"Siamo cambiati"
ah, l'eterna tiritera dei Ds!
Silvio Trevisani
Il tavolo della presidenza del congresso è quasi in mezzo al
parterre e sopra c’è il grande schermo che inquadra, ingrandisce
e si sofferma sui particolari. Tutti guardano lì e poco importa se
qualcuno volta le spalle ad un pezzo di sala. La scenografia è
bella, la coreografia curata, il palazzo dello sport avvolgente,
protettivo. Ma perché un partito organizza un congresso e spende
miliardi? Di solito lo fa perché è convinto di avere qualcosa da
dire, agli iscritti e all’opinione pubblica. Ha una notizia da
dare. Su cui vale la pena discutere. In questa nostra società che
vive di immagine, che chiede comunicazione, uno si aspetta questo.
Invece a Pesaro atterra l’alieno, il diverso: e trovi i Ds riuniti
per una seduta di autocoscienza, che non è neanche pubblica.
Perché a Pesaro si è incontrato un partito con poche idee. E poca
leadership. Che non sapeva esattamente cosa discutere.
Sono entrati divisi e rancorosi. Sette mesi senza un gruppo
dirigente, più orfani che consci del vuoto politico che non erano
stati in grado di riempire. Figli di una sconfitta non ancora
elaborata. Alcuni sono usciti più tranquilli, alcuni speranzosi,
alcuni fieramente convinti che “adesso ve la faremo vedere noi”.
Sì, non si sono lacerati. Non c’è stata scissione. Non ancora.
Ma la domanda è: erano necessari sette lunghi e dolorosi mesi per
dirsi solo questo, era obbligatorio il grande rito del congresso
straordinario?
Perché alla fine si è ancora tutti lì a dire, come si fa ormai da
lunghi anni, che “siamo cambiati”, “siamo riformisti” e “che
forse ce la faremo”. Con una novità assoluta, la diatriba sul
problema se “il mio riformismo è più bello del tuo”.
La ritualità è importante, ti prende, ti rassicura. Se c’è
anche un po’ di autocritica, è il massimo. Però se è quest’ultima
è farcita di frasi come: “Certo, io ho sbagliato ma tu hai fatto
più errori di me”, ma non c’è nome e cognome, interessa forse
a qualcuno?
Poteva essere una seria “resa dei conti”, un chiarimento
ancorché feroce sulle responsabilità dei vertici e dei “leader”
che però non è avvenuta. Perché, si sa, “ i figli del Pci e
certe cose non le fanno”. In tanti non vogliono D’Alema
presidente e nei corridoi te lo dicono. Ma quelle parole non escono
da lì. La critica, quella che serve a far capire e scegliere non
viene fatta sotto e dentro il grande schermo. Se D’Alema ha
sbagliato perché non sostenerlo pubblicamente? Dire ad alta voce
che è stato spettatore apatico della sconfitta di Prodi, e dell’Ulivo,
che forse non ha fatto bene il presidente del consiglio, che ha
pensato solo a se stesso e non al “grande partito” o al futuro
della sinistra in Italia. Che ha buttato giù tutti i birilli senza
accorgersene. Sempre convinto di essere il migliore.
Questo molti l’hanno pensato ma solo Claudio Petruccioli ha fatto
nome e cognome, però neanche lui ha affondato troppo il coltello. E
allora, cosa devono pensare i militanti delle ultime sezioni che
hanno ancora il “direttivo” il martedì (a Milano era così)?
Perché non devono esultare per D’Alema che in fondo ogni volta
che appare in tv da loro l’illusione che lui, cioè loro, hanno
sempre ragione?
I Ds sono al 16 % , perché?
Non è argomento. Capire che la società, bella o brutta che sia,
non ha voglia dei democratici di sinistra, non si riconosce in loro,
sembra non essere un problema.
Di cosa si discute? Difficile capirlo. È come vedere un film su una
pay tv senza pagare l’abbonamento. Le immagini criptate sono
difficili da vedere.
Pesaro. Per gridare: siamo cambiati! Come se fosse una novità. Sono
dieci anni che lo si ribadisce, ma nessuno sembra accorgersene (o
peggio: nessuno sembra capire in quale direzione) visto che la
percentuale degli elettori che sceglie Ds è in discesa senza freni
e al governo c’è Berlusconi.
Pesaro, congresso finito: il gruppo dirigente è lo stesso, salvo
Veltroni che ha scelto di andare a fare il sindaco poco prima delle
elezioni politiche. Cosa potrà cambiare, se non si modifica il
criterio di selezione dei dirigenti?
Quale il messaggio agli elettori? Che si siano ripromessi di darsi
meno ceffoni può essere positivo (sino al prossimo che volerà a
cinque dita). Ma quelli, tanti, che nell’urna hanno sempre
deposto, depongono e vogliono continuare a deporre un voto “di
sinistra”, da Pesaro sono riuscito a capire cosa pensa e progetta
la parte più importante della sinistra italiana?
