“O si cambia, o si muore”
Corrado Ocone
Immane e difficile compito quello che attende Piero Fassino, neo -
segretario della Quercia. In ballo c’è non un programma politico,
una strategia, un ceto dirigente, ma l’esistenza stessa di un’entità
di Sinistra, non marginale, nel panorama politico italiano. “O si
vince o si muore”. Ma per vincere bisogna cambiare, bisogna
interrompere il trend negativo di quello che un tempo fu il
“glorioso” partito della classe operaia. “O si cambia, o si
muore”, allora, come ha giustamente detto Fassino nel suo primo
intervento da segretario a Pesaro.
Il congresso ha molto discettato su questo quid che è oggi
il partito dei DS, quasi si trattasse di un'entità metafisica,
aristotelica. Ne ha discusso "filosoficamente” e molti,
probabilmente, non hanno capito. O hanno capito poco. E’ un
peccato perché un partito non può nemmeno rischiare di sembrare un
circolo intellettuale. E la politica è, appunto, l’arte della polis,
di tutta la polis.
Sia beninteso: i DS devono opporsi, a mio avviso, alla retorica
populistica e demagogica, all’incoerenza fra parole e fatti che è
propria della Destra al governo. Ma, se vogliono avere un futuro,
devono intercettare bisogni, esigenze, interessi di fette ampie di
cittadini - elettori. Ho come l’impressione che per i DS abbia
votato sì il sedici per cento dell’elettorato alle ultime
elezioni, ma buona parte di questi elettori hanno fatto un segnetto
sulla Quercia impressa sulla loro scheda per motivi non legati alla
politica: per affetto, in ricordo dei tempi che furono, perché era
uno dei pochi modi incisivi di dire no a Berlusconi, come
incoraggiamento, anche perché riconoscevano la serietà e la “normalità”
di una classe dirigente (in politica non si richiedono eroi, è
sufficiente essere persone “normalmente” perbene e oneste).
Non credo invece che siano stati in molti a votare DS per convinta
adesione a una politica. Ed è qui, a ben vedere, il punto, la nota
dolente e il nocciolo della questione. I DS non hanno più appeal.
Non lo hanno per le persone ubriache dei sogni indotti dalla Casa
della libertà (e persino dal Fazio che predice un isolato e
altamente improbabile miracolo italiano!), ma non lo hanno nemmeno
per le persone comuni e assennate. E non hanno appeal perché
non offrono risposte (anche sbagliate, non importa), ma solo dubbi.
Sia chiaro: i dubbi sono importanti e vanno coltivati. Ma nella vita
intellettuale, negli ambiti pubblici e privati di riflessione. Nell’azione,
soprattutto in quella politica, bisogna invece decidersi, essere
decisi, assumere una posizione, prendere parte, responsabilizzarsi.
Essere sempre pronti a ricredersi e a fare autocritica, ma comunque
agire convinti. E invece…
E invece ci si è illusi ancora ieri di essere, all’un tempo, con
i no global e con i governi del G8, con gli americani
impegnati in Afghanistan e in piazza a Perugia per la pace… Non va
certo messo in dubbio il fatto che la realtà è complessa, che non
tutto è bianco o nero, che bisogna rifiutare i rigidi aut aut.
Ma questo in sede di pensiero, e non comunque per quel che concerne
i principi. Sui principi bisogna al contrario essere fermi, anche a
costo di perdere la piazza. Anche se a rischio è, secondo me, solo
la piazzavisibile (mediatica e/o urbana).
C’è probabilmente un problema che è alla base dell’“indecisione”
dei DS (per dirla con Rondolino). Un’indecisione che si traduce, a
livello espressivo, in un replay della dialettica
togliattiana del “siamo un partito di lotta e di governo”: cioè
istituzionale e antagonista, nello stesso tempo. Il problema è che
oggi nei DS convivono non due anime, ma due diverse sinistre. E
veramente non so (lo dico anche con rammarico) fino a quando possano
essere tenute assieme. Considerato però che una sinistra
alternativa è già rappresentata dal partito di Bertinotti e che
comunque, a mio avviso, “non ha il futuro davanti a sé”, a
costo di qualche strappo (la vicenda di La Fontaine, in Germania,
dovrebbe forse insegnare qualcosa) ritengo che bisognerebbe
decidersi inequivocabilmente per una sinistra riformistica e
liberale, per l’idea di un grande partito socialdemocratico o di
socialismo liberale (e Fassino in verità, bisogna dargliene atto,
ha cominciato a farlo). La “filosofia” di cui si diceva prima,
può essere ridotta in soldoni a questo nodo. Che rimane “filosofico”
nella misura in cui non viene (non può venire?) sciolto.
