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Attualita'



La fragile trama della ragione pubblica*



Sebastiano Maffettone



Questo articolo è apparso sul numero 2/2001 della rivista Filosofia e questioni pubbliche

Qualsiasi discorso verta in qualche modo sul senso delle relazioni internazionali, e abbia a che fare con l’etica pubblica, non può non essere influenzato dalla strage terroristica di New York e Washington e dalla guerra che ne sta seguendo. È comprensibile che i primi commenti a caldo riflettano lo sgomento, l’orrore, la solidarietà per le vittime, l’incredulità di tutti noi, la rabbia e l’impotenza magari di chi vorrebbe reagire e non sa come (è per questo che articoli come quello, che tanto ha fatto discutere, di Oriana Fallaci su il Corriere della Sera sono espressivamente rilevanti, anche se, proprio per questo, non facilmente condivisibili).

Dopo qualche tempo, però, mi sembra normale che la riflessione critica tenti una ricostruzione più pacata, e soprattutto formuli qualche ipotesi di ricerca e magari di impegno etico-politico. E, se nel primo momento siamo tutti accomunati nella nostra umanità ferita rispetto alla tragedia, credo che, in questo secondo momento, sia anche importante che ognuno cominci a pensare dal proprio punto di vista per così dire usuale e magari professionale. Questo è il motivo per cui la nostra rivista ha deciso di pubblicare un editoriale dedicato ai fatti recenti e tragici dell’11 settembre, adoperando il vocabolario solito di «Filosofia e questioni pubbliche», e articolando il nuovo, nella misura del possibile, all’interno del nostro modo consueto di argomentare filosoficamente, anche se le tesi sostenute sono, come è naturale, soltanto le mie e non quelle della rivista.

Quella che segue è perciò essenzialmente una ricostruzione filosofica, cosa che spero giustifichi il tentativo di comprendere gli eventi in una maniera che potrebbe altrimenti apparire troppo astratta, fredda e distaccata. D’altra parte, se mai c’è stato bisogno di reazioni pacate e di argomenti misurati, questo ci sembra quel momento, e cerco di proporre il contributo seguente in questo spirito di comprensione intellettuale, che, pur non pretendendo sostituirsi alle emozioni e ai sentimenti, sembra comunque necessario.

L’articolo è basato su due assunzioni, senza condividere le quali diventa difficile accettare tutto il resto. La prima assunzione concerne una concezione del recente terrorismo come esito e causa di una fondamentale rottura semantica, e quindi come evidenza e base per una radicale impossibilità comunicativa. La seconda assunzione, forse la più importante alla luce di quanto segue, è la seguente: per valutare quanto è successo non ha molto significato fare confronti comparativi tra culture, tradizioni e religioni, mentre lo ha farlo tra forme politiche. Ciò, altrimenti detto, vuol dire che possiamo trovare molto di buono e molto di cattivo, o se volete di bello e di brutto, sia nella nostra cultura, tradizione e spiritualità, che in quelle degli altri. Ma che, allo stesso tempo, la forma politica liberal-democratica si lascia preferire alle altre da un punto di vista tutto sommato universale.

Senza entrare nel merito, identifico poi, per gli scopi del mio argomento, la forma politica liberal-democratica con una sua versione minimale, che coincide con il rispetto di certi diritti umani fondamentali e di almeno alcune procedure democratiche di consultazione popolare. Ritengo anche che si possa agevolmente comprendere questa distinzione dal punto di vista concettuale. Il problema, e non si tratta solo di un problema filosofico, nasce dal fatto che, praticamente, è quasi impossibile separare una forma politica dalla cultura di sfondo e dalla struttura socio-economica da cui ha tratto origine. La risposta che io tento di abbozzare, nel prosieguo, consiste nell’indicare la possibilità di costituire una «trama della ragione pubblica» (da cui il titolo), che non sia imposta dal centro, o che, in altre parole, non sia interna alla tradizione occidentale legata al capitalismo democratico, ma che si lasci ricomporre dalle periferie del sistema, sarebbe a dire dagli ambiti multiformi delle varie culture.

Vorrei cominciare a discutere la prima delle due assunzioni di cui sopra, partendo proprio dalla perdita progressiva di senso che credo tutti avvertiamo in questi giorni, sia pure ciascuno alla sua maniera peculiare e diversa. Non nascondo, in questo tentativo, l’influenza di una certa deformazione professionale, dato che il senso del senso, come forse è superfluo aggiungere, per un filosofo è una sorta di dato primario. Il senso, come io l’intendo e come d’altronde è stato più volte concepito in filosofia, ha a che fare con la relazione interumana, con la traduzione e l’interpretazione reciproca. Suppongo sia alquanto consueto, perlomeno in filosofia, concepire questa relazione come una relazione triangolare in cui io e l’altro siamo legati dalla possibilità ultima di comprenderci nella prospettiva di un terzo, che è poi il mondo comune in cui viviamo.

Tale possibilità dialogica e interattiva è poi quella che rende possibile la riduzione dell’estraneità e garantisce la traducibilità reciproca, che a sua volta rappresenta il segno di un’interpretazione riuscita. La filosofia contemporanea, pur tra tante diversità di scuola e di pensiero, è stata sufficientemente unita nell’indicarci che questo processo, così fondamentale come abbiamo visto, non è concepibile alla luce della rappresentazione comune di un oggetto puro e neutrale, più o meno nei termini in cui ci sarebbe stato proposto da un tradizionale realismo metafisico. Perlomeno da Kant in poi, al contrario, abbiamo imparato che tale mediazione è frutto di un accordo profondo, di una costituzione intersoggettiva che è poi quella che rende possibile la nostra coabitazione intellettuale e l’impossibilità di un autentico solipsismo.

La comprensione reciproca appare, in questo modo, meno miracolosa di quanto altrimenti si potrebbe ritenere. Linguaggi e culture differenti si incontrano così attraverso complesse mediazioni contestuali e storiche, e solo queste ultime consentono la formazione progressiva di manuali di traduzione che riproducono somiglianze profonde di costruzioni concettuali e reazioni emotive pur nell’apparente diversità delle tradizioni. Si tratta evidentemente di equilibri delicati, in cui la mediazione semantica dipende essenzialmente da una prassi che la consenta. Il significato di quella perdita progressiva di senso, che spesso avvertiamo e da cui sono partito, mi sembra legato proprio dalla rottura drammatica di questa possibilità di mediazione, rottura che in casi come quello dell’11 settembre sembra essere particolarmente violenta se non addirittura definitiva. E lo si noti - mi rivolgo questa volta più esplicitamente agli addetti ai lavori - il problema non è quello classico per i filosofi dell’impossibilità di un metalinguaggio universale di stampo hegeliano che ci consenta di tenere insieme in un progetto cosmico di razionalità storica progressiva ed eurocentrica le avventure locali dello spirito umano.

