Brutti, sporchi e cattivi
Roberto Bertinetti
Compie venticinque anni la rivoluzione punk scoppiata a Londra nell’inverno
1976. Fu una rivoluzione tutta musicale, perché il rock, in
Inghilterra, è un medium preveggente. Come i Beatles nacquero dall’ottimismo
progressista dei Sessanta, i punk trovarono fertile terreno di
crescita nei violenti e disperati Settanta. I primi segnali del
mutamento in atto in un paese già alle prese con una crisi
economica lacerante si avvertono durante l’estate, appena strade
della capitale cominciano a riempirsi di giovani coperti di stracci
tenuti insieme da catene, spille e nastro adesivo. Sono gli stessi
che all’inizio di dicembre si precipitano nei negozi per
acquistare “Anarchy in the UK”, l’album d’esordio di quattro
ragazzi brutti, sporchi e cattivi: i Sex Pistols.

Un anno più tardi la Virgin produce “Never Mind
the Bollocks. Here’s the Sex Pistols”. Intonando a squarciagola
una dissacrante rilettura di “God Save the Queen” -“la regina
non è un essere umano”, cantano i Sex Pistols - il movimento punk
guadagna il centro della ribalta. Qualcuno, intanto, prova senza
successo a erigere barricate: sia la Bbc che Radio Capital
proibiscono la trasmissione dei brani del gruppo, la polizia chiede
ai giudici di far cancellare la parola “bollocks”,“coglioni”,
dalla copertina del disco. A dispetto del fuoco di sbarramento,
Johnny “Rotten”, “marcio”, e Sid “Vicious” ,“vizioso”,
i due leader della band, diventano in fretta un punto di riferimento
per migliaia di ragazzi e ragazze. Che accorrono ad ascoltarli in
concerti durante i quali i Sex Pistols coprono di insulti gli
spettatori o, addirittura, sputano loro addosso.
Quale tipo di impatto ebbero sui consumatori abituali del pop e del
rock, sui reduci della “beat generation”, lo testimonia Willy
Ward: “Ne fummo sconvolti. Noi, con i capelli ancora lunghi,
convinti di essere veri contestatori, borghesi ma di sinistra, ci
trovammo all’improvviso davanti questi alieni fatti di pura
energia, con i capelli per la prima volta troppo corti, infilati in
vestiti troppo stretti, sfrontatamente proletari, che ci urlavano.
‘A voi studenti serve una bella cura Thatcher, che vi fa un culo
così”.
Per la “cura Thatcher” è necessario attendere il 1979, quando i
conservatori travolgono i laburisti di James Callaghan. Ma i segnali
di una netta inversione di tendenza in ambito economico e sociale
nell’Inghilterra degli anni settanta sono già evidenti. Dopo un
lungo periodo di crescita, gli indici della Borsa iniziano a puntare
verso il basso, quelli della disoccupazione salgono. Senza contare
che il peso della tassazione personale, un tempo “croce” solo
della classe media, viene ormai avvertito dalla totalità dei
lavoratori dipendenti. Se negli anni cinquanta un uomo sposato con
due figli sfuggiva del tutto all’imposta sul reddito, nel 1975
oltrepassa la soglia dell’esenzione fiscale prima ancora che le
sue entrate raggiungano la metà della media nazionale, mentre i
senza lavoro raddoppiano in termini percentuali.
L’inquietudine generalizzata, in particolare quella giovanile,
costituisce un ottimo brodo di coltura per la crescita del movimento
punk. Che intercetta consensi proponendosi come sintesi di un
duplice ribellismo: l’antica rabbia di matrice operaia da un lato,
i comportamenti anticonformisti tipici degli adolescenti borghesi
dall’altro. A far da colonna sonora - Sex Pistols, naturalmente, e
poi Damned, Stranglers - c’è una musica “etnica”, un “reggae
bianco”, secondo Johnny Rotten. Che, tagliando corto con la
teoria, sintetizza nello slogan “no future” il messaggio da
lanciare a un pubblico invitato senza mezzi termini a “distruggere
il mondo”.

Il punk, in altre parole, riassume tutte le
precedenti sottoculture “made in UK”. E proprio un “destino
punk” profetizza il “Daily Mirror” a molti dei ragazzi che nel
1977 lasciano la scuola “per entrare in un mondo che si inacidisce
sotto i nostri stessi occhi”. La nuova moda - spilloni o catene,
ciuffi imbrillantinati o teste rapate, stivali da lavoro o scarpe a
punta - diventa così, nella dotta analisi di Iain Chambers, il
simbolo esteticamente assai forte della crisi del vecchio ordine
britannico. “Nei legami sociali - aggiunge lo studioso - poteva
anche non esserci alcun futuro, ma rimaneva sempre la possibilità
del gesto perverso, il momento in cui si afferma l’immaginazione,
per rivelare, seguendo Baudelaire, un’oasi di orrore in un deserto
di noia”.
Malcolm McLaren, socio e compagno della stilista Vivienne Westwood,
fa per i Sex Pistols quello che Brian Epstein aveva fatto per i
Beatles: inventa per loro uno “stile” inconfondibile. Usando
senza risparmio la grancassa dei media. Prima spedendo il gruppo a
bestemmiare durante un varietà alla tv (“grande scandalo con gli
spettatori che intasano le linee telefoniche”, riferiscono il
giorno successivo i tabloid), quindi lasciando briglia sciolta a chi
provoca incidenti nel corso dei concerti. “Io ce la metto tutta
per essere carino. Ma i punk amano essere odiati”, spiega serafico
Johnny Rotten a chi gli chiede conto della violenta carica eversiva
del movimento.
Lo scontro si infiamma in un crescendo simbolico velocissimo, che
raggiunge il culmine durante il Giubileo reale del 1977 appena i
consigli comunali e le autorità universitarie di mezzo paese negano
l’uso delle sale ai gruppi in tour. Il punk sembra trionfare, i
nemici appaiono sconfitti. Tuttavia è storia breve. Perché l’eroina,
celebrata nelle canzoni insieme al sesso “usa e getta” e alle
anfetamine, brucia la breve carriera di molti musicisti. A
cominciare da quella di Sid Vicious, suicida nel 1978 a New York con
un’overdose dopo aver ucciso a coltellate Nancy Spugen.
Certo, il punk non muore alla fine degli anni settanta. La sua
carica eversiva, tuttavia, si stempera, viene lentamente riassorbita
da un paese che nel maggio dello stesso anno decide di affidarsi
alla “cura Thatcher” per uscire dal pantano. Di quella breve
stagione rimane, oggi, una traccia assai evidente in due ambiti
lontanissimi tra loro. Nella moda (piercing, scarponi, capelli
colorati) e nel teppismo da stadio (gli hoollingas decisi a mettere
in pratica l’invito a distruggere lanciato dai Sex Pistols). Per
chi, poi, desidera consultare una documentazione di prima mano sull’esperienza
punk c’è il cinema.
In particolare il recente “The Filth and the Fury”, “Il
sudiciume e la furia”, con un Johnny Rotten che rilancia la sfida.
“Occorre fottere il sistema dall’interno”, teorizza. Lui,
Vivienne Westwood, Malcom McLaren e pochi altri sono, forse,
riusciti a farlo. Meno probabile che lo stesso possa dirsi per le
migliaia di ragazzi e ragazze appartenenti al sottoproletariato
urbano sensibili alle parole d’ordine (e di disordine) lanciate
dai leader del movimento.
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