L’uomo e’ un seme
Riccardo Caporossi con Angelica
Alemanno
In proscenio due sedie, sopra ognuna di esse un gomitolo di corda,
uno grigio, l’altro nero. I capi dei gomitoli legati assieme, sospesi
nello spazio vuoto che separa gli unici oggetti della scenografia.
Un uomo in frac, Riccardo Caporossi, entra in scena, raccoglie da
terra alcuni spartiti, guarda la platea ed esce.
Poco dopo inizia la musica: “Sonata per pianoforte: opera106 -
op.13 di L.V.Beethoven”. Una donna in frac, avvolta in un mantello
nero - il nero e il grigio sono le dominanti cromatiche di quasi tutti
gli spettacoli di Rem&Cap - raggiunge il proscenio, sfila dal
panciotto il suo orologio e da inizio ad Aiòn, ovvero l’età
dell’uomo.
Incontro Riccardo Caporossi, il regista di Aiòn, nel suo camerino
per farmi raccontare del suo spettacolo, in scena a Roma al Teatro
Valle fino a domenica 4 novembre 2001; ne nasce un percorso vibrante,
fatto di suggestioni poetiche e filosofiche, attraverso i suoi motivi
ispiratori.
…dal fondo, leggermente spostata verso la destra della scena, un’esile
figura di donna vestita di rosso avanza lentamente.
Il rosso è il colore di Eraclito? E’ il colore della Vita, della
Morte o dell’Amore?
Il rosso è il colore di un po’ tutto questo. E’ di Eraclito perché
è lui ad attribuire il termine aiòn al fuoco, cioè al rosso.
Aiòn per gli antichi greci significava “il corso della vita”,
il tempo della vita con tutto il suo contenuto ed Eraclito lo tramanda
a noi attraverso i suoi frammenti attribuendo il nome proprio al fuoco.
Per lui il fuoco non è però elemento primigenio, ma sostanza di tutte
le cose, la forza motrice di tutto.

foto di MAx Botticelli
Il concetto più ampio di aiòn è inteso nella doppia
valenza di luce e di tempo. C’è un frammento in cui Eraclito
chiama persino il tempo aiòn invece di kronos ,
proprio perché gli dà un doppio valore. E sono questi due elementi
a formare la struttura dello spettacolo, luce e tempo. La prima
illumina le azioni che accadono, e il secondo misura la sequenza di
queste azioni.
La musica in Aiòn assume il valore della misurazione esatta
del tempo, che nello spettacolo è un personaggio vero e proprio. Mi
è piaciuto pensare il Tempo come figura androgina: una donna con
abiti maschili, poiché il tempo è ambivalente, contiene tutto.
…la ragazza ha la veste corta, arrotolata sopra le ginocchia,
come una fanciulla. Accanto e intorno a lei si alternano una decina
di nonne che accennano giochi, sussurri, carezze. Poi è la volta
degli uomini: curiosi, ghiotti, anch’essi giocosi, che
accompagnano immersi nelle note di Beethoven il cammino della
giovane donna.
“Carminio o vermiglio?” Chiede d’un tratto la donna
rompendo il silenzio. Di quale sostanza rossa è composta? “Vermiglio,
così!” risponde un uomo, che poi la bacia. L’avanzata
inesorabile del tempo e del moto portano la fanciulla a sedersi su
una delle due sedie, prendendo in grembo un gomitolo: la veste
intanto le ha raggiunto le caviglie: si è lasciata alle spalle
parte della sua storia.
Si fa buio su di lei e alle sue spalle, quasi fosse un pensiero, un
ricordo, la memoria collettiva di secoli e secoli, si alternano file
di uomini che compiono gesti astratti e umanissimi: saluti,
vestizioni, abbracci. Ricordano i ruoli maschili per eccellenza:
soldati, padri, mariti. Alla fine anche un uomo prende posto accanto
alla donna dalla veste scarlatta, e dice: “Gli uomini non sono
tristi perché muoiono: muoiono perché sono tristi”.
