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Amato e Cofferati,
provate voi a volare



Andrea Salerno




I leader non si inventano. Nessuno può decidere a tavolino la costruzione di una personalità politica senza rischiare il fallimento o, peggio, il ridicolo. Chiedete a Mariotto Segni, Nando Adornato, Antonio Di Pietro.

A Pesaro, nel rosso catino del congresso dei Ds, lo sapevano tutti quelli che hanno preso la parola. Lo sapevano sia perché alle Frattocchie (la scuola quadri del Pci) la lettura di Max Weber non mancava mai, sia perché la bruciante sconfitta elettorale della scorsa primavera ha impedito categoricamente il ripetersi degli errori recenti.

Così è successo che tutto è volato via nel rispetto delle parti in commedia. Bisognava mettere in scena una recita credibile senza troppi fronzoli e senza troppi predicatori, visto il deserto del 16 per cento. Chi era leader si è fatto da parte. D'Alema, con un intervento volutamente anodino e piatto, senza quell'antipatica ironia che ne ha celebrato le capacità e ne ha permesso l'odio. Veltroni, rinunciando ai sogni, alle metafore baricchiane e - pur tenendo il punto (l'idea prima dell'Ulivo) - pronunciando l'opportuna e onesta autocritica di chi ha rinunciato, per scelta, a guidare la vettura.

Chi leader lo dovrà forse diventare, Piero Fassino, ha cercato l'unità, la pacatezza. Al centro di quella tavola rotonda in cui tutti erano stavolta obbligati a guardarsi in faccia non poteva e non voleva chiamarsi Re prima di aver governato. Ha chiamato a raccolta tutti ben sapendo che il futuro non è più nei Ds prima che accada. Il futuro può accadere anche senza Ds, purtroppo o per fortuna .

Tutto nel rispetto del copione. Anche l'intervento del Cinese, di Sergio Cofferati, era quello che ci aspettava. Il leader della Cgil ha parlato da leader, non da segretario, ma da leader che non da battaglia. Così ha sferzato i Ds sapendo che le sue stagioni saranno altre e che a Pesaro doveva solo inserire dubbi e paventare fantasmi, indicare altre strade possibili a chi si accinge a ricostruire la sinistra italiana.

Detto tutto questo, poi è arrivato Giuliano Amato. E' arrivato come quegli attori straordinari che partecipano ad uno show di altri e fanno, improvvisamente, lo spettacolo. Il giorno prima Curzio Maltese su la Repubblica se l'era giustamente presa con buona parte dei dirigenti della Quercia: è possibile che nessuno si sia mai sognato di citare Carlo Marx? E in effetti, è possibile che i dirigenti di Via Nazionale non leggano quanto scrivono professori di mezzo mondo e riviste più o meno colte? Che non è più reato?

Non si accorgono che le tesi del Grande Vecchio sono la base del tanto strombazzato libro No logo di Naomi Klein? Che il mito della flessibilità e della modernità per la modernità è tramontato ben prima che la distruzione delle Twin Towers di New York cambiasse il profilo del pianeta e che i No Global andassero di moda presso la sinistra comoda dei Bertinottiani? Che la deregulation e il dominio dei potenti signori dei network sulla politica è la Pompei del capitalismo così com'è stato interpretato fino ad oggi?

Detto fatto, ci ha pensato Giuliano Amato, il dottor Sottile, l'Eta Beta della politica. Da Proust a Ladri di biciclette, da Nenni alla parabola capitalistica della talpa che scava la montagna rischiando di farla crollare, l'ex presidente del Consiglio, stando sul facile - e forse per questo difficile? - ha fatto lezione. E' riuscito così nell'incredibile prova di restituire, lui il socialista con qualche peccato originale, le radici ai post-comunisti. Ha parlato di sangue comune e riscaldato un orgoglio addormentato.

Qualcuno ha scritto che solo Amato aveva la patente per citare Marx. E' falso. E in più, il professore, visto il contesto, avrebbe avuto la stessa patente per citare Craxi. Il fatto che abbia scelto invece l'autore del Capitale non è cosa da sottovalutare. Così come appare colmabile la distanza concettuale tra il riformismo dell'ex delfino socialista e quello di Cofferati; "riformismi che devono vivere nello stesso partito", ha sottolineato con chiarezza il leader della Cgil.

Resta una domanda: perché Amato non fece lo stesso a Firenze, quando nacque la Cosa 2, sequel sfortunato della vera e unica svolta del Pci? Perché solo ora, con D'Alema in ombra e Veltroni a fare un altro mestiere, si incarica in prima persona di riunire i nipoti di Livorno?

Risposta: perché i leader non si inventano e soprattutto i leader capiscono quando gli spazi politici si aprono. Così, neanche troppo nascostamente, Cofferati e Amato si sono incaricati di gestire le ali del nuovo partito della sinistra italiana. Dove e come volerà è troppo presto per dirlo.


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