Visti i risultati elettorali e il trend di non consenso che si va
affermando forse è necessario confrontarsi sulla necessità di
costruire qualcosa di nuovo. Unire la sinistra in un partito
riformista del socialismo, di tutti i socialisti, chiarire cosa è l’Ulivo,
e, se non è un contenitore elettorale, come si continua a
proclamare, impegnarsi un poco perché poi, per inerzia o
dimenticanza proprio questo avvenga. Riflettere sul perché molti
italiani non si sono accorti che il centrosinistra aveva governato
bene. E ancora: discutere su cosa sta succedendo in questo paese, e
nel mondo, non per frasi fatte e rifatte, ma entrando nel merito
magari su cosa significhi oggi essere partito, quali sono le
categorie della politica che possono alimentare partecipazione laica
e cosciente, studiando, chiedendo anche aiuto a chi ne sa di più.
Oppure, volando più basso, non sarebbe bello un partito di tutta la
sinistra? O i socialisti hanno ancora la “lebbra”? Per cui
meglio che vadano nella Margherita, così la smettono di disturbare.
Mentre i Ds si tengono Cesare Salvi come gli Usa si sono tenuti e
allevati i Talebani. Twin Towers permettendo. Quanto ci vorrà per
vederli tutti insieme, quelli che sono un po’ meno o un po’ più
di sinistra?
O ci sarà sempre un partito-sacerdote che divide i buoni dai
cattivi?
A Pesaro ha prevalso ancora una volta la cultura dell’autoreferenzialità,
dell’autosufficienza. Se esisto io: Ds, figlio del grande Pci,
tutto è ok.
Anche al 16% (sondaggi esclusi).
Ho ascoltato Massimo D’Alema parlare d’altro, anche se è stato
un bel discorso di politica internazionale. Su quel grande schermo l’ho
visto con le tasche piene di cloroformio, anche se poi alla fine non
ce l’ha fatta più e tra una piccolissima autocritica e l’altra,
ha ricantato la solita lezione: io sono il più bravo e se non ve lo
dico adesso state tranquilli che ve lo spiegherò più tardi. Ho
sentito il sindaco Veltroni volare alto, assumersi le
responsabilità del suo fallimento quale segretario e dare un
consiglio a Fassino: “Piero, cerca le persone più intelligenti,
combattive, oneste, capaci di passione civile e politica”, però
non ha spiegato che cosa gli ha impedito di farlo lui quando era
segretario. E ho guardato l’altro sindaco, Chiamparino, che ha
votato D’Alema presidente, dire: “ Il partito ha bisogno di un
gruppo dirigente nuovo, che non rifletta più chi ha gestito la
crisi del Pci”. Ho seguito con attenzione e affetto Sergio
Cofferati che ha ripetuto diverse volte, molte, “io un riformista”
ma non è riuscito a farmi capire perché è entrato nel pattuglione
con Cesare Salvi, Gloria Buffo, Marco Fumagalli e il rancoroso
Pietro Folena.
Il discorso più “di sinistra” me lo sono gustato alla voce: “Amato,
socialista, ex vice segretario del Psi di Craxi ”. Uno dei pochi
che cita Marx senza vergognarsi. Che non vive la sindrome da
legittimazione. Le sue parole mi hanno ricordato che essere
riformisti significa anche saper essere “radicali”, avere ancora
voglia di cambiare il mondo, di credere nella giustizia sociale. Di
fare i conti con i “ladri di biciclette” del famoso film di
Vittorio De Sica e con quelli che possono avere la bicicletta solo
per un giorno nel film di Berlusconi. È stato un ascoltare che mi
ha ridato il piacere della politica. E mi ha commosso. Qualcosa più
della speranza che esiste la possibilità di costruire un nuovo
partito della sinistra, riformista, non subalterno, non
autoreferenziale, dove ci può stare anche Bertinotti, che può
presentarsi alle elezioni con un proprio candidato capace di
prendersi il governo dell’Italia.
Erano argomenti che la maggioranza dei presenti aveva già
ascoltato, oppure letto. Su cui da tempo si discute. Eppure
risentiti in quell’atmosfera del congresso hanno forse fatto
capire che ci può essere altro, che è mortale fermarsi dove i Ds
sono arrivati.
Non a caso il congresso, quello del parterre dei delegati e delle
tribune, lo stesso che è esploso in un boato quando Giorgio
Napolitano ha annunciato l’elezione di D’Alema presidente, lo ha
ascoltato con attenzione, con entusiasmo e gli ha dedicato alla fine
una standing ovation.
Amato ha parlato da leader, anche se era sempre presente nelle sue
parole la preoccupazione di “non disturbare”, ha portato
ottimismo, ha comunicato razionale fiducia in un progetto che può
essere vincente. A condizione che tutta la sinistra insieme
ricominci a declinare politica. Così quel consesso pieno di quasi
infinita fede, che oggi spera in Fassino (cui auguro con tutto il
cuore di farcela e di affrancarsi da inutili tutele) e che tuttavia
ha ancora bisogno di sentirsi protetto dalla sicumera di D’Alema,
lo ha capito, acclamato e accolto. Però a Pesaro, Giuliano Amato
era un ospite: resisterà sino al prossimo congresso?
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