltura. Ha ancora bisogno di una legittimazione internazionale, mentre Bossi se ne frega. Il secondo può permettersi di fare il guastatore, il primo non vuole. Se il primo riuscisse mai a far danni all’Europa andrebbe a festeggiare il successo sul Po, il secondo potrebbe intornare un Requiem e mettere la parola fine alla storia del suo partito.

Con un premier in apnea per le ragioni che sappiamo tutti quanti fino alla noia, e che non sono per niente superate dalla legittimazione elettorale alla quale si appigliano pateticamente gli Schifani e i La Loggia, l’evoluzione della specie gioca al peggio, vincono gli esemplari difettosi. Bossi finirà per prendere lui il controllo della maggioranza; lo sta già prendendo. Guardate Maroni: vuole andare allo scontro con i sindacati, vuole fare saltare ogni principio di concertazione, quando lo sanno anche i sassi che Berlusconi non vuole adesso aggiungere questa alle altre ragioni di scontro. Dunque non decide più lui.

Non sappiamo se i giudici di Milano riusciranno a condurre fino alla fine il processo a Berlusconi e a condannarlo. Però sappiamo già che ogni giorno che passa sale l’indice del potere della Lega e scende quello del primo ministro. Anche se, si capisce, non è una cosa che gli amici di Berlusconi vanno in giro a reclamizzare.




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