Questo fallimento è cosa vecchia, ed è stato tante volte denunciato da Heidegger ai postmoderni, sulle tracce dei loro predecessori ottocenteschi. Anche questa critica, però, è oramai cosa vecchia. Nessuno di noi, o quasi, affiderebbe i destini del senso a una realizzazione progressiva nel mondo di una ragione universale, più o meno spalleggiata dalla scienza e dalla tecnica. Piuttosto, la possibilità dell’intesa viene basata di solito sullo sfondo di una costituzione intersoggettiva, che è poi quella che mette in comunicazione le nostre reazioni al contesto con quelle degli altri. Il problema della perdita del senso nasce proprio dall’impossibilità di comunicare che dipende da una prassi troppo recalcitrante perché troppo violenta. Il terrorismo, in altre parole, è la premessa e la conseguenza insieme di un clamoroso fallimento semantico, che esclude la comunicazione e quindi la comprensione. E, naturalmente, le ragioni di questo fallimento sono da rintracciare, oltre che nella incompatibilità intellettuale, nella storia materiale che, in alcune occasioni, apre baratri incolmabili tra i vertici di quel triangolo comunicativo, prima menzionato, che si aprono alla traduzione reciproca, sarebbe poi a dire gli umani che abitano l’ambito interculturale.

I segni di questa situazione spirituale, che prelude al fallimento semantico, sono diffusi nella cultura occidentale del Novecento. I movimenti di avanguardia nelle arti visive, per esempio dal dada al concettuale, dai situazionisti a Fluxus, ne hanno dato ampiamente conto da tempo, così come hanno fatto a modo loro il teatro dell’assurdo, la narrativa cyborg, la letteratura contemporanea, il femminismo radicale, la psicoanalisi, l’ecologismo profondo e le sette mistiche. Sono anche legati, più generalmente, a quell’impossibilità di rendere conto di ciò che accade in termini di grandi narrative intersoggettivamente dotate di significato, come è così tipico dei nostri tempi. Da filosofo politico, e da spettatore di quei tragici eventi da cui sono partito, io intendo però interrogarmi su un aspetto specifico di questa perdita di senso.

Si tratta di un aspetto che concerne la politica nella sua generalità, e che anzi coglie nella impossibilità della politica oggi un segno evidente della più generale perdita del senso di cui si è detto. Sono convinto, da questo punto di vista, che la politica nella sua generalità filosofica si regga su una trama sottile e profonda assieme, trama che svolge, in questo dominio specifico, la funzione di mediazione di successo tra l’io e l’altro, e quindi offre, in ultima analisi, la possibilità del senso. Credo anche che questa trama delicata e sofferente riguardi la politica in quanto tale, sia interna che internazionale intendo, anche se io oggi dedicherò la mia attenzione più alla seconda che alla prima. Quante volte abbiamo notato nella generazione più giovane di noi un disinteresse per la politica che per noi era semplicemente impensabile! Una spiegazione possibile di questo atteggiamento di rinuncia alla dimensione politica sta proprio nella mancanza di senso di cui parlo.

Ma non vorrei continuare su questioni tanto vaste. Vorrei cominciare piuttosto dal definire la trama della mediazione politica, la cui crisi, come ho già detto, rende così difficile oggi il discorso e l’azione politica. In secondo luogo, vorrei analizzare, anche se per sommi capi, le ragioni per cui questa perdita di senso ha luogo oggi nell’arena internazionale. Da questa parte analitica, vorrei infine trarre qualche suggerimento normativo, il cui scopo precipuo consiste nel cercare di reperire nuove vie e nuovi strumenti per ridare senso alla politica a cominciare dal dominio delle relazioni internazionali. Tutto ciò mi servirà per concludere su alcuni progetti e proposte che mi sembrano particolarmente interessanti nell’ambito della mia attività intellettuale e di quella dell’istituto sui diritti umani che dirigo.

Nel prosieguo di questo scritto, tra l’altro, userò spesso una nozione filosofico-politica di diritti umani, che non corrisponde a quella convenzionale giuridica, e che sta a indicare una sorta di pre-condizione necessaria per il contratto sociale planetario, quest’ultimo ispirato alla visione di fondo liberal-democratica di tutto il mio argomento. Da questo contratto ipotetico, dipende a sua volta la possibilità di quell’intesa fondamentale tra stranieri culturali che rappresenta il mio obiettivo normativo finale.

Comincerò questo itinerario con una definizione stipulativa, da cui peraltro dipende il titolo di questo mio scritto. La trama della mediazione politica, il nucleo cioè di quella possibilità di intesa tra io e altro che garantisce la comunicazione e in ultima analisi il senso, è costituita in politica dalla ragione pubblica. Il fatto che questa definizione sia, come detto, stipulativa non equivale a dire però che sia del tutto arbitraria, ma anzi essa cerca di riprendere il senso di una prassi storica consolidata. Per ragione pubblica, io qui intendo - al seguito di una lunga e illustre tradizione liberal-democratica - l’insieme di argomenti che sono in maniera esplicita e trasparente destinati a giustificare comparativamente decisioni politiche alternative. In questo modo, la ragione pubblica presuppone una sorta di filtro tra le motivazioni profonde e quelle effettivamente presentabili nella sfera pubblica. C’è, così, alla sua origine una divisione della coscienza, una scissione in base alla quale quando affrontiamo nelle sedi deputate questioni tipicamente pubbliche, noi rinunciamo a presentare una parte delle nostre convinzioni più radicate e istintive.

Siamo al cospetto, come non è difficile comprendere, di un consueta strategia della prassi liberal-democratica, strategia che i filosofi, nel tempo, si sono incaricati di rendere generale e normativa. Lo scopo di un appello alla ragione pubblica così inteso è infatti chiaro: si tratta di bilanciare due opposte e ineludibili necessità dell’agire politico, quella di rappresentare le differenze e quella di prendere una decisione finale valida per la comunità nel suo complesso. Se si assume - come appare del tutto ragionevole fare - che nelle società contemporanee complesse, e a maggior ragione nell’universo internazionale, esiste un pluralismo ineliminabile di convinzioni etico-politiche, non dovrebbe essere difficile comprendere la rilevanza di un appello a uno strumento come la ragione pubblica così intesa.

Per equilibrare esigenze decisionali e rappresentatività delle differenze, i membri di una comunità sacrificano parte delle loro passioni, e presentano argomenti a favore di opzioni alternative che siano quanto più possibile compatibili con quelli degli altri membri della comunità. Se vogliamo metterla giù in termini kantiani, possiamo anche dire che la ragione pubblica presuppone rispetto per gli altri, richiedendo di appellarsi ad argomenti che questi siano in grado di comprendere e apprezzare (pur essendo diversi dai loro).

