Far sorridere è difficile
Maurizio Nichetti con Nicoletta Perfetti
Maurizio Nichetti ratataplana dal cinema alla lirica e vola sulle
musiche di Lauro Rossi, compositore maceratese classe 1810. E’ sua
infatti la regia de Il Domino Nero, opera buffa in tre atti
rappresentata per la prima volta in epoca moderna al Teatro
Pergolesi di Jesi lo scorso fine settimana. L’audace soggetto di
Eugène Scribe, ambientato tra un convento e una casa di tolleranza,
fu a suo tempo oggetto di censura. Il Teatro Pergolesi di Jesi
(Ancona) ha avviato dal 1995 la riscoperta di compositori
marchigiani. L’edizione verrà trasmessa da RadioTre (Filarmonica
marchigiana, Direttore d’orchestra Bruno Aprea, interpreti Chiara
Taigi, Luis Damaso, Mauro Buda) e incisa dalla casa discografica
Bongiovanni.

Nichetti, dopo l’esperienza di Trento nel
1999 con il Barbiere di Siviglia, da lei definita una “
sfida registica”, perché ha scelto Lauro Rossi, perché Il
Domino Nero?
Perfché è un’opera mai rappresentata in tempi moderni. Mi
sono documentato e ho scoperto che sulla vita di Lauro Rossi
bisognerebbe fare un film, alla Fitzcaraldo: il compositore è stato
un personaggio fantastico, un temperamento impulsivo e avventuroso,
che ha incontrato successo e traversie in Italia, Messico, India,
Cuba, New Orleans. E poi per la voglia di mettere in scena un'opera
che dimenticata in quanto opera buffa. Ho preso dunque Lauro Rossi
come un simbolo dell’ironia.

E’ più difficile far sorridere con un’opera
o con un prodotto cinematografico o televisivo?
E’ difficile far ridere in senso lato. Lo spettatore
contemporaneo ha spesso difficoltà nel dire che qualcuno che lo fa
ridere è anche una persona che ha un valore. E’più facile far
piangere: ci son tre o quattro cose canoniche che quando vengono
messe in scena fanno venire il magone per forza.
La risata è l’unica cosa che appartiene solo all’uomo e non al
regno animale: un animale non può essere ironico e il motivo è che
tutte le altre reazioni sono sensazioni e reazioni primarie,
istintive, mentre l’ironia è un’elaborazione del cervello. Per
potere apprezzare la diversità all’interno di una quotidianità
occorre fare un ragionamento: la gag è qualcosa che interrompe l’uguale.
Io sono contento di fare questo lavoro sul versante dell’ironia,
della risata piuttosto che abusare del sentimento e del
sentimentalismo dello spettatore.
Parliamo di cinema: pensa sia ancora possibile per lei, sull’attuale
mercato, ottenere il successo con budget minimi e incassi massimi?
Senz’altro, e meno male. A me è successo con Ratataplan,
Volere volare e Ladri di saponette. Ma forse
sono più affezionato ai film che, per una serie di concause, hanno
avuto meno fortuna. E' ancora possibile girare film, non solo in
Italia ma in tutta Europa, con budget contenuti, a patto di avere un’idea
clamorosa. E’ altrettanto vero che oggettivamente è sempre più
difficile fare cinema, per colpa del monopolio americano, o dei
distributori, o degli esercenti. Accade quel che è accaduto con la
lirica, che ha gradatamente ha selezionato il suo pubblico e ha
perso per strada la semplicità, la popolarità, la voglia di
divertire, e adesso non è più uno spettacolo di massa.
Per cento anni il cinema è stato il divertimento massimo della
gente: negli anni ’50 la gente ci andava quattro volte la
settimana, costava 200 lire, io guardavo due spettacoli la domenica,
uno alle due e uno alle quattro, passavo in sala la giornata. Oggi
non è più così: prima di andare al cinema uno deve proprio
scegliere perché se ci va una volta alla settimana le altre sei
sere si guarda i film in televisione. E magari il settimo giorno fa
altre cose: va al ristorante, a giocare a tennis, a ballare, a farsi
una gita …insomma, non va al cinema.
Per andare al cinema deve scegliere un evento, che può essere o
spettacolare, quindi un film americano con grande effetti speciali
di cui si parla sei mesi prima dell’uscita, o culturale, quindi un
film di nicchia. Quello che immagino è che il cinema sarà tra
cinquant’anni come l’opera lirica: si andrà al cinema come ora
si va a teatro, con la stessa soddisfazione intellettuale con la
quale i melomani seguono l’opera lirica. Diventerà spettacolo di
massa solo se comprenderà l’interattività, la possibilità di
entrare nelle storie.
Si è svolto in questi giorni a Siena il Festival sul cinema
indipendente al quale lei ha partecipato.
Mi son sentito di dover chiarire che “indipendente” in
America significa al di fuori delle major, cioé fuori dall’industria,
e invece in Italia il termine viene equivocato, perché si riferisce
a colui che prende una telecamera e si fa un film tutto da solo:
quello è un dilettante, non un professionista. In Italia non esiste
un’industria del cinema, esiste un artigianato creativo che ogni
tanto sfrutta questa o quella personalità, spesso proveniente dalla
televisione, e sforna filoni di fortuna temporanea.