"Effettivamente non avevo mai pensato alla donna che
cresce, da bambina a donna, in questi termini", osserva
Caporossi. "Mi piace pensare che dopo il suo sedersi tutto ciò
che le sta alle spalle sia interpretato come una cosa sua. Per me i
due corridoi umani erano il femminile e il maschile, ripartendo da
zero. Non l’avevo mai pensata come una visione di Lei, ma credo
che così sia altrettanto bello."
…ed ecco che il Tempo, quasi fosse richiamato da quella
tristezza, sopraggiunge a sciogliere il nodo che lega i due capi dei
gomitoli: la Morte, che interrompe i rapporti umani, lascia i due
cordoni liberi di disperdersi. L’uomo e la donna si allontanano,
ciascuno con un capo del cordone tra le dita: i due generi sembrano
separarsi per sempre. I gomitoli: principio e fine di una stirpe in
evoluzione, prigioniera del tempo.
L’uomo è destinato ad estinguersi?
Domanda da un miliardo! Penso, come dice anche la scienza, che la
terra, così come ha dato vita a tutte questa forme naturali, potrà
orientarsi verso la morte. Del resto anche il nostro piccolo ciclo
di vita ce lo racconta. Se è naturale, l’estinzione rimane nel
senso delle cose. Spesso però siamo noi che provochiamo la nostra
stessa distruzione. Già abbiamo provocato l’estinzione di altri
esseri viventi, come piante e animali.
La minaccia della guerra ci dimostra come la terra sia una
polveriera. Basterebbe un dottor Stranamore qualsiasi a confermare
la profezia di Heinsain secondo cui la quarta guerra mondiale si
combatterebbe con la clava. I cicli della vita fino ad oggi ci hanno
mostrato che tutti, prima o poi, siamo destinati ad estinguerci. Nel
concetto dell’uomo c’è invece la sopravvivenza all’eternità:
la clonazione stessa ne è un esempio tangibile, ma lo è anche,
più semplicemente, il fatto che l’uomo viva molto più a lungo.
L’idea di voler vivere in eterno ci racconta della superbia dell’uomo,
e del suo voler sovvertire le leggi naturali. Il destino, se l’uomo
davvero azionasse tutti i mezzi di distruzione che ha a
disposizione, sarebbe paradossalmente quello di azzerare ogni sua
possibilità di sopravvivenza.
Intervengono altri uomini e altre donne a “far vivere” il
cordone (ombelicale?) dell’uomo. Compaiono sei donne che
arrotolano, misurano, estraggono due grosse forbici: vogliono
tagliare il cordone e così porre fine al rito. Di nuovo una donna e
un uomo intervengono, apparentemente per fermarli, ma invece
prendendo il loro posto e tagliando con un coltello a serramanico il
due lunghi cordoni.
E’ l’inizio della violenza: i componenti della coppia che
aveva salvato la vita ai cordoni disgiunti vengono picchiati a turno
da ogni componente del gruppo. Schiaffi silenziosi, inesorabili:
solo il Tempo può porre fine alla violenza, e inizia una danza
macabra…
"Le sei donne sono in realtà le tre Moire", spiega
Caporossi. "Quello è il recupero di una mitologia, ma anche di
una forma popolare che ci è stata tramandata. Se ne vedono sei,
perché sono speculari, ma si tratta proprio delle tre Parche che
agiscono a partire dalla separazione del cordone: chi fila, chi
misura, chi taglia. Le tre divinità sono state da sempre arbitre
della vita degli uomini. La coppia viaggia insieme, come uomo e come
donna che reggono il filo della propria esistenza, ma ogni persona
ha una sua natura, una sua assoluta irripetibilità individuale.

foto di MAx Botticelli
"Ciò che mi interessava era mostrare come siano gli esseri
umani terreni, oggi, ad aver preso il posto delle Moire. Nello
spettacolo, dopo il gesto del coltello a serramanico, è la musica
ad interrompersi (anche se il filo in realtà non viene troncato),
perché è il Tempo stesso che si arresta. Questo punto dello
spettacolo è molto importante per me, è il nodo drammaturgicamente
più conflittuale, in cui il mito viene sostituito dall’uomo che
si fa arbitro di sé stesso. Viviamo esattamente in questo momento,
dove ognuno può calpestare, dominare e uccidere l’altro. La
violenza è nella natura umana, come l’amore.