Naturalmente, si può notare che un simile concetto di ragione pubblica si basa su una perdita sia pure volontaria di autenticità dei soggetti coinvolti, e forse anche, direbbe qualcuno, su di un tradimento eccessivo degli istinti e delle motivazioni inconsce. I soggetti coinvolti nel gioco della ragione pubblica, dopotutto, sono chiamati a sacrificare parti significative delle loro credenze ultime in nome di una sorta di compromesso. Tuttavia, se si assume che esistano comunità, nazionali e internazionali, caratterizzate da un profondo pluralismo di idee etico-politiche, e che tale pluralismo costituisca anche un valore da difendere, allora l’utilità pratica e la dignità morale di un atteggiamento collettivo ispirato alla ragione pubblica risultano evidenti. E non c’è dubbio che se voglio difendere adeguatamente la mia causa in un contesto pluralista, sia meglio per me rinunciare alle ragioni più radicali metafisiche, religiose, istintuali e tribali. Queste ultime darebbero, infatti, la stura a un conflitto permanente e a una sostanziale impossibilità decisionale.

Intendiamoci, come l’esperienza ci mostra direi quotidianamente, il funzionamento della ragione pubblica non è né facile né automatico, neppure nella migliore delle democrazie. Ci sono frequenti casi, infatti, in cui differenze intrattabili mettono a nudo tipi di decisione che non possono essere prese evitando quei nodi profondi che pure la ragione pubblica liberale ci suggerirebbe di by-passare. Tutta la bioetica contemporanea, per esempio, può essere considerata come un repertorio di problemi idonei a mostrare i limiti della ragione pubblica in un universo popolato da stranieri morali. Anche quando cerchiamo di evitare il nucleo metafisico e religioso di una questione bioetica controversa, quello, cacciato dalla porta, tende a rientrare dalla finestra.

Puoi, ad esempio, cercare di evitare la questione ontologica sulla personalità del feto, per discutere di aborto nei limiti della ragione pubblica. E tentare di difendere una posizione pro-choice, appellandoti a ragioni di tipo giuridico-costituzionale. Ma suppongo che un convinto antiabortista possa sempre rimettere la questione ontologica in giro, sostenendo che l’aborto equivale a un omicidio, e che semmai il diritto dovrebbe cambiare, o comunque essere interpretato, alla luce di questa esigenza profonda. Naturalmente, in una società democratica si può decidere di risolvere il problema votando, ma in questo caso è l’autorità e non la ragione a fare la legge. Lo stesso, se vogliamo considerare un caso in cui il pluralismo ha un’origine più tipicamente multiculturale, può dirsi per l’infibulazione. E la lista ovviamente non si ferma qui.

In sostanza, la ragione pubblica è uno strumento intrinsecamente fragile e problematico anche in liberal-democrazia. Soprattutto, presuppone una forte volontà cooperativa da parte di chi ne fa sue le regole (anche se, in verità, si può anche sostenere che l’abitudine a giocare il gioco della ragione pubblica favorisca un’attitudine cooperativa). La ragione pubblica, comunque sia, tiene quando le parti in causa mantengono un perdurante interesse a stare insieme, e sono, proprio per ciò, disposte a un sacrificio significativo di aspetti non secondari della loro personalità in nome di una convivenza migliore.

Se torniamo per un attimo a quanto detto all’inizio sul senso del senso, capiamo bene perché la ragione pubblica sia l’aspetto politico per eccellenza di quel riconoscimento dell’altro da cui dipende la possibilità della comprensione e quindi il senso stesso. In casi in cui il gioco della ragione pubblica ha successo, le differenze, pur persistendo a un livello più profondo, sono sacrificate alle somiglianze, e ciò rende la mediazione simbolica possibile. Il dominio delle storie nazionali e istituzionali è pieno di esempi del genere. Come avrebbero potuto, tanto per fare un esempio che ci è familiare, convivere cattolici e comunisti in Italia nel dopoguerra, pur tra tante differenze di valori fondamentali, se non alla luce di un prevalente interesse umano, storico e costituzionale a stare assieme?

La fragilità e la problematicità della ragione pubblica dipendono, in conclusione, fortemente dalle circostanze storiche entro cui le possibilità della mediazione comunicativa sono collocate. L’equilibrio, che permette di sacrificare in parte le differenze in nome della convivenza, è sempre in bilico, per cui è chiaro che un evento catastrofale può rendere, repentinamente o più gradualmente secondo le circostanze, la situazione contestuale non in grado di reggere alle spinte disgregatrici. In un’eventualità siffatta, il pluralismo etico-politico diventa ingovernabile, e le differenze non sono più mediabili. Ciò, come è ovvio, è più o meno quanto accade in ogni mutamento radicale istituzionale e rivoluzionario della storia.

Ora, se la trama della ragione pubblica è fragile all’interno della comunità nazionale, essa lo è tanto più quando si confrontano culture e tradizioni diverse, come avviene sullo scenario internazionale. Sullo scenario internazionale, infatti, mancano molte di quelle ragioni, storiche e tradizionali, che rendono per così dire naturale sacrificare alcune specificità individuali in nome delle esigenze di una più fruttuosa convivenza. Dopo il 1989, per la verità, alcuni semplificatori ottimisti, come per esempio Fukuyama, avevano preannunciato, non senza una certa ingenuità, un’imminente riduzione delle differenze e dei conflitti tra diverse tradizioni culturali.

Come abbiamo invece tristemente scoperto da allora a oggi, la fine di un tipo di conflitto strettamente politico, quello tra comunismo e liberal-democrazia, non implicava la fine dei conflitti ancora più antichi di natura identitaria. Anzi, si può affermare che la fine dell’equilibrio tra superpotenze e il tramonto del sistema dei blocchi liberavano i conflitti identitari e culturali in tutta la loro disgregante potenza. In fondo, il terrorismo dell’11 settembre, da cui prende spunto questa riflessione, è l’ultimo stadio di un percorso di lutti e stragi che va dalla ex Jugoslavia al Ruanda, passando ovviamente per il Medio Oriente, e trovando focolai sparsi in tutto il pianeta. Il mio interesse intellettuale riguarda direttamente la comprensione del conflitto identitario, le sue ricadute politiche e culturali, e, per conseguenza, le prospettive normative che appaiono meglio indicate per affrontarlo.

La mia tesi, come dovrebbe essere oramai chiaro, presuppone anche che, se i semplificatori ottimisti come Fukuyama hanno banalmente torto, non hanno ragione neppure i pessimisti culturali, come Huntington, e in genere quanti si arrendono alla pervasività e alla eternità del conflitto identitario e culturale. Solo un’ipotesi intermedia tra queste due, infatti, rende plausibile e fruttuoso un tentativo filosofico di comprensione e di ricomposizione.

Questo non vuol dire, come mi sembra del resto ovvio, che la riflessione filosofica sia un sostituto dell’azione repressiva, quando questa si renda necessaria. Sostengo solo che comprensione e repressione sono due cose diverse. E che, senza comprensione, nessuna azione politica, e quindi neppure la repressione, può essere intelligente. L’ipotesi analitica di fondo - che io propongo - è che il terrorismo, puntando sulla diffusa ignoranza delle differenze culturali rilevanti nello scenario internazionale e sulla scarsa volontà di superarle, si proponga di distruggere la trama della ragione pubblica. E, in questo modo, di minare la comprensione reciproca e quindi il senso. Compito normativo della politica è, a mio avviso, cercare di impedire un esito siffatto. Un’opera di questo tipo non può che basarsi su una chiarificazione comprendente delle differenze culturali rilevanti, e costituisce solo una premessa a qualsiasi tipo di azione pratica si voglia intraprendere in maniera riflessiva.

