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Se questa è Propaganda war
Giancarlo Bosetti
“Propaganda War” la chiama la copertina dell’”Economist”.
E l’idea è di sicuro venuta alla redazione anche per tamponare il
vuoto di notizie militari. Ma la dilazione dell’annunciato attacco
americano (è passato ormai quasi un mese dall’11 settembre)
contro le centrali terroristiche e il regime dei talebani aveva
delle spiegazioni che andavano oltre la preparazione
tecnico-militare delle operazioni. La ragione principale dei tempi
lunghi di Bush stava, e sta anmche ora che le operazioni sul campo
sono cominciate, nella necessità di raggiungere due obiettivi tra
loro strettamente accoppiati: costruire una estesa e complicata
alleanza internazionale che coinvolge zone critiche del mondo
mussulmano come il Pakistan, l’Uzbekistan, l’Arabia saudita, l’Egitto
e tanti altri da una parte, e agire sapendo, dall’altra parte, che
le iniziative militari americane nella zona cruciale dell’Afghanistan
si riflettono, atto per atto, sulle popolazioni di quei paesi e
possono portare acqua al mulino della Jihad.
E’ indicativo che gli scontri tra la polizia e i manifestanti
antiamericani abbiano prodotto i primi morti a Islamabad e che
disordini si annuncino in Indonesia. Il fatto è che ogni bomba che
cade sul suolo afghano deve fare i conti con la sua efficacia nel
centrare i veri bersagli (il dispositivo militare talebano e la rete
terroristica - e gli errori come sempre costano cari), ma anche con
gli effetti che ha su tutti i regimi politici del mondo islamico, a
cominciare dalla Giunta militare pakistana, di Pervez Musharraf, che
potrebbe essere l’anello più debole, oltre che quello più vicino
al conflitto e più direttamente coinvolto dalla catastrofe dei
profughi.
Oggi la caduta di un regime dell’area musulmana a beneficio delle
forze estremiste della “guerra santa” preoccupa, e giustamente,
il quartier generale di Washington molto più della defezione di
Cossutta o di Pecoraro Scanio in Italia. Il fronte che decide chi
vincerà o perderà questa guerra va visto in questa prospettiva
estesa: se alla fine del lungo conflitto Saddam Hussein (per non
parlare, si capisce, di Bin Laden) avrà un alleato in più o se
qualche alleato in più ce l’avranno gli americani, i loro amici
occidentali e i regimi arabi moderati.
Non è di sicuro una novità che le mosse militari abbiano riflessi
politici e psicologici oltre che effetti diretti sulle cose e sulle
persone, dall’uso terrorizzante dei sottomarini nella prima guerra
mondiale ai bombardamenti a tappeto nella seconda. La novità qui è
che il peso della strumentazione psicologica e politica è
probabilmente di gran lunga superiore a quello dei missili. Ed in
gioco non è solo la battaglia sullo scacchiere militare in
Afghanistan (e probabilmente oltre), ma la scelta di chi vincerà la
pace.
Difficile non capire che questa è la ragione per cui tutti i giorni
Bush e Blair, indiscutibili protagonisti e registi della strategia,
ripetono che “il nemico non è l’Islam”. Ma la “propaganda
war” di cui parla l’”Economist” non si riduce certo a
questo. C’è qualche complicazione in più rispetto a quello che
possiamo immaginare pensando, mettiamo, allo sbarco degli Alleati
angloamericani in Italia. Anche allora ci fu un notevole
dispiegamento di mezzi per la “guerra psicologica”, che aveva,
come adesso, le sue strutture organizzate (com il PWB, Psychological
Warfare Branch, che si occupava di gestire i giornali dopo la
Liberazione), ma l’impresa di spiegare che con il generale
McArthur arrivavano “i nostri” era più semplice di oggi.