Non voglio schierarmi contro la vita, ma non posso negare che sia
seminata di umiliazioni. I tradimenti sono la cifra della nostra
esistenza, e la fiducia tradita è un dolore, uno schiaffo. Ci
poniamo quesiti che ci riempiono di aspettative sul senso del nostro
esistere o sull’esistenza globale del mondo al quale apparteniamo,
e quando inevitabilmente veniamo delusi, ci esprimiamo attraverso
reazioni che appaiono come vere e proprie violenze.
Fermi, immobili, rivolti verso il fondo oscuro della scena (il
futuro?), il gruppo è sorpreso dall’arrivo di una signora
elegante, vestita di raso chiaro, che attraversa la scena seminando
i propri abiti. Passi lenti, cadenzati, la donna di spalle rimane
nuda fino ad uscire di scena. Tempo è il primo a muoversi, del
resto non può smettere di scorrere, generatore dell’era dell’Uomo
e quindi di Aiòn stesso. In silenzio si aggira tra corpi
apparentemente immobili. Gli uomini e le donne raccolgono stupiti i
brandelli chiari lasciati dalla signora.
La Morte è una signora elegante?
Sì. Non abbiamo mai voluto dare riferimenti precisi alle nostre
simbologie: abbiamo anzi sempre voluto lasciare libera
interpretazione allo spettatore. Ma in questo caso devo dire che
effettivamente quella signora in giallo è per me proprio la Morte.
È una signora elegante perché non la vedo come qualcosa di
drammatico, ma anzi come qualcosa di bello: fa parte della vita. Non
è un caso che il passaggio della Morte lasci per ciascuno un
brandello di sé: ogni essere umano che vive ha in sé qualcosa
della morte perché a Lei è destinato.
"La vita e la morte viaggiano insieme. Se questo è l’aspetto
della natura al quale nessuno può sottrarsi, perché avere un
conflitto con la morte? È qualcosa che ognuno deve custodire sempre
con sé, anche sotto le scarpe, ma sempre con sé… Il passaggio
del Tempo dopo la “Signora elegante” non è affatto casuale. La
preparazione di questo spettacolo avveniva a Prato proprio durante i
giorni che sono seguiti all’11 settembre. Eravamo tutti partecipi
e preoccupati. Allora mi sono detto: non mi importa che gli
spettatori se ne accorgano, ma per me, per noi, è importante fare
entrare questa situazione drammatica nello spettacolo. Ebbene il
passaggio del Tempo in quel momento dello spettacolo dura
esattamente un minuto. Il Nostro minuto di Silenzio."
L’uomo e la donna vestita di rosso raccolgono l’ultimo
strascico del gomitolo: ora è rosso come l’abito della donna; e
la coppia esce di scena. Torna il tempo che dà inizio ad una
successione di entrate. Uomini e donne hanno in mano setacci di
diverse dimensioni, e si dispongono nello spazio su due file
parallele.
Avanza una donna, ha appesi al collo diversi grappoli di stoffa:
sacchetti grigi pieni di qualcosa. È la Dea dell’Abbondanza, e
distribuisce a d ogni individuo il proprio sacchetto. Uno degli
uomini, tornato al proprio posto, osa aprire il sacchetto e ne fa
fuoriuscire il contenuto. Scopre, facendoli cadere a terra, che si
tratta di semi diversi, che ciascuno raccoglie da terra, curioso.
E' la felicità ad essere distribuita attraverso i semi.
Cos’è la felicità per Riccardo Caporossi?
"Il seme è simbolo universale… noi stessi siamo semi. Se
durante la vita riusciamo a seminare bene, anche il nostro passaggio
ha prodotto qualcosa. Questo dovrebbe essere l’atteggiamento di
ogni essere umano rispetto al proprio agire. Purtroppo c’è anche
chi lascia un brutto ricordo di sé, producendo fiori che sarebbe
stato meglio non veder sbocciare…
"Per quanto concerne la felicità occorre stare attenti. Questa
parola è in realtà ricca di ambiguità, un po’ strana, direi.