Vorrei anche chiarire subito che non intendo questo compito intellettuale come un’impresa culturale in via esclusiva, ma ancora una volta lo concepisco come una forma mista di attenzione squisitamente culturale e di riflessione più tipicamente strutturale. Cominciando da quest’ultima, non si può ignorare a mio avviso che esiste una enorme sproporzione sociale ed economica tra le varie parti del mondo. La creazione di un maggiore equilibrio socio-economico tra paesi ricchi e paesi poveri, per così dire indipendentemente dalle culture, rappresenta in questo modo il primo impegno normativo di chiunque si proponga di salvare le basi dell’intesa interculturale.

Un’etica delle relazioni internazionali basata sull’idea di sostenibilità sociale, costituisce, da questo punto di vista, non solo un compito morale ineludibile, ma anche la premessa per la ricostruzione del dialogo e quindi del senso. Dopotutto, la miseria morale e materiale, l’ignoranza, l’esposizione non protetta alle malattie e così via costituiscono le vere origini del terrorismo, il suo terreno di coltura potremmo dire. Più in generale, identità culturale vuol dire innanzitutto dignità dell’esistenza, e i paesi ricchi non possono, a mio avviso, trascurare questo aspetto della più complessa vicenda identitaria.

Il concepire con determinazione un diritto di assistenza per i paesi che vivono al di sotto del livello di sussistenza costituisce un dovere primario dei paesi ricchi del pianeta. È anche auspicabile che tale diritto di assistenza sia fornito allo scopo di favorire la comprensione reciproca e il rispetto simmetrico dei diritti umani. Se immaginiamo il tutto nei termini magari stantii ma sempre efficaci di un contratto sociale planetario, allora non sorprende che le basi del rispetto di sé e degli altri dipendano anche dal perseguimento di una maggiore eguaglianza economico-sociale. Dopotutto, molti studiosi arabi e asiatici sostengono che i diritti umani siano in questi tempi ancora un lusso per culture oppresse e per popolazioni miserabili.

Tuttavia, l’analisi della questione ha anche un suo aspetto culturale indipendente dal livello di reddito e benessere dei paesi poveri. Si tratta, in questo caso, di un’opacità culturale reciproca, aggravata dal fatto che una cultura, quella occidentale, esprime un’evidente superiorità competitiva. L’anti-occidentalismo è frutto in questo caso del ritenersi, da parte di membri di culture alternative, più o meno giustamente, vittime di una vera e propria violenza identitaria. C’è chi ha definito la violenza identitaria come l’incapacità di tener conto dell’altro nella propria formazione di identità.

A molti membri di altre culture, noi occidentali abbiamo - vero o falso che sia - dato esattamente questa impressione di incapacità di fare nostri i loro valori anche più semplici, essendo loro invece per ragioni geo-politiche evidenti costretti a prendere sul serio i nostri. Qualcosa del genere è accaduto nel corso della disputa intorno ai cosiddetti «valori asiatici» con i paesi dell’Asia. Qualcosa del genere avviene con il mondo islamico. Non si possono trattare questioni tanto diverse allo stesso modo, eppure un nucleo comune esiste, e richiede una nostra risposta culturale adeguata.

Ho pochi dubbi che una risposta del genere dipenda dalla ricerca riuscita di un equilibrio ermeneutico tra l’accettazione di valori plurali e l’affermazione di diritti che noi, invece, riteniamo irrinunciabili. La tesi presuppone che esistano, talvolta esplicitamente talaltra solo implicitamente, aspetti delle altre culture, che possono essere adoperati come una via per un’adesione multiculturale allo stesso contratto sociale, che sarebbe poi la versione politica della costituzione intersoggettiva kantiana da cui siamo partiti. Non credo neppure che esista una sorta di punto fisso intorno a cui questa intesa possa essere programmata a priori.

Tuttavia, sostengo che ogni proposta di intesa non possa basarsi sulla pura e semplice offerta di un pacchetto di diritti e procedure, per così dire preso dalla nostra tradizione ed esportato in blocco. Anche in questo caso, privilegiare la liberal-democrazia non implica accettare tutto il retroterra culturale ed economico-sociale dei paesi che adottano regimi liberal-democratici. È, in fondo, proprio lo spirito del liberalismo a suggerirci che esistono molteplici modi di vita e concezioni del bene che hanno tutti titolo a convivere sotto l’ombrello condiviso della giustizia.

Autorevoli studiosi sostengono che simili preoccupazioni culturali sono sostanzialmente superflue. A loro dire, l’accostarsi ai diritti umani e alla cultura liberale da parte di culture extra occidentali sarà semplicemente una conseguenza diretta dell’adozione di un modo di produzione capitalistico e di forme di vita più simili alle nostre. Io resisto a questo tipo di riduzionismo socioeconomico, gravido tra l’altro di violenza identitaria. Non c’è bisogno, a mio avviso, che tradizioni culturali diverse dalla nostra adottino il modo di vita occidentale per trovare un compromesso accettabile sui diritti umani, cosa che, come abbiamo detto, costituisce un primo passo verso l’adozione di forme politiche liberal-democratiche.

Concediamo, al contrario, a ognuno il diritto sacrosanto di vivere nell’ambito della propria cultura e delle forme identitarie che preferisce, e vediamo se, in questo modo, più liberale e multiculturale insieme, un accordo su un’interpretazione minimale dei diritti umani è possibile. Accettando questa impegnativa base di partenza, io credo che qualche via di intesa si possa trovare e che essa si basi su un principio teoricamente semplice quanto praticamente complicato: dobbiamo cercare di non proporre la piattaforma dei diritti umani come un esito esplicito della nostra cultura, ma piuttosto impegnarci a ritrovare basi morali comuni nelle diverse culture. Quello che ci aspetta, insomma, è un gigantesco compito ermeneutico orientato alla ricerca di pochi ma fondamentali valori comuni, su cui costruire una visione restrittiva e multiculturale dei diritti umani, sensibile alle differenze e capace di vincere le principali resistenze localistiche.

A questa tesi si può obiettare che essa si nutre molto di speranza e poco di realtà. Questo perché i movimenti extraoccidentali, e le tradizioni culturali che loro corrispondono, non sarebbero affatto disponibili a una parziale integrazione, del tipo di quella che io predico. A conforto di tale obiezione, si citano spesso i casi dell’integralismo islamico e dei cosiddetti «valori asiatici», che mostrerebbero entrambi, se pure come è ovvio in maniera differente, l’impossibilità di quel compromesso ermeneutico su cui ho basato la mia tesi di fondo.

