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Il razzismo del nulla



Carlo Scirocchi



Avevo sempre pensato che esistesse una sola morte, anche se rappresentata attraverso il dolore di ciascuno. La morte del bambino o del soldato o della donna al mercato o dell’impiegato di qualche torre, avevo sempre pensato che tutte queste apparentemente differenti forme di morti fossero in realtà una morte sola. Infatti i nostri grandi predicatori non hanno mai fatto distinzioni. Non mi sembra che Gesù, tanto per fare un esempio insigne per noi cristiani, abbia mai predicato la differenza fra una morte e l'altra. Mi sembra proprio che per Lui la morte del plebeo o del patrizio, dell’ebreo o del romano, avessero tutte lo stesso significato, o valore, o dramma.

Da un po’ di tempo questa mia convinzione si sta offuscando. Anzi, per dirla tutta, mi sento un po’ imbecille quando qualcosa nel mio cuore mi spinge ad ostinarmi a provare lo stesso tipo di dolore per tutte le rappresentazioni di morte che mi piovono addosso, tutti i giorni, attraverso i media. C’è una grande discrepanza, infatti, tra ciò che provo e ciò che vedo rappresentato. Qualcosa in me evidentemente non funziona bene.

La morte di cinque ragazzini anonimi a Gaza mi stringe il cuore come in una morsa fredda. Vorrei saperne di più su di loro, sulle loro famiglie, sul perché si trovassero a giocare con una bomba anziché con un trenino, sui loro nomi, su quale scuola frequentassero. Vorrei saperne di più anche perché i resti bruciacchiati dello zainetto di uno di loro somigliano maledettamente allo zainetto di mia figlia.

Tutti gli zainetti del mondo si somigliano. Avrei voluto che le mie lacrime, o i miei forti sentimenti di tristezza, avessero trovato qualcosa di più concreto su cui riversarsi, un po’ come chi perde un parente stretto in un incidente aereo o in una guerra vorrebbe qualche resto carnale su cui piangere anziché il nulla etereo dei sogni o dell’immaginazione.

Cosa c’è di più innocente tra le vittime innocenti se non i bambini? Il mio cuore di semplice e ingenuo spettatore rimane sgomento di fronte all’enorme sperequazione di mezzi audiovisivi a favore di questo o quel cadavere a seconda della categoria di eccellenza che gli viene attribuita. Il mio cuore chiede di piangere per tutti allo stesso modo, uomini e donne, vecchi e bambini, giornalisti o soldati, fotografi o poeti. Quello che vedo è la rappresentazione dell’orrore che attanaglia l’umanità, la sua pervicace ricerca del male.

Qualcuno certo penserà che un sentimento di pietà universale è piuttosto ingenuo visto che da che mondo è mondo i propri morti, personali o di gruppo, sono stati considerati molto più sacri degli altri. Bene. Ma esiste un limite? Quanto fa bene allo spirito umano parlare per giorni dell’assassinio di un giornalista e riservare pochi secondi all’ultima strage di bambini? Se l’indignazione e il dolore, che pure fanno parte del bagaglio umano, vengono canalizzati solo su certi obiettivi, sapremo veramente comprenderci meglio, conoscerci meglio e, in definitiva, trovare soluzioni più eque e durature ai contrasti?

Ecco, piuttosto che di ingenuità io ne farei una questione di ‘praticità’. Il punto è che la suddetta feroce discriminazione mi sembra oltrepassare i legittimi limiti umani della solidarietà del gruppo, la normale etica egocentrica delle nazioni. Mi sembra piuttosto un altro aspetto delle ragioni che sostengono i conflitti in atto o in divenire, una specie di specchio dell’animo umano sofferente e ottenebrato dalle disarmonie esteriori e interiori. Se per noi tutti occidentali evoluti le morti di innocenti meritano una così forte discriminazione nella considerazione e nel giudizio, il passo diventa allora breve verso la discriminazione del valore dei vivi.

Già, perché il giudizio sui morti non è altro che il rovescio della medaglia del giudizio sui vivi. Perché piangere sui diversi, sugli straccioni, addirittura sugli infedeli più o meno inferiori? Perché perdere tempo e energie ‘dolorifiche’ per drammi di altre culture, di altri luoghi, di strani esseri maleodoranti (perché certo a giudicare dalle foto devono puzzare parecchio) che, in fondo in fondo, certe tragedie se le sono anche cercate? Ma sapete qual è l’ironia della sorte? A forza di discriminare questo o quello, a mettere sempre in moto il bilancino del giudizio di valore razziale, religioso, straccionesco e altro, ci siamo costruiti una miriade di gabbie nella nostra stessa casa.

Siamo così abituati a dare per scontato che esista una graduatoria dei valori della morte umana, come riflesso automatico di tale bilancino, che siamo pronti ad accettare di piangere di più per un reporter che per un soldato, anche se sono dei ‘nostri’, senza minimamente rendersi conto che il nostro giudizio discriminatorio e condizionato si rivolge contro i rappresentanti della nostra stessa società e cultura. Questo vuol dire che tutta la nostra società è attraversata da una rete di potenti mura divisorie, talmente alte da impedire la comunicazione anche dei fluidi, cioè delle lacrime, mura erette nella nostra anima.

Questo vuol dire che un sentimento così umano e così universale come il dolore è ridotto ad una marionetta nelle mani di una strana e assurda regia che, dagli schermi della TV, comandi in maniera subliminale, tipo certi maghi da avanspettacolo: OK, al mio via piangere tutti insieme! Così oltre ai viaggi di gruppo, alle vacanze di massa, alle orde di pendolari di fine settimana, abbiamo anche inventato il ‘pianto delle ore 20’, o, da un altro punto di vista, ‘il morto più drammatico’. Triste fatto se i sentimenti, oltre che i gusti mondani, diventano anch’essi marionette.

Sarò anche ingenuo spettatore ma preferirei interrogarmi fin nelle radici del mio sgomento per ascoltare la vibrazione della mia propria anima, salvaguardando il bene prezioso della mia autonoma tristezza, della mia capacità di osservare e sentire senza suggerimenti o direttori del coro; il bene prezioso del rispetto indiscriminato per la vita e della capacità di addolorarmi per ciò che vedo e sento fuori dalle categorie intellettuali dominanti.

Ecco, credo che piangere tutti i morti, anziché solo qualcuno ancorché illustre perché simbolo di moda, valga a conoscere meglio e a voler bene ai vivi con tutti i loro drammi. Se la discriminazione verso il valore dei vivi arriva al punto di discriminarne la morte, allora siamo arrivati al razzismo del nulla.


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