Colletti, irregolare del pensiero
Antonio Carioti
“Vorrei una sinistra che imitasse la Thatcher”: questa battuta
folgorante, pronunciata da Lucio Colletti in un dibattito pubblico
poche settimane prima di morire, la dice lunga sul personaggio.
Esprime non solo il suo gusto innato per il paradosso, ma anche la
sua profonda insofferenza verso la classe politica italiana,
compreso lo schieramento di centrodestra nelle cui liste era stato
eletto a Montecitorio.
In realtà Colletti era un solitario per vocazione, refrattario a
qualsiasi spirito di gruppo o di consorteria, tanto in politica
quanto nel campo degli studi. Per lunghi anni era stato uno dei più
autorevoli esponenti della cultura marxista, ma era rimasto sempre
estraneo - malgrado la tessera del Pci - al dominante filone
storicista, che vedeva nel pensiero di Antonio Gramsci lo sbocco e
al tempo stesso il necessario superamento della grande filosofia
idealistica. Piuttosto era stato influenzato dalla visione eretica
di Galvano Della Volpe, dal suo tentativo di affermare il carattere
scientifico dell’opera di Marx separandola nel modo più netto
possibile dall’eredità di Hegel.

Quando aveva cessato la sua militanza comunista,
se ne era andato da sinistra, rivalutando alcuni aspetti utopistici
del pensiero di Lenin. Ed era diventato un punto di riferimento per
molti giovani inquieti dell’area progressista. Ma non fu per nulla
compiacente verso la contestazione sessantottesca, cui rimproverava
il sovvertimento del principio meritocratico, per lui assolutamente
irrinunciabile.
Quando giunse alla conclusione che le teorie elaborate da Marx non
reggevano alla prova della storia, non cercò palliativi né
ripiegò su mezze misure. Scelse di parlare a voce spiegata, senza
risparmiare le ammissioni autocritiche, in una Intervista
politico-filosofica, edita da Laterza, che sollevò parecchio
clamore. Era il 1974, l’Italia andava decisamente a sinistra:
Colletti, seguendo la propria indole, si mise a remare
controcorrente con tutte le sue forze. Rivalutò Kant, Smith, Kelsen,
Popper e altri classici del pensiero cosiddetto “borghese”. Nel
giro di pochi anni i fatti gli avrebbero dato ragione.
Da allora, la sua strada e quella della sinistra comunista e
postcomunista presero a divergere sempre più. Cultore di un
realismo disincantato fino alla brutalità, liquidava come risibile
ogni tentativo di tener vive le speranze di rigenerazione sociale.
Pacifismo, ecologismo, terzomondismo, solidarismo, moralismo gli
apparivano illusioni deleterie, spesso coltivate in malafede. Se
sentiva odore di ipocrisia buonista, era capace di reazioni
sorprendentemente ruvide, come quando alla Camera contestò con
asprezza la proposta, approvata quasi all’unanimità, di istituire
la “giornata della memoria” in ricordo dell’Olocausto.
Alla demagogia della sinistra Colletti addebitava integralmente, con
una certa ingenerosità, i mali dell’Italia: dal degrado dell’istruzione
al parassitismo diffuso, dalle voragini nei conti pubblici all’incuria
dilagante. Sognava un castigamatti che mettesse tutti in riga, a
partire dai sindacati. Aveva applaudito il Craxi decisionista,
capace di tagliare la scala mobile. Gli era piaciuto il Bossi prima
maniera, sedicente paladino dei ceti produttivi contro lo statalismo
sprecone. Ma il suo ideale, come si è detto, sarebbe stata una
versione nostrana di Margaret Thatcher, che governasse all’insegna
di un risoluto darwinismo sociale.
In mancanza di meglio, si era accontentato di Berlusconi,
partecipando nel 1996 alla non felicissima esperienza dei cosiddetti
“professori di Forza Italia”. Ma anche nel Polo era rimasto un
elemento anomalo, senza mai rinunciare a un milligrammo del suo
senso critico e del suo spirito caustico. Non a caso, in occasione
delle scorse elezioni, la sua riconferma era apparsa inizialmente in
bilico.
Basta ricordare che la prefazione richiestagli per un libro di
discorsi berlusconiani venne accantonata, per poi uscire sul Foglio
di Giuliano Ferrara. Eppure si trattava di una difesa solidamente
argomentata del ruolo politico svolto dal Cavaliere, ma gli
espliciti riferimenti al conflitto d’interessi e il giudizio poco
lusinghiero sul primo governo guidato dal leader di Forza Italia
erano probabilmente sembrati troppo audaci a chi di dovere.
Come se non bastasse, Colletti risultava allergico, da laico
impenitente qual era, alla deriva confessionale del centrodestra,
tanto da dichiararsi a favore dell’eutanasia ed ostentare la più
sovrana indifferenza verso gli anatemi vaticani. Gli italiani,
diceva sarcastico, “sono un popolo di pagani che vanno in chiesa,
anzi non ci vanno neppure, ma si fanno passare per cattolici”.
Dal punto di vista intellettuale, era approdato a un profondo
scetticismo, immune da qualsiasi suggestione metafisica. Tanto la
religione quanto le diverse filosofie della storia gli apparivano
ingannevoli costruzioni antropocentriche, innalzate dall’uomo per
lenire il suo spaesamento in un universo sconfinato e privo di un
senso intellegibile.
Non aveva esitato a intitolare Fine della filosofia il saggio
che dà il nome alla sua ultima raccolta di scritti, uscita nel
1996, in cui mostrava di riporre una qualche fiducia ormai solamente
nella scienza, vista come “la più grande avventura del pensiero”
e “il solo modo di prendere atto della realtà”. A ennesima
riprova del prestigio universale di cui l’autore godeva, il saggio
era comparso originariamente su MicroMega, mentre il volume
era stato pubblicato dalla casa editrice Ideazione. Come dire, dal
punto di vista politico, il diavolo e l’acqua santa: solo il
miscredente di ferro Colletti avrebbe potuto tenerli insieme.
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