A mio avviso, è lecito però dubitare di tanta sicurezza nell’interpretare, in maniera univoca, altre culture. Cercherò di discutere brevemente il caso dell’Islam - che ovviamente interessa di più il tema da cui sono partito - per dimostrare che coloro che obiettano in questo modo alla mia tesi non hanno tutte le ragioni che credono di avere dalla loro. Va da sé che procedo con molti dubbi ed estrema prudenza, muovendomi su un terreno che eccede del tutto le mie competenze.

È noto che i paesi islamici non hanno riconosciuto la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, proprio perché non accettavano il preteso universalismo di tale documento alla luce di un conflitto con la legge islamica. Hanno così elaborato, come proposta alternativa, una Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo nel 1991. Da allora in poi, il rapporto potenzialmente conflittuale tra legge islamica e diritti umani è stato un permanente oggetto di ricerca scientifica e dibattito politico. Non tutti sanno, però, che i giuristi islamici che si occupano di diritti umani sono spesso e volentieri di formazione occidentale, e che quindi almeno sul piano dell’argomentazione giuridica un’intesa non rappresenta un compito impossibile.

Inoltre, molti di loro conoscono la struttura argomentativa dei princìpi del diritto pubblico di alcuni paesi occidentali, mentre sicuramente è più difficile il caso contrario in cui giuristi occidentali si muovano a loro agio nell’ambito della tradizione coranica. La cosa è rilevante anche a livello superficiale, per esempio se si osserva che quando si parla di diritto islamico si pensa di solito alla Shari’a, ma quest’ultima riguarda essenzialmente il diritto di famiglia e alcuni aspetti di diritto privato, e quindi ha poco a che fare con i diritti umani nella loro generalità.

Non è mia intenzione entrare nel merito del problema (non ne sarei capace, tra l’altro), ma solo proporre un’osservazione di metodo che vede la tesi dell’incompatibilità assoluta tra le due tradizioni come banalmente falsa. Questa mia sintetica, e di certo anche affrettata, conclusione dipende da una semplice constatazione, che a me sembra francamente irrefutabile: esistono a pieno titolo, all’interno della dottrina e del mondo islamico, diverse interpretazioni della legge coranica in competizione reciproca. Di queste, alcune sono ragionevolmente compatibili con la tradizione occidentale dei diritti umani, e altre non lo sono. Per esempio, la dominante dottrina islamica, basata sul salafismo, che costituisce il retroterra cultural-religioso di molti movimenti musulmani, appare sicuramente chiusa e ostile rispetto ai valori liberal-democratici intrinseci alla tradizionale interpretazione occidentale dei diritti umani.

Ma, anche se meno influente di questa dottrina, esiste tuttavia, e si batte con coraggio e vigore, anche un modernismo riformista islamico che si dichiara a favore di una rilettura critica della tradizione musulmana. È chiaro che non è facile valutare, rimanendo così distanti dal cuore del problema, i delicati rapporti tra queste due scuole di pensiero e di azione (e dico due, non escludendone altre, ma solo per semplificare). Ma a me sembra tuttavia evidente che il riformismo modernista ci offra una possibilità importante di dialogo sui diritti umani, un dialogo, si badi bene, essenzialmente multiculturale, nel senso che va alla ricerca di valori comuni ma partendo da basi ermeneutiche distinte, innanzitutto rispettando la piena titolarità di ogni cultura di adottare le sue forme di vita e di proporre la propria visione dei diritti.

Che questa sia la via da percorrere da un punto di vista culturale, per me è indiscutibile. È frutto solo di ignoranza improduttiva e di imperialismo becero ridurre la complessità della cultura islamica a un monolitico fondamentalismo. E ciò non aiuta certo il progetto generale di una diffusione planetaria dei diritti umani. Ma il problema non è solo filosofico o genericamente intellettuale. È anche politico nel senso più tipico del termine. Come si può non tributare rispetto e dare sostegno a quei movimenti e quegli individui che, spesso in condizioni di grave rischio personale e di debolezza politica, si battono all’interno di altre culture per rendere possibile un dialogo globale sui diritti umani?

Sempre per continuare con le premesse politiche al dialogo sui diritti umani. Molti pensatori islamici ritengono - a torto o a ragione - che noi occidentali adoperiamo due pesi e due misure, e che, per esempio nel caso dei Palestinesi, non siamo sufficientemente pronti a reclamare la protezione dei diritti umani. Indipendentemente dalla verità storica di questa tesi, è certo che il conflitto israeliano-palestinese ha esacerbato gli animi e prodotto come conseguenza una forte ricaduta antioccidentale e antiamericana, che ovviamente riguarda il riconoscimento dei diritti umani, ma di certo non solo questo.

Mettendo da parte i diritti umani e ritornando più generalmente ai rapporti culturali con il mondo islamico, che per forza di cose ci interessano particolarmente in questi tempi, possiamo cercare di evidenziare alcuni errori evidenti, evitando i quali la nostra comprensione di quel mondo può migliorare, e magari qualche promettente percorso di indagine. Cominciando dagli errori, dovrebbe risultare chiaro a tutti, come del resto è stato più volte detto, che Islam e terrorismo sono due cose assolutamente diverse tra loro. Non si può confondere un’intera cultura con l’azione di piccoli gruppi estremisti e crudeli.

Anche il nazismo discende in qualche modo dal cristianesimo, ma chiunque volesse identificare la cultura cristiana con il nazismo sarebbe giustamente considerato un interprete perverso. Tuttavia, pur tenendo ferma la distinzione tra Islam e terrorismo, sembra chiaro che cercare di conoscere meglio quella cultura, compiendo anche lo sforzo ermeneutico giuridico di cui si diceva prima, può contribuire a disarmare alcune ragioni di propaganda del terrorismo. Ancora una volta, insomma, comprensione e repressione sono diverse, e la prima va diretta alla cultura islamica mentre la seconda concerne il terrorismo. Tuttavia, qualsiasi azione repressiva presuppone comprensione intelligente, senza di cui è cieca e inutile.

Migliorare la comprensione del mondo islamico vuol dire - e sono parole difficili da pronunciarsi oggi - accostarlo con maggiore amore e curiosità. Come dicevano i classici dell’ermeneutica filosofica, capire vuol dire sempre «rivivere» parzialmente le esperienze altrui. Il fallimento evidente dell’intelligence americana di fronte agli attentati dell’11 settembre non dipende, da questo punto di vista, da eccesso di simpatia e correttezza politica per il mondo islamico, ma piuttosto da quel disinteresse diffuso che è la madre di ogni ignoranza. Combattere quella che abbiamo chiamato prima violenza identitaria, costituisce quindi il primo passo verso una migliore comprensione di un’altra cultura, e, come conseguenza, anche lo sfondo di comportamenti strategici più razionali nei suoi confronti.

Non basta evitare però la violenza identitaria con l’entusiasmo e la curiosità intellettuale. Bisogna sicuramente guardarsi dalle false analogie che minano la comprensione di un mondo culturale che è profondamente diverso dal nostro. Tali false analogie riguardano, purtroppo, primariamente proprio quel nucleo di ragione pubblica, che, come abbiamo visto, è così essenziale al nostro modo di ricomprendere le differenze all’interno di un unico universo di discorso e di azione. La ragione pubblica è la versione politica liberale della possibilità della mediazione, come noi abitualmente la concepiamo. Ma non costituisce un assoluto trascendental-pragmatico. Piuttosto, come abbiamo già prima riconosciuto, è figlia della tradizione liberale.