Oggi “i nostri” in Afghanistan e in tutto il mondo musulmano
sono i “top gun”, sono i figli del benessere americano con la
faccia di Tom Cruise, sono degli infedeli cristiani, sono dei
consumisti e dei peccatori, gente che tollera e magari apprezza la
omosessualità persino tra le donne, e sono per di più gli alleati
di Israele. Sono una entità che trent’anni di estremismo islamico
e di cultura jihadista hanno presentato praticamente come il
demonio. Altro che l’antiamericanismo degli “antiglobal” di
Seattle e di Genova.
Ogni giornata di questa guerra richiede un impegno nella
comunicazione, nella pubblicità, nei dettagli semiologici, che
ricorda le grandi campagne pubblicitarie per i prodotti globali. Se
gli americani, Pentagono e Casa Bianca, si fossero impegnati contro
Saddam Hussein in questi anni tanto quanto i pubblicitari si sono
dedicati ai consumatori perché comprassero le nuove lamette della
Gillette e passassero dalle Contour alle Mach 3, non avrebbero
subito la débâcle comunicativa che è loro costata la
gestione del dopoguerra (del Golfo) con l’Iraq. Magari fossero
stati capaci di tanto!
E’ invece accaduto che il primo premio per la campagna
pubblicitaria l’abbia vinto proprio Saddam, che è riuscito prima
a diffondere nel mondo (islamico e occidentale) la tesi che l’embargo
aereo sul suo paese abbia condotto alla morte di centinaia di
migliaia di bambini e poi a battere sull’idea propagandistica,
forte e semplice “America uguale bambini ammazzati”. Che sia
vero il fatto che un embargo può avere conseguenze sul piano
umanitario peggiori di un bombardamento è questione che può dar
luogo a una sottile discussione (e infatti è stato spesso
dimostrato che è così, anche se i pacifisti continuano talvolta a
invocarlo come estremo mezzo per evitare la guerra), ma questa è un’altra
faccenda.
Quello che conta sulla scacchiera geopolitica è che un successo
propagandistico può pesare più di molti bombardieri. E il
conflitto arabo-israeliano, così compromettente per gli americani
agli occhi del mondo islamico, vale da solo più di qualunque grande
campagna pubblicitaria “negativa”. Adesso lo hanno capito
davvero tutti.
Sarebbe quindi una tragedia di dimensioni incalcolabili se gli
americani perdessero un’altra guerra comunicativa, con Bin Laden e
con i talebani. Questi ultimi sanno bene che la posta, dai cui
dipende anche la loro sorte, riguarda la loro capacità di
comunicare il “prodotto jihadista”, diciamo così, facendone
crescere il numero dei “consumatori”. E per di più giocano “in
casa”, dal momento che le maggiori “quote di mercato” in palio
e alle quali ambiscono sono nel mondo musulmano. La novità,
rispetto alla guerra con l’Iraq, è che questa volta, forse anche
perché vulnerabili, e vulnerati in casa propria, gli Americani
(opinione pubblica e leadership di governo) hanno capito la
complessità della partita; si sono perfettamente resi conto che non
è affatto ovvio che tutto il mondo si schieri dalla loro parte, ma
è necessario guadagnarne faticosamente e con abilità il consenso.
Certo parlare di opinione pubblica in paesi come l’Afghanistan,
dove la grande maggioranza non sa leggere e scrivere, e dove persino
la televisione (questa è davvero una situazione limite anche per il
Terzo mondo) è un bene di élite , è molto problematico. Questo
significa che la comunicazione dovrà essere ancora più
semplificata di quanto i pubblicitari della tv non sappiano già
fare. Racconta, per esempio, Maurizio Ricci sulla Repubblica che i
volantini lanciati dall’alto mostrano il World Trade Center in
fiamme con una scritta che dice: “E’ questo che vuole Allah?”.
Che l’esercito americano abbia deciso di distribuire radioline sul
territorio, paracadutandole e regalandole insieme a cibi e medicine,
mentre radiotrasmittenti dagli aerei diffondono propaganda, ci dice
quanto gli americani stianno prendendo sul serio i compiti
psicologici che questa guerra impone. Bush padre vinse la guerra dei
missili e perse quella della propaganda. Con Saddam. Bush figlio ora
è costretto a vincere tutt’e due. Con Bin Laden, e soci.
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