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Bloomberg! Media tycoons avanzano
Giancarlo Bosetti
Michael R.Bloomberg ce l'ha fatta a diventare sindaco di New York.
La spinta finale di Rudolph Giuliani e del suo carisma, già
fortissimo, ma cresciuto fino a farne un mito dopo l'11 settembre,
è stata probabilmente decisiva per battere il democratico Marx
Green, che aveva un discreto vantaggio nei sondaggi, ma nel
risultato hanno pesato certamente altri fattori: il suo travolgente
desiderio di vincere, l'esperienza di comunicazione maturata nella
sua carriera, il suo accentuato distacco dalla politica dei politici
di mestiere. E sessanta milioni di dollari. Tra i suoi slogan
preferiti: "Un leader, non un politico" e poi "Chi sa
dirigere un'impresa può guidare una città".
Bloomberg ricorda evidentemente qualcuno, a noi ben noto. Ma i
giornalisti italiani ci vanno piano con l'inevitabile confronto,
forse per timore di annoiare, forse per evitare un parallelo che poi
costringerà, fatalmente, a verificare puntigliosamente quali
conflitti di interesse spunteranno fuori a City Hall e che tipo di
blind trust metteranno in piedi intorno a un personaggio talmente
ricco (una liquidità tra otto e diecimila miliardi di lire) da
rinunciare al regolare stipendio di sindaco.
Ha messo sul contratto: un dollaro all'anno, non un cent di più.
Come vedete, i confronti saranno inevitabili. Per ora i
media-tycoons al potere nel mondo sono tre: Silvio Berlusconi
premier in Italia, Thaskin Shinawatra, magnate di satelliti
cellulari e tv, premier in Thailandia, e Bloomberg soltanto sindaco
sia pure della città più ricca del mondo; ma potremmo aggiungere:
"per ora", perché lui, 59 anni, punta di muovere un
giorno da Manhattan sulla Casa Bianca.
Lasciamo per ora impregiudicato a chi giovino i confronti tra questi
tre media-tycoons. L'aumento del loro numero potrebbe, per esempio,
legittimare i primi arrivati, come Berlusconi. E i supporter di
quest'ultimo - hanno in effetti cominciato stamane sui giornali di
area - saranno fatalmente tentati di fare loro, per primi, il
parallelo dicendo: vedete, succede anche in America, che è una
democrazia modello. Ma lo faranno con moderazione, perché poi in
quel paese le regole sui conflitti di interesse e in generale sulle
posizioni di cartello sono più rigide che da noi. E il parallelo
potrebbe essere pericoloso.
Ma se noi, adesso, trascuriamo per un momento le possibili
conseguenze propagandistiche del confronto per questo o per quello,
faremmo bene invece a vedere il fenomeno nel suo insieme. E un
fenomeno indubbiamente c'è. La categoria di imprenditori che si
afferma attraverso la fama e il denaro accumulati con i mass media
nella seconda metà del secolo scorso si affaccia alla politica con
una frequenza e una insistenza maggiori dei grandi industriali
dell'auto, e in generale della produzione materiale, quella che ha
dominato lungo l'intero secolo. Ci devono essere delle ragioni.
Se Rupert Murdoch non fosse stato australiano, e dunque legato a un
luogo periferico rispetto al suo impero mediatico (che copre Stati
Uniti, Gran Bretagna ed Europa) forse il processo sarebbe più
chiaro. Per intenderci: se questo editore globale, con la potenza di
fuoco dei suoi tabloids e delle sue tv, fosse stato inglese, forse
non si sarebbe accontentano di influire sui premier a Downing
Street, ma avrebbe cercato di andarci personalmente. E' come se i
capitalisti dei media avessero nel sangue "l'invasione di
campo", una pulsione che aveva ben colto Orson Wells in Citizen
Kane e che era nata dall'osservazione diretta di William Randolph
Hearst, che però non ebbe alcuna fortuna in politica, come i tre di
cui stiamo parlando.
Vogliamo tentare di capire da che cosa dipende questo trend?
Ci sono almeno tre fattori: il primo consiste in un forte desiderio
di legittimazione. Le dinastie dell'auto, forse perché le grandi
fortune si sono costituite in un periodo più lungo che quello di
una sola generazione o addirittura di un solo decennio, sembrano
esserne meno soggette. I Ford o gli Agnelli hanno guadagnato uno
status così elevato da non desiderare di sporcarsi direttamente le
mani. Ci mandano tutt'al più qualche loro amico. Il bisogno che
anima il media tycoon è quello che ha descritto Donald Trump
raccontando la sua storia di superpalazzinaro: "Non ero
soddisfatto di guadagnarmi una bella vita, quello che volevo era
fare una dichiarazione". "Fare una dichiarazione",
cioè apparire pubblicamente come una figura guida per tutti gli
altri, veder sancito il proprio rango non "per i soldi" ma
per la capacità di illuminare la via agli altri, conquistando una
posizione più alta di quella del puro interesse personale.
Il secondo fattore è che il media-tycoon impara come nessun altro a
trattare la merce "opinione". Ne compra e vende in una
quantità sconosciuta alle altre categorie sociali. Il controllo
dell'opinione, in funzione dei servizi da collocare sul mercato e
dell'audience da conquistare per venderla alle concessionarie di
pubblicità, è anche l'obiettivo più ambito in politica. In questo
il media tycoon si trova, come politico, potenzialmente già in
sella. Il grosso del lavoro è già fatto: ha già la struttura
aziendale che controlla il prodotto, ha già lo staff (e di quella
qualità che gli ha consentito di diventare rapidamente quel che
è), sa già come si fa, e trattando media parte da un livello già
altissimo di visibilità.
Il terzo fattore è che il periodo storico della sua ascesa ha
coinciso con una trasformazione delle opinioni pubbliche che ha
provocato il declino della discussione pubblica
"illuminata", quella basata in prevalenza sul confronto
tra argomenti e su testi scritti, a favore delle grandi campagne
persuasive a base di spot. E' il passaggio dal mondo della
mentalità "tipografica" a quello dello show-business. E'
il passaggio descritto da Neil Postman in "Divertirsi da
morire" fin dai tempi di Ronald Reagan. Le opinioni pubbliche
sono meno esigenti in termini di argomenti e di razionalità, sono
più esigenti in termini di stile della comunicazione.
Che la politica poi abbia, oltre allo stile e alla forma del
messaggio, anche importanti contenuti è un'altra questione, che
sarà rivalutata solo quando capiterà di pagare un prezzo troppo
alto per averla trascurata. Questa evoluzione è il prodotto di
mezzo secolo di televisione, di quella stessa televisione che ha
creato le fortune dei nostri media tycoons. Per questo aspetto la
figura di Bloomberg rappresenta una fase anche più avanzata della
mediatizzazione della politica americana.
Se Berlusconi è un esponente del broadcasting, della tipica
televisione commerciale (anche se le sue imprese hanno avviato di
recente la diversificazione nel digitale), Bloomberg con i suoi
satelliti e le sue web-tv ha già tutti e due i piedi nel mondo
digitale. Rappresenta in effetti un paese che il digitale lo ha
inventato su scala di massa con Internet. E se i media-tycoons
dell'epoca web-Bill Gates siano meglio o peggio di quelli dell'epoca
del talk-show è una cosa che sapremo soltanto dopo.
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