Ora, la tradizione liberale è nata, in Occidente, essenzialmente intorno alla separazione tra civitas e religio, come un modo per salvaguardare il pluralismo delle fedi attraverso la progressiva privatizzazione degli ambiti di religiosità. Proprio confinare la religione nel privato, separando con nettezza la città di Dio dalla città dell’uomo, ha consentito quel doppio livello e quel sacrificio di motivazioni metafisiche da cui ha origine la ragione pubblica. Quest’ultima, nata probabilmente come un modus vivendi indispensabile a desacralizzare la politica per renderla meno cruenta, ha poi assunto nel tempo una dignità metastorica e una valenza etico-politica più generale. Solo attraverso il ripetersi una vicenda simile, possiamo arrivare a concepirla come la base politica della comprensione intersoggettiva, così come abbiamo proposto da principio.

La falsa analogia, di cui si diceva, dipende ovviamente dal fatto che la separazione tra civitas e religio non è avvenuta, perlomeno nei termini in cui noi possiamo comprenderla a pieno, nel mondo islamico. Qui, come è noto praticamente a chiunque si sia preso la briga di interessarsi un minimo del mondo arabo, la separazione tra città di Dio e città dell’uomo non opera, o, se opera, lo fa in modi e forme che per lo più ci sfuggono. La religiosità islamica, tanto per dirne una, non è privata, ma è squisitamente pubblica. Come pubblica è, per i musulmani, la preghiera, e pubblica è la professione di fede. E alla città dell’Islam non si contrappone lo Stato laico, ma piuttosto lo «Stato della guerra».

Da questo punto di vista, sia detto per inciso, è probabile che queste differenze culturali profonde siano meglio comprese dagli storici della religione, piuttosto che dai teorici laici. Gli storici della religione possono, infatti, facilmente risalire al nostro alto Medioevo, per rintracciare universi di discorso e di vita, che maggiormente assomigliano a quelli dell’Islam. Lo stesso scambio di accuse di eresia reciproca, che è tipico di un mondo in cui la religione ha un significato eminentemente pubblico, rende meglio il senso di un mondo diverso con cui dobbiamo confrontarci.

Accettiamo pure, si potrebbe dire a questo punto, che alcune false analogie, come quella appena denunciata, rendano più difficile se non addirittura impossibile un nostro rapporto culturalmente esauriente con il mondo islamico. Ma evitare le false analogie, rifiutando di attribuire all’Islam la separazione forte tra città di Dio e città dell’uomo, non equivale forse a rinunciare a costruire quella trama della ragione pubblica cui è affidata, nella mia visione, la mediazione politica? Capire, in altre parole, non equivale in questo caso a fallire?

Non credo che ci si possa, ci si debba rassegnare a questa conclusione, e la mia tesi è basata con forza su questo punto. Penso, così che i tempi siano maturi per tentare di ricucire la trama spezzata della ragione pubblica, ma adoperando una visione strategica affatto differente dal passato. Detto in sostanza, suppongo che dobbiamo evitare di pensare che questa trama della ragione pubblica esista già, che sia per così dire operativa e funzionante, essendo sostanzialmente l’altra faccia del capitalismo democratico. Non manca, tra l’altro, abbondante evidenza che questo modo di procedere non funziona, come ho cercato di argomentare finora. Ma tale conclusione non vuol dire che questo non debba costituire il nostro compito normativo per il prossimo futuro.

Dobbiamo, in sostanza, con umiltà e pazienza andare alla ricerca di quei minimi possibili di intesa, per esempio partendo dall’ambito del diritto internazionale e dalle risoluzioni delle Nazioni Unite, per costituire dapprima un modus vivendi di rispetto reciproco. Il consolidarsi di una prassi simile costituirà nel tempo la base storica indispensabile per il formarsi di una autentica ragione pubblica interculturale. Questo vuol dire che il contratto sociale liberale, multiculturale e internazionale del futuro, se mai nascerà, non scenderà dall’alto di un livello di intesa già presente, per esempio come esito della tradizione occidentale capitalista-democratica, ma sarà costituito dal basso attraverso un incontro progressivo di persone e di idee.

Gli ostacoli materiali e culturali per raggiungere uno scopo siffatto saranno, senza dubbio, molti e difficili da superare. Non è però detto che il terrorismo di successo sia il segno di un’impossibilità di riuscire in questo compito normativo tanto impegnativo. In Sicilia, si licet comparare storie tanto diverse, si dice comunemente che quando la mafia funziona bene (bene per lei, cioè male per noi), non la si nota, è silente. Lo stesso potrebbe essere vero per il terrorismo, sia pure di successo come quello dell’11 settembre.

In fondo, potrebbe anche darsi che il terrorismo furibondo sia l’estrinsecazione di un’ultima disperata resistenza verso un’integrazione culturale pluralistica già inevitabilmente in atto. Comunque sia, credo che si possa affermare che il metodo dell’integrazione pluralistica dal basso, che ho proposto, sia meno bizzarro di quanto qualcuno potrebbe invece ritenere. A mio avviso, infatti, questo stesso metodo trova un certo riscontro in politica, in economia e nel mondo della comunicazione.

Quando parlo di politica qui, intendo il complesso rapporto tra sovranità e pluralismo, da cui trae origine tra l’altro l’idea di ragione pubblica. Nella visione tradizionale della politica (che è poi quella attraverso cui la maggior parte di noi si è formata), visione legata allo Stato nazionale, la sovranità è un requisito esclusivo dello Stato collegato al controllo del territorio. La decisione politica promana, per conseguenza, dal centro, e il pluralismo si può prendere tutt’al più come un atteggiamento privato di benevolenza nei confronti della diversità, del tutto privo comunque di autorità pubblica. Questo è, in estrema sintesi, il modello hobbesiano classico della sovranità, che è stato infinite volte ripreso dai manuali di diritto pubblico e ha influenzato come nessun altro la nostra formazione culturale politica.

Ora, detto in breve, il punto è che in un mondo globalizzato, come lo è quello in cui viviamo, questo modello ha perso gran parte del suo significato. È semplicemente falso, di fatto, che la sovranità promana dall’alto e dal centro. Ciò è stato notato più volte dai critici postmoderni e radicali, da Foucault a Toni Negri, per citarne solo due. Il mondo globalizzato è governato da micropoteri diffusi e plurali. Assistiamo, in sostanza, a una dispersione radicale della sovranità, che passa dallo Stato nazionale territoriale a una serie di organismi sia multistatali (la Ue, le Nu) sia multinazionali ma non statali (le ong, le grandi corporations). Il problema che ci si pone, a questo punto, è quello di ricomporre e dare senso normativo alla fotografia della dispersione della sovranità, che ci viene proposta dalla letteratura postmoderna e radicale.

