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Che significa oggi "riformismo"?



Corrado Ocone




La parola più in voga a sinistra quest’oggi è sicuramente "riformismo". E’ una parola che si è imposta di fatto, senza un’adeguata riflessione intellettuale e senza partire da un’impellente esigenza politica. Di colpo essa è diventata la più usata per indicare ciò che vorrebbe e potrebbe essere quell’insieme magmatico posto fra il fu del "grande partito della classe operaia", l'è di una coalizione litigiosa e senza un vero leader, e il sarà (forse) di una forza autorevole di governo e, perché no?, di cambiamento.

Fra i più strenui e convinti assertori della bontà del termine, della sua dignità storica e teorica come del suo valore simbolico e pratico, è sicuramente Giuliano Amato. L’ex presidente del Consiglio, accettata con saggezza la decisione dell’Ulivo di non candidarlo ad antagonista di Berlusconi nelle ultime elezioni, ha da allora cominciato un’intensa attività politico-culturale. Luogo privilegiato e centro ideale di essa è subito diventata la Fondazione Italianieuropei, che Amato anima insieme a Massimo D’Alema.

Oltre a promuovere interessanti convegni internazionali con i massimi teorici delle sinistre di governo europee, la Fondazione ha da poco fatto uscire il primo numero della rivista omonima, che porta come sottotitolo "bimestrale del riformismo" e presentata recentemente nella saletta rossa della Libreria Guida di Roma, dallo stesso Amato e da De Giovanni e Ranieri. Il "dottor sottile" della nostra politica ha, fra l’altro, da poco offerto ai lettori del bimestrale Reset, (diretto da Giancarlo Bosetti, come Caffè Europa), una mirabile "Lezione sul riformismo", che è una vera e propria voce di dizionario politico. Proprio dalla lettura di questa "lezione" si può prendere lo spunto per cominciare a chiarirsi sul significato del termine. E sul senso dell’essere riformisti oggi, nella sconquassata sinistra dell’era del berlusconismo trionfante.

Amato all’inizio del suo intervento parla di riformismo al plurale e dice che i riformismi sono sostanzialmente tre o quattro: "socialista, cattolico-popolare e liberal - democratico, con l’ambientalismo che li arricchisce tutti". E che essi rappresentano "le culture dell’Ulivo" ( a questa accezione ampia del concetto fa riferimento Sylos Labini, che ogni venerdì sulle pagine de l’Unità propone un’interessante antologia del riformismo). Ma subito dopo Amato mostra come, storicamente, di riformismo si possa parlare solo in seno al movimento socialista (e/o comunista).

Se è infatti vero che il riformismo è un’impostazione politica volta a modificare lo stato esistente delle cose con metodi legali, il problema della illegalità o meno dei mezzi si è posta solo nell’ambito del movimento operaio organizzato. D’altronde, le riforme di cui si parla sono un’alternativa alla rivoluzione. E la domanda che ci si è posti è stata suppergiù questa: bisogna cambiare aggiustando il vecchio, o distruggendolo?

Se si tiene largo il concetto di riformismo si è costretti ad ammettere, come Amato per onestà intellettuale è costretto a fare, che anche il tatcherismo era un riformismo. I cosiddetti "conservatori", le destre, possono volere il cambiamento e criticare più o meno aspramente lo status quo, come e più dei "progressisti", delle "sinistre". E i cambiamenti possono essere, anche a destra, o riformistici o, dio ce ne scampi, rivoluzionari, come quelli proposti dalle ideologie paranaziste dell’Uomo Nuovo. In un regime democratico di alternanza, in cui tutti accettano sostanzialmente le regole del gioco, riformista è persino ogni movimento politico di opposizione che si candidi alla guida del governo e che, per ciò stesso, voglia riformare ciò che è proprio dell’attuale politica governativa.

In poche parole, si può dire che si è riformisti o rivoluzionari sempre rispetto a qualcosa, sempre a partire da un termine di riferimento: in un regime fascista rivoluzionari sono gli antifascisti, anche i più moderati fra loro, e riformisti coloro che vogliono cambiare solo singoli aspetti di un regime al quale sostanzialmente aderiscono.

Proprio perché non si può assolutizzare nessuna definizione, per uscire da questo relativismo estremo occorre far riferimento alla storia concreta, e cioè ai momenti e alle fratture verificatisi nell’evoluzione reale dei partiti socialisti fin qui esistiti. E’ così possibile individuare sostanzialmente due stagioni del riformismo: una prima, che è forse più corretto definire revisionistica, in cui la dottrina marxista veniva corretta alla luce degli imprevisti sviluppi del sistema capitalistico (aumento del benessere e dei ceti medi, delle libertà e delle opportunità di tutti) e l’avvento della società futura rimandata a una seconda fase.

Nell’oggi l’idea della società futura funzionava come richiamo simbolico e ideale, mentre ci si concentrava su riforme graduali e perfezionamenti parziali. In un secondo momento, il riformismo si è evoluto invece in un senso ancora più radicale: capitalismo e democrazia liberale, lungi dal rappresentare il negativo rispetto al positivo di una società pianificata e senza classi, sono ora considerati valori in sé, sistemi storici da correggere e migliorare ma non da trasformare. Nemmeno in un domani più o meno lontano. Il che ha significato, in sostanza, l’abiura del marxismo: evento verificatosi molto tardi ovunque, non solo in Italia (il congresso di Bad Gdesberg della SPD è del 1959!)

In quest’ottica storica si possono forse capire tante cose: a) il PCI è stato, nei fatti, un partito più riformista che rivoluzionario, sebbene fermo più tempo di altri partiti occidentali nella prima fase del riformismo (diciamo fino al congresso della Bolognina, cioè fino al 1991); b) la fine del marxismo, come dice Giddens, non può non rappresentare anche, storicamente, la fine della socialdemocrazia, cioè del primo riformismo, legato ad una visione economicistica della realtà e da un ideale pacificatore e astratto ( seppure proiettato in un lontano futuro) dei rapporti sociali; c) l’alternativa concreta è rappresentata dal secondo riformismo, che più correttamente rappresenta un ritorno al socialismo liberale, libertario, umanistico ed etico antecedente a Marx.

Altro che "socialismo scientifico"!: il socialismo risiede nella volontà degli individui, come diceva Rosselli. E il fine non sostituisce né giustifica i mezzi perché rispetto al movimento è nulla, come voleva Bernstein.

Quella apertasi con l’affermazione e diffusione planetaria del marxismo è, a ben vedere, una piccola parentesi nella storia millenaria del socialismo, ovverosia dell’aspirazione umana alla libertà e alla giustizia sociale.


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