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Le parole e i gesti necessari
Antonia Anania
Quali sono le parole e i gesti necessari per il teatro? Al Gobetti
di Torino -il 23 e il 24 ottobre, si è cercato di rispondere anche
a questo. Per volere dell’associazione teatrale Viartisti, che
dirige il Piccolo Teatro Perempruner di Grugliasco (TO) e che in
questo modo ha voluto aprire la nuova stagione 2001-02.
Le parole del teatro è il titolo di questa due giorni. Ma
oltre alle parole si sono avvicendati spettacoli e gesti, che a
prima botta, sembrerebbero poco teatrali come quelli di fare le
tagliatelle a mano di fronte a un pubblico di commensali o di
regalare del pane che durante una performance è diventato opera d’arte.
Due giorni pieni di stimoli e suggestioni, -e mettiamoci anche un po’
di fatica- in cui il teatro oltre che da vedere -come vuole la sua
etimologia- è stato da ascoltare, da toccare, da parlare e da
mangiare. In cui si sono cercate le parole che servono a definirlo,
alcune dibattute, altre invece rimaste nell’aria, altre scaturite
dalle discussioni e dalla digestione personale dell’evento. Ne è
nato un lessico teatrale in continua evoluzione e messa in
discussione perché solo facendosi delle domande, provocatoriamente
o meno, e ricominciando daccapo si può costruire qualcosa.
Caffè Europa ha cercato di rileggere alcuni eventi di questo
incontro alla luce (o al buio) di alcune parole chiave.
La memoria. Recuperare la memoria dei vecchi canti regionali,
della terra e dei mestieri che dipendono da questa è stato il
motivo di due spettacoli che abbiamo visto a Torino, Muscarìa
scritto e diretto da Pietra Selva Nicolicchia e Youkali
scritto e diretto da Alessandra Rossi Ghiglione e Caterina
Pontrandolfo. Il primo, che prende il nome da una filastrocca
siciliana, raccoglie alcuni ‘bozzetti’ e li mette in scena in
forma corale: quattro donne e quattro uomini interpretano dei
contadini della Trinacria, maritati e no, che cantano, ballano -“a
ballate a ballate fimmine schette e maritate” ci torna alla
memoria- e recitano leggende del paese come quella del soldato e lo
stivale bucato, o dei tredici sindaci, o della legge di far
indossare il cappuccio a pizzo ai cornuti del paese. E’ uno
spettacolo veloce, solare, di movimento e fisicità, che mostra un
grande impegno di ricerca antropologica.
Il secondo invece, che prende il titolo sempre da una canzone,
questa volta di Kurt Weil, è un ‘Gran Teatro musicale di Lucania
e Trinacria’, per citare il sottotitolo, ed è uno spettacolo
surreale e fantasioso. Non è solare. E’ intenso, malinconico e
poetico.
Sulla scena, una sola attrice, Caterina Pontrendolfo, interpreta in
modo eccellente i personaggi della storia: Tilse e sua madre che
ormai morta è diventata ‘capricciosa’ e non vuole lasciare il
suo corpo prima di aver visitato l’America. E’ una madre
dispotica e ingombrante che s’impone alla figlia. E il viaggio per
Tilse significa anche iniziare a volersi disfare del modello materno
per capire e realizzare i suoi desideri di donna.
Durante le tappe del viaggio, Tilse fa uno spettacolo di piazza. Il
carrozzone su cui viaggia il cadavere della madre è una specie di
cilindro di mago, che riserva sorprese e magie: luminarie,
baldacchini, vestiti, parrucche, tazzine di caffè e soprattutto
lanterne dentro cui -sembra quasi il gioco delle bambole matrioske-
ci sono degli oggetti e delle usanze che Tilse spiega al suo
pubblico: il filo d’Arianna, le immaginette sacre, le chiavi del
Paradiso.