Felicità può essere anche star bene avendo tutto a disposizione,
una felicità egoistica dunque, salvo scoprire che quello è solo il
mezzo per rendersi la vita più facile… mi piacerebbe pensare la
Felicità come qualcosa di legato al pensiero aperto alla
contemplazione di sé stessi come esseri nel mondo.
"A quella felicità corrisponde inevitabilmente la tolleranza
verso gli altri. È questa consapevolezza che può restituirci la
capacità di non provare alcuna invidia per il prossimo, ma il
rispetto e la tolleranza che soli ci garantiscono un certo
equilibrio umano. La felicità è un termine intersoggettivo, lo
definirei 'di ritorno'.
Ognuno svuota il proprio sacchetto nel setaccio e comincia un
rito melodico giocato sul ritmo che i diversi setacci riescono a
compiere nel movimento volontario degli attori. Al ritmo s’accompagna
un movimento nello spazio, e in mezzo all’abbondanza compare
nuovamente la sposa vermiglia, la donna, che attraversa muta il
fragore dei semi nei setacci. Il ritmo si fa violento, i semi cadono
a terra e il movimento, man mano, si svuota di senso, ridotto al
silenzio.
Perché, ancora una volta, la sua poetica si esprime
soprattutto attraverso il silenzio?
In effetti anche la musica può essere un luogo prossimo al
silenzio. Il Silenzio è come la felicità, una dimensione alla
quale tutti quanti dovremmo abituarci: invece ne abbiamo tutti un po’
paura. Oggi siamo abituati a rumori, musiche, frenesie che annullano
un elemento che Eraclito attribuiva al fuoco: la forza sistematrice
dell’universo. Anche il Silenzio potrebbe essere una forza simile,
implica la possibilità di entrare in rapporto con sé stessi, da
qui la paura.
"Quando si afferma, il Silenzio ci porta in un’altra
dimensione che ci consente di considerare tutto ciò che è anche
fuori di noi. Al di fuori del caos quotidiano ci accorgiamo di
essere nel silenzio e inevitabilmente lo apprezziamo. Il problema è
dargli continuità. Certo, non mi auguro di vederci giacere tutti in
eterno silenzio, ma osservo che il silenzio della natura è pieno di
rumore, pieno di vita: come il nostro cuore, silenzioso ma pulsante,
vitale. “Quel” Silenzio può farci riscoprire il fragile rumore
della vita."
Monologo finale. Riccardo Caporossi, l’uomo in frac, il
pianista, torna al centro della scena, solo, con in mano il suo
spartito, e narra il corso dell’uomo più o meno così: “La
società è divisa in quattro categorie umane. Gli uomini
orizzontali (morti, malati, disertori, negligenti), gli uomini
seduti (in cerca di un posto dove si siedono e s’incollano), gli
uomini verticali (che stanno in piedi come canne, ma rimangono
sempre fermi), i motòri: veri motori del mondo, non quelli che
corrono, ma quelli che corrodono […]
Il teatro, oggi, può ancora corrodere?
"In realtà, tra le varie categorie, non salvo nessuno. È vero
che sono proprio i motòri che hanno la capacità d’insinuarsi
sotto traccia per cercare di smantellare le altre categorie. Ma da
qui a dire che la categoria teatrale sia quella corrosiva per
eccellenza è esagerato. Tutto può corrodere: parlo della sostanza
neutrale, non certo dell’antrace!
Cos’è la sostanza neutrale?
"Mi riferisco a un elemento (come fu per i filosofi antichi il
fuoco, l’acqua ecc.) che possa essere il compendio di ogni essenza
percepibile, attiva, viva."
Luomo in frac si allontana, tornano gli uomini e le donne a
raccogliere i tanti semi caduti, mentre la donna vestita di rosso
continua ad attraversarli, questa volta intonando una dolce melodia.
-Una volta lei ha scritto “la concezione dell’insieme precede
quella delle parti” (dal Programma di A Passo d’uomo,
Essegi). Lei crede che il disegno scenico sia sempre più importante
delle singole personalità degli attori? Come sceglie i suoi attori
e quanta importanza ha la loro fisicità?