Faccio alcune considerazioni a margine, per così dire. Quando dico
che la Sinistra liberal ha il futuro davanti a sé, non
voglio dire che bisogna comunque seguire la corrente: il preteso,
presunto e nefasto “senso della storia” di marxiana memoria. No,
dico semplicemente che gli interessi dei veri e nuovi deboli, della
più parte dei cittadini “normali”, sono oggi meglio
intercettati da una Sinistra che parti di diritti e non di garanzie,
di opportunità e non di sicurezze, di individualità da coltivare e
non di masse da organizzare. Per quel che concerne invece un secondo
punto, osservo che mi inchino alla forza delle cose, anche perché
guardo ai contenuti pur ritenendo che comunque le parole abbiano una
loro importanza: il termine “riformismo” ha ormai prevalso (e
con esso anche quello di “socialdemocrazia”), ha superato per
così dire la “prova d’uso”.
Mi inchino alla forza delle cose anche perché Giuliano Amato
illustra sull’ultimo Reset con invidiabile chiarezza tutta
la dialettica storica del rapporto fra riformisti e massimalisti
nella Sinistra italiana, dandoci l’impressione, come si diceva un
tempo, di “venire da lontano”. Eppure, mi sia consentito, “riformismo”
e più ancora “socialdemocrazia” sono termini che, rispetto a
“sinistra liberale” e “socialismo liberale”, possono far
correre un rischio: quello di richiamare un’impostazione
economicistica della questione sociale del tutto inadeguata, a mio
modo di vedere, a dare identità a una Sinistra moderna e
modernizzante.
Ma è un rischio che speriamo sia nei fatti scansato. Rimane il
problema, ma i “lavori in corso” questa volta lasciano ben
sperare. E’ ora giunto il momento di non voltare più le spalle
alla società, di non essere autoreferenziali, di rinnovarci, di
capire i nuovi linguaggi e di non demonizzare coloro che li parlano.
I giovani, in prima istanza.
Voglio riportare un episodio che mi è capitato qualche giorno fa, a
tavola con due esponenti della Sinistra, poco più che cinquantenni.
L’argomento della discussione, ad un certo punto, concerneva i
giovani di oggi. A dire dei due commensali essi sarebbero ignoranti,
con lacune culturali incolmabili, incapaci di organizzare le idee e
di esprimersi correttamente, quasi tutti simili ai personaggi che
compaiono in televisione e che li avrebbero forgiati a loro immagine
e somiglianza. Ecco, ciò mi sembra completamente irreale.
Per mia buona sorte svolgo un lavoro che mi permette di stare a
contatto con tanti giovani, forse selezionati ma nemmeno più di
tanto. Posso affermare così, con una certa sicurezza, che essi sono
molto più svegli e preparati della media dei giovani di qualche
generazione fa. Nonostante la TV e tutti i cattivi mastri. Ritengo
che un gran numero di loro siano dotati di spirito critico, che
ragionino senza preconcetti o ideologismi, che in più padroneggiano
tecniche che hanno appreso rapidamente e che noi non conoscevamo.
Con quanto dico non voglio generalizzare, ma non condivido nemmeno
le generalizzazioni contrarie. Ciò che mi sembra interessante
osservare è che, nel momento in cui si semplifica e per comodità
non si fa uno sforzo di comprensione della realtà che è cambiata e
non necessariamente in male (una battuta: non sento più espressioni
tipo “cioè” o “nella misura in cui”); nel momento in cui ci
si chiude nelle proprie certezze senza metterle in gioco; bene in
questi momento inizia la fine.
“Bisogna cambiare. Il mondo”. Bello slogan, non c’è che dire.
Per cambiare il mondo, è chiaro, bisogna oggi cambiare prima di
tutto se stessi. Forza Fassino, speriamo di farcela!
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