La storia del rapporto madre-figlia- che a volte si tinge di
comicità, s’intreccia con le storie popolari, come quella di
pirandelliana memoria della Sgricia e dell’angelo centuno. E poi
ai balli come la sarabanda e ai canti come quello lucano per la
raccolta delle olive in un percorso che porterà Tilse e la madre a
volare per arrivare in un’America che si trova “tutto a sud”.
E in questo percorso a tratti metateatrale, Caterina Pontrandolfo è
dimostra di essere intensa, fisica e poetica al tempo stesso.
La condivisione. Teatro da mangiare? È uno spettacolo
davvero singolare che si mette in tavola -è proprio il caso di
dirlo. Lo prepara la compagnia de Le Ariette, tre personaggi unici
che si sono rifugiati a Castello di Serravalle in provincia di
Bologna in un vecchio casale. Qui appunto preparano pane e
tagliatelle per i loro commensali, e tra una insalata e un pezzo di
formaggio, raccontano la loro storia, regalano canzoni di Tom Waits,
recitano poesie, interpretano se stessi o altri personaggi. E
centrano ogni discorso sulla vita e sulla morte, sul cibo sano e sul
rito (preparare le tagliatelle e tagliarle a lume di candela e
leggendo una poesia di Renaud). Perché la tavola è un luogo dove
poter parlare di tutto, perché il cibo simboleggia la vita e il
cerchio si chiude se si racconta anche di morte. Perché i
commensali così condividono un pranzo o una cena ma anche delle
emozioni, risate e riflessioni.
Il processo. Durante la due giorni, il regista Valeriano
Gialli ha presentato il progetto del suo Baal, una ‘ballata
dell’amore cinico’ scritta da Bertolt Brecht. Lo spettacolo
sarà rappresentato il 24 e il 25 maggio al Teatro Gobetti, adesso
invece il regista ha raccontato con ironia il work in progress. E lo
ha rappresentato con l’aiuto di due ballerini Paola Colonna e
Paolo Data-Blin che danzando ci hanno dato l’idea -o meglio i
passi-della storia, della violoncellista Erika Patrucco. e del mezzo
soprano Angelica Buzzolan che ci ha cantato alcuni versi di questa
storia di sensi, istinti, sapori, come quello del vino nei bicchieri
sulla scena, e colori.
Ci sono piaciute la precisione e la puntualità di questa
rappresentazione tale da sembrare una rappresentazione nella
rappresentazione, a dimostrare che “il teatro è un processo, non
è un prodotto” come è stato detto durante una presentazione.
L’Impegno. Il teatro è un impegno civile, così come è un
impegno pratico, di “piantare chiodi”, e cioè di lavorare sulle
scene, di fare prove faticose, etc, etc.. Al convegno “ Zone di
confine: teatro sociale e drammaturgia artistica. Esperienze,
riflessioni, proposte” hanno partecipato operatori e registi
teatrali che fanno teatro in comunità particolari, come quelle
periferiche, o quelle carcerarie. Sono tante le esperienze
raccontate, quella dell’attrice Marisa Loriga che lavora a Novate
Milanese con una compagnia di donne anziane (la più grande ha 83
anni) sulla memoria (il cruccio del suo maestro Tadeusz Kantor), e
Vasco Mirandola un regista padovano che fa spettacoli insieme ad
attori sordomuti.
Alla domanda di Caffè Europa “Ma che cosa avete
imparato voi da loro?”, Vasco Mirandola ha risposto che ha
imparato a “guardarsi e guardare in faccia” perché i sordi
hanno un rapporto fortemente visivo con se stessi e con gli altri,
leggono gli altri dallo sguardo e in questo senso educano le persone
‘abili’ a non nascondere nulla. Alessandra Rossi Ghiglione
invece ha detto che lavorare con alcune prostitute e donne della
periferia torinese le ha dato modo di osservare come ogni donna può
rispondere diversamente alla fragilità femminile e al ricevere
violenza.
Per informazioni sul “cartellone” del Teatro Perempruner: http://www.viartisti.it
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