"Ogni nostro spettacolo ha sempre avuto a priori un disegno
preciso. Però, nella realizzazione, quando come in questo caso sono
coinvolti numerosi attori, non parto con l’idea che gli interpreti
siano semplici esecutori di un progetto, ma entro in relazione con
loro, mi piace pensare che trasmetto un’idea sulla quale si
costruisce lo spettacolo, e che pian piano loro la assimilino come
se gli appartenesse.
"Questo naturalmente nel corso della preparazione diviene
significativo, si concretizza pian piano. L’attore non mi
interessa nella sua professionalità tecnica, nella sua “duttilità”,
mi interessa innanzitutto come persona, per come si comporta nella
vita, come manifesta i propri pregi e i propri difetti. È lì che
voglio puntare. L’attore non deve più “rappresentare”
qualcosa, non si può più trincerare dietro la propria maschera, ma
diventa sé stesso."
Rispetto proprio a questa vocazione di autenticità, nello
spettacolo ogni disegno scenico, geometrico, sembra dettato proprio
da una necessità. Che ruolo ha la necessità nel vostro teatro?
"E' l'elemento principale. Ogni spettacolo deve essere per noi
necessario. Si producono, soprattutto in teatro, sempre più cose
superflue. Ma questo è assolutamente normale se si pensa il teatro
come qualcosa di inserito nell’ampio ambito del commercio. Ma il
teatro, come lo intendo io, non ha nulla a che vedere col commercio,
esiste solo in quanto figlio della necessità di espressione.
"Spero che questa necessità non mi abbandoni mai; ogni
spettacolo nasce da stimoli che in quel momento rappresentano l’urgenza
di trasmettere qualcosa. Spero di poter contribuire, se non a dare
felicità, almeno a sottolineare la necessità di raggiungere un
proprio equilibrio."
Lo spettacolo è in scena al Valle solo una settimana, perché
così poco tempo, mancanza di spazi o di finanziamenti?
"Aiòn nasce come un progetto speciale nostro,
realizzato grazie al contributo del Teatro Metastasio che ha
contribuito a parte delle spese di allestimento, fornendoci anche lo
spazio per il debutto, il Fabbricane di Prato. Quello che spero è
che ci si siano altre possibilità affinché lo spettacolo non
finisca qui. Personalmente farò di tutto affinché si possa portare
altrove. Certo non è semplice come non lo è il sistema italiano!
"Il problema non riguarda solo l’agilità dello spettacolo,
non c’è neanche bisogno di una particolare struttura, tant’è
che lo potremmo allestire persino all’aperto, di certo occorre la
profondità del palcoscenico… Dipende anche dagli amministratori
teatrali: dovrebbero essere più attenti a come si spendono i soldi,
in genere destinati ad altre produzioni.
"La natura di questo progetto necessita della fiducia del
gruppo: tra noi ci sono attori alle prime armi ma anche
professionisti di classe, come Ferdinando Gagliardi (anche autore
delle coreografie n.d.a.) e Betti Rosso. Persone nella maturità del
loro lavoro di professionisti. Il nostro gruppo intende arricchirsi
di queste differenze, attraverso uno scambio tra generazioni nel
lavoro. Come nell’antica tradizione di capocomicato, dove l’arte
s’imparava facendola.
"La mia necessità, oggi, è che le istituzioni prendano in
considerazione questa modalità di lavoro anche rispetto all’ormai
trentennale esperienza che abbiamo alle spalle e in comune io e
Claudio Remondi, il mio partner nella Compagnia Rem&Cap.
Affinché il lavoro abbia un senso occorre garantire a gruppi come
il nostro una certa continuità. Per evitare che tutto rimanga
episodico, propongo di istituire un settore di ricerca sul
linguaggio teatrale dentro gli stabili. La Compagnia Rem&Cap ha
invece assolto a questa funzione senza un adeguato sostegno
scritturando anche 20/30 attori per volta. Noi progetti pronti già
ne abbiamo, aspettiamo un segno per piantare un altro seme."
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