La costituzione progressiva, prima come un modus vivendi e poi magari come un’intesa più profonda, dal basso di una trama di ragione pubblica mi sembra il modo più proficuo di fare un tentativo in questa direzione ricostruttiva. Se vogliamo dirla in maniera più esplicita, possiamo anche sostenere che il terrorismo del tipo di quello dell’11 settembre esibisce, provocando tra l’altro una guerra non dichiarata e non statuale, la fine del modello classico e centrato di sovranità. Rappresenta, per così dire, l’epifania di un tramonto istituzionale. In questo modo, segna anche la fine di un modello di intesa, un modello imperniato sulla centralità della ragione pubblica liberale esportata dall’Occidente.

La mia proposta consiste nella ricostruzione dell’intesa politica, e quindi del senso, attraverso la riproposizione della ragione pubblica liberale dalle periferie, o meglio tramite una dialettica di organismi sovrani polarizzati e polivalenti.
Altrettanto importante mi sembra riproporre l’urgenza di interventi che producano ricchezza nei paesi con cui avviene con difficoltà il confronto culturale. Ancora una volta, non ridurrei tali difficoltà alla sola miseria, ma tuttavia mi sembra evidente che processi di industrializzazione contribuiscano a rendere i rapporti interculturali più facili. Non mancano, tra l’altro, dati statistici che mettono in relazione sistematica la frequenza degli scambi economici con la riduzione dei conflitti armati.

Abbiamo oggi come oggi una pletora di organizzazioni economiche internazionali, dalla Banca Mondiale al Wto, e abbiamo tante imprese multinazionali, e gli stessi Stati occidentali hanno l’opportunità di offrire numerosi incentivi che potrebbero indurre le imprese a investire in maniera geopoliticamente accorta. Come mai ciò non avviene, e questi organismi complessivamente non riescono a investire e creare ricchezza nei paesi dove è aspro il conflitto culturale? La risposta più neutrale che si possa dare è che la causa dell’insuccesso è dovuta alla mancanza di mercati efficienti in questi paesi, con la connessa difficoltà di creare mercati efficienti dove questi non esistono autonomamente. È, come appare ovvio, assai difficile proporre rimedi plausibili contro simili formidabili ostacoli.

Tuttavia, io credo che si possano coinvolgere Stati occidentali, grandi imprese e organismi economici internazionali in piani di sviluppo economico per i paesi poveri, cominciando da una seria verifica delle regole macroeconomiche che possono contribuire a evitare i più evidenti fallimenti del mercato. Come ho altrove sostenuto, c’è una diffusa convinzione secondo cui la finanziarizzazione globale dell’economia renderebbe più difficili piani di intervento di questo tipo. Ciò, in ultima analisi, per una ragione non troppo diversa da quella espressa prima in materia di sovranità, sarebbe a dire perché la visione finanziaria tende a scindere definitivamente profitto e territorio. Personalmente, al contrario, non giudico la finanza come una forza arbitraria, del tutto separata dalle convinzioni e dai valori del pubblico dei risparmiatori, e quindi credo che proprio il terrorismo radicale possa contribuire alla formazione di incentivi selettivi che consentano investimenti eticamente orientati, cui i risparmiatori possano indirizzarsi con la sicurezza di creare un ambiente-mondo più stabile.

Per quanto riguarda la comunicazione in un mondo globalizzato, io non esiterei a cominciare dal fatto che la globalizzazione incrementale della comunicazione - dovuta al progresso tecnologico e alla riduzione dei costi industriali - è stato un fattore decisivo nella caduta progressiva di molti regimi totalitari. L’interconnessione crescente delle nostre vite, che riguarda economia, finanza, eserciti, ambiente e persino le malattie (si pensi a Aids e mucca pazza, ma anche a nuove temibili malattie del passato che possono tornare attraverso le migrazioni e il terrorismo), viene comunicata globalmente, rendendo sempre più difficili le tendenze autarchiche e nazionaliste che caratterizzano di solito i regimi autoritari. Inoltre, tale comunicazione ubiquita e policentrica contribuisce a frantumare, come abbiamo visto, lo stesso concetto di sovranità, dando luogo a forme di potere diffuso diverse dal centralismo autoritario dello Stato nazionale. In questo modo, la comunicazione globalizzata contribuisce indipendentemente alla ricostruzione della trama della ragione pubblica, e crea nuove possibilità di intesa.

Per altro verso, il fenomeno in quanto tale è meno originale se lo si guarda in una prospettiva storica. Dopotutto, non solo gli imperi ma le grandi religioni universali e le èlites culturali e politiche erano sufficientemente globalizzate da secoli. E così pure le ideologie e i modi di pensare della modernità, dalla cultura scientifica al liberalismo e al socialismo. C’era, dunque, già da prima una comunicazione globale, cui faceva però da contraltare, dall’età moderna in poi, il potere centripeto degli Stati nazionali. Ed è proprio il ridimensionamento di quest’ultimo, di cui si è detto, a rendere la comunicazione più globalizzata ai nostri giorni. A sua volta, la riduzione di influenza degli Stati nazionali si deve anche alle nuove tecnologie della comunicazione e alle forme di produzione (le grandi corporations internazionali) in cui sono organizzate.

Da questo punto di vista, la globalizzazione della comunicazione è senza dubbio connessa a vari sviluppi scientifico-tecnologici-imprenditoriali. Nuove infrastrutture globali - a cominciare da Internet e dalla tv satellitare - rendono la penetrazione reciproca delle idee meno costosa e assai più facile. Se si pensa che fino al secondo dopoguerra le principali tecnologie di comunicazione erano legate alla telefonia, ci si rende immediatamente conto degli enormi cambiamenti avvenuti negli ultimi cinquanta anni. Lo sviluppo principale è probabilmente dovuto alla progressiva sostituzione di sistemi di segnali analogici con sistemi digitali.

L’era del digitale ha consentito, a sua volta, il mescolarsi di informazioni via computer, sistemi di telecomunicazione e altre forme mediatiche (visuali, sonore eccetera). I cavi transoceanici sono ora in grado di trasportare in tempi minimi e a costi bassi un’enorme quantità di informazione digitalizzata. Al tempo stesso, nuovi meccanismi di trasmissione, ancora più efficienti, si affiancano ai cavi, dalle fibre ottiche ai sistemi satellitari. Anche in questo caso, tuttavia, la globalizzazione della comunicazione è parziale: i cavi internazionali passano per la maggior parte nelle aree del Nord Atlantico, Nord Pacifico e Mediterraneo. Nonostante ciò, negli ultimi decenni molti Stati medio piccoli sono riusciti a costruirsi sistemi di comunicazione internazionale piuttosto sofisticati.