Per assurdo, quindi, siamo tutti indipendenti
perché non abbiamo un’industria che ci obbliga a fare qualcosa di
particolare. L’indipendenza nostra - penso a me, Moretti, Benigni,
Troisi, Verdone - è quella di lavorare o aver lavorato secondo
lapropria sensibilità e, certo, di aver avuto la fortuna di avere
successo con il pubblico. Il concetto di indipendenza, da noi, è
più un'idea di libertà interiore che la rappresentazione di una
modalità di lavoro particolare.
A Torino c’è il Festival del Cinema Giovane e lì è più facile
vedere operazioni, diciamo così, indipendenti, ma solo perché gli
autori sono giovani alla loro opera prima e la loro indipendenza è
connaturata. Bisogna vedere se poi, con l’opera seconda o terza,
continuano ad essere moralmente indipendenti o se diventano registi
seriali che vanno a lavorare per la televisione.
E lei, dopo Quo Vadiz e Pista, vede ancora
televisione all’orizzonte?
Io la televisione la farei, la farò, ma ho bisogno che mi offrano
qualcosa che non può fare un’altra persona. Con i format non
hanno bisogno della mia faccia o del mio contributo creativo, e
infatti non me lo chiedono neanche.
I suoi prossimi impegni?
Dopo quel che è accaduto l’11 settembre credo che gli
sceneggiatori, i creativi di tutto il mondo abbiano bisogno di un
momento di riflessione. Siamo ancora sotto shock. Quello che
dicevamo un mese fa non lo possiamo dire ora con la stessa
spensieratezza, siamo sotto un cappello d’angoscia. Esiste una
categoria dello spirito che è la capacità di ironizzare su certi
argomenti. Prima dell’11 settembre si poteva fare, si potevano
dire certe cose in un certo modo, ora ci sono altre implicazioni.
Penso per esempio al movimento antiglobalizzazione che ha
caratterizzato quest’estate: alla luce di quanto è successo il
concetto di non accettare un'omologazione anglofona va rivisto.
Non si tratta di diventare improvvisamente filoamericani ma di
essere lontanissimi dal pensiero di chi fa terrorismo. Prima eravamo
convinti che il mondo fosse anche criticabile, all’interno di una
logica occidentale. Di fronte a questa esplosione di religiosità e
di fanatismo dobbiamo domandarci a quali valori morali altrettanto
forti ci possiamo attaccare per controbattere. Non possiamo
controbattere né con la forza né liquidandoli con un “sono matti”.
Né tantomeno possiamo confondere il terrorismo con la religione.
Quel che è successo ha di nuovo messo in gioco tutto; c’ha fatto
venir voglia di studiare di approfondire. Da tutto questo nasceranno
nuovi film, nuovi spettacoli, ma al momento è necessaria una pausa
di riflessione.
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