Il sistema della comunicazione globalizzata è facilitato dalla diffusione dell’inglese come lingua comune e dalla presenza di grandi compagnie multinazionali delle telecomunicazioni. Queste compagnie erano spesso già esistenti all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, ma è cambiato molto il loro livello di internazionalizzazione. Le compagnie multinazionali del settore sono state favorite, oltre che dal progresso tecnologico, dagli accordi presi in sede Wto, che hanno avuto effetti di liberalizzazione e deregolazione, e hanno consentito la loro espansione planetaria progressiva.

Delle 80 compagnie più importanti del settore circa metà sono statunitensi, e le altre divise tra Giappone, Europa e Australia (da notare che il modo in cui le compagnie non americane sono diventate effettivamente globali è dovuto di solito all’acquisto di attività americane, come nel caso di Sony, Hachette e Bertelsmann oltre che da un’abile attività di fusione e merging con altre compagnie). In Italia, Mediaset, pur avendo le dimensioni di una grande compagnia internazionale, non raggiunge probabilmente un pubblico tanto differenziato sul pianeta, del tipo di quello raggiunto per esempio dai classici Time Warner o Cnn.

Anche radio, televisione, cinema e turismo danno un evidente, anche se più tradizionale, contributo alla comunicazione globalizzata. Nel complesso, rispetto alla modernità, c’è stato negli ultimi decenni un indubbio aumento di comunicazione globale in termini di quantità e qualità. Tale cambiamento è registrato e promosso dalle grandi agenzie di cultura internazionale come l’Unesco, che cercano di trarne le conseguenze politiche e legislative più generali. Non bisogna dimenticare, però, che - come del resto è evidente da quanto detto finora in proposito - i mutamenti della comunicazione internazionale non sono simmetrici né fattualmente né culturalmente: esiste, come abbiamo mostrato sia pure in breve, un dominio indiscusso delle forme di vita occidentali che si impongono competitivamente.

È anche banale, alla luce delle stragi recenti di natura terroristica, quanto sia importante tenere conto di ciò, e riflettere sulla perdita di identità che viene imposta a individui e culture dalla rivoluzione della comunicazione in atto. D’altra parte, la tesi della omogeinizzazione progressiva delle culture - in seguito alla globalizzazione della comunicazione - ha non poche debolezze, a cominciare dal fatto che trascura la forza delle culture locali e in genere le capacità individuali di trasformare non passivamente i messaggi.

La velocità sempre maggiore della comunicazione planetaria e il suo impatto sempre più pervasivo non possono d’altronde non avere conseguenze politiche ed economiche di grande portata. Il crollo dell’Urss ne è forse la testimonianza più evidente. Così come la natura sempre più planetaria della produzione industriale standard. Ma c’è probabilmente di più: i mutamenti della comunicazione cambiano il nostro modo di pensare e decidere (forse il mondo finanziario qui è esemplificativo). Ma, ancora più in generale, la trasmissione dell’informazione - cioè l’oggetto della comunicazione - sembra essere diventata il cuore della nostra società, la faccia più comprensibile dello Zeitgeist (lo spirito del tempo). La stessa economia in quanto tale può essere pensata in termini di aspettative razionali basate sull’informazione disponibile, e il Dna viene di solito immaginato come un messaggio testuale. Se c’è, in sostanza, una base metafisica del nostro tempo, azzarderei che essa è costituita dal modo in cui l’informazione è trasmessa globalmente.

Dal punto di vista politico, la comunicazione globale può essere presa o come un formidabile strumento di emancipazione collettiva atto a liberare individui e popoli da barriere di vario genere, o come uno strumento di oppressione omogeneizzatrice capace di cancellare identità personali e gruppali. Una riconciliazione di queste due visioni contrapposte può avvenire sul piano etico-normativo, e dipende dalla nostra capacità di immaginare e realizzare nel futuro una comunicazione sempre più partecipativa e in grado di sostenere l’autonomia dei soggetti. Si possono ipotizzare grandi network globali digitalizzati, basati sulla connessioni di reti locali autonome culturalmente ed economicamente. Si tratta, al momento, bisogna ammetterlo, di pura speculazione. Tuttavia, il senso della produzione di nuovi media sembra andare generalmente in direzione di un potenziamento dei terminali locali e non del centro, e quindi non va in direzione opposta alla tesi centrale fin qui sostenuta.

Vorrei concludere ribadendo che quando detto in questo scritto ha evidentemente origine da un retroterra filosofico e normativo ispirato alla forma politica liberal-democratica. Ciò vuol dire che parto da uno sfondo non solo non neutrale, ma probabilmente anche troppo astratto e basato sul dover essere più che su quanto effettivamente succede. C’è, però, al fondo una convinzione, che mi sento di difendere con ostinazione. Noi, confrontati con i grandi drammi della storia, siamo sempre terribilmente impotenti e al tempo stesso sognatori. Assomigliamo, in altre parole, più a Don Chisciotte che ad Alessandro Magno. Nonostante questa consapevole e tragica impotenza oggettiva, sentiamo talvolta soggettivamente la necessità morale ed esistenziale di rispondere alla tragedia con un atto di fede nella ricostruzione. Ed è del tutto normale farlo, partendo dalle poche convinzioni che ci sembrano stabili dopo la tempesta.

Nel mio caso, ciò equivale a dire che le possibilità filosofiche di riconquistare un’intesa tra stranieri culturali sono legate innanzitutto alla capacità di far sopravvivere, in forme mutate e con maggiore attenzione all’altro, cioè ricostruendone la trama dalle periferie e non dal centro, la ragione pubblica liberale. E, in secondo luogo, che tale riconquista del senso perduto non è concepibile in termini di pura ragione, e di attenzione culturale alla differenza, ma ha da essere fondata su una trama di interventi materiali, che tendano nel loro complesso a favorire l’eguaglianza economico-sociale. Non si possono, infatti, trascurare, accanto a quelle culturali, le cause materiali, a cominciare dal degrado, dall’umiliazione e dalla miseria, che rendono il dialogo impraticabile, prima ancora che il terrorismo ne segni con tragica evidenza l’impossibilità attuale. In questo modo, il mio approccio politico normativo aspira da un lato a maggiore coerenza con la sua fondazione filosofica in parte pragmatica, e dall’altro a essere meno utopico e più realistico.

* Questo editoriale deve molto alle mie conversazioni con Francesca Corrao, che mi ha suggerito anche alcuni percorsi di lettura all’interno della complessa questione del rapporto tra cultura islamica e diritti umani. Il testo è stato preparato, in una prima versione, per l’importante convegno di studi organizzato dal centro studi Arela sull’area del Mediterraneo a Bari dal 4 al 6 ottobre 2001. Ringrazio in particolare Anna Spreafico e Marcel Aymard, e per conto loro l’Arela, per avermi dato la possibilità di riflettere sul tema in maniera più sistematica. Il testo è stato letto da Luigi Caranti, Flavio De Caro, Mario De Caro, Gianfranco Pellegrino e Ingrid Salvatore, che mi hanno suggerito alcune modifiche alla versione originaria, e che ringrazio per l’attenzione solerte. Va da sé che la responsabilità per quanto sostenuto in queste pagine è soltanto mia.


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