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Riformismo, la scommessa europea



Antonio Carioti



In Italia la sinistra, se vuole avere una prospettiva concreta di crescita, deve guardare molto più alle esperienze europee che alle vicende del nostro Paese. E soprattutto deve proiettarsi con decisione verso il futuro, anziché attardarsi sulle pur importanti dispute del passato. E’ questa la conclusione che pare legittimo trarre dal dibattito di presentazione del libro “Riformismo vecchio e nuovo” (Einaudi), ultima fatica editoriale dello studioso diessino Giuseppe Vacca, che si è svolto a Roma il 3 ottobre scorso.

Sul primo punto ha insistito molto Massimo D’Alema, legato all’autore da un saldo rapporto di consonanza intellettuale. Il presidente dei Ds ha riconosciuto di aver fallito nel tentativo di portare a compimento il disegno politico inaugurato nel 1994 e giunto al successo nel 1996, ma ne ha confermato la validità: se vuole darsi una cultura di governo e un’identità capace di emanciparlo dall’onere del suo passato comunista, ha ribadito, il partito della Quercia deve ispirarsi al socialismo europeo, senza illudersi che l’Italia possa essere il laboratorio di soluzioni particolarmente originali.

“Per lungo tempo - ha detto D’Alema - abbiamo creduto di essere più avanti rispetto alle socialdemocrazie del resto d’Europa, ma poi il risultato di tutto questo era che governava sempre la Dc. Non vorrei che oggi ci illudessimo nuovamente di trovarci all’avanguardia, con il risultato di consegnare stabilmente la guida del Paese a Berlusconi”.

Giuliano Amato ha invece posto l’accento sul fatto che “il futuro conta più del passato”. Critico verso molti giudizi espressi nel libro di Vacca, l’ex premier ha rivendicato la spinta innovatrice impressa dai socialisti al governo negli anni del centrosinistra e del pentapartito. “Fummo noi del Psi di Craxi - ha ricordato - a puntare per primi sull’approdo alla socialdemocrazia europea e a impostare il problema delle riforme istituzionali. Purtroppo non avevamo una moderna cultura economica di mercato e così finimmo per lasciare alla Lega uno spazio enorme tra i lavoratori autonomi con il gusto del rischio”.

D’altronde, secondo Amato, la modernizzazione ha anche una faccia oscura, rappresentata dallo scatenarsi degli egoismi: un fenomeno di fronte al quale il senso della missione nazionale tipico del Pci costituisce a sua volta un’eredità da valorizzare. L’importante è non rimanere ostaggi della storia, non continuare a riviverla in modo paralizzante. Il che significa anche disfarsi definitivamente delle tentazioni massimaliste: “Non siamo nati - ha sottolineato Amato - per essere protestatari, ma per trasformare la protesta in capacità di governo”.

Molto più polemici verso l’autore del libro e l’attuale dirigenza della sinistra si sono mostrati gli altri due partecipanti alla discussione: Paolo Mieli e Rino Formica. Entrambi hanno messo in campo puntuali riferimenti al passato e alla infelice specificità del caso italiano.

L’ex direttore del “Corriere” ha fatto notare che nel volume di Vacca sono assenti alcune figure centrali della sinistra riformatrice: da Antonio Giolitti a Ugo La Malfa, da Paolo Sylos Labini a Bettino Craxi. Non si tratta certo di dimenticanze, ha aggiunto Mieli, ma del sintomo preciso di un incontro mancato tra gli eredi del Pci e le tradizioni progressiste di altra matrice. Una difficoltà confermata, a suo avviso, dalla circostanza per cui un uomo come Amato, pur condividendo il progetto di dar vita a una sinistra dalla vocazione europea, resta tuttora fuori dal partito dei Ds.

Più aspre le osservazioni di Formica, secondo il quale i postcomunisti non possono sottrarsi all’obbligo di fare i conti con la storia del socialismo italiano. Il partito della Quercia, a suo parere, ha preteso di ergersi a ridefinitore del riformismo, ma senza riuscirvi. Per giunta ha ceduto alla fascinazione dell’eticità giustizialista, a un’idea irrealistica della politica come testimonianza morale. E in questo modo, secondo Formica, ha aperto la strada al successo del centrodestra.

Vacca, che peraltro alle suggestioni dell’antipartitismo è sempre stato impermeabile, non si è sottratto alle critiche. Ha precisato che il suo libro non è una storia del riformismo nel nostro Paese, ma espone una proposta politica, che trova il suo fondamento in biblioteche europee assai più che italiane.

Il problema, a suo avviso, è vedere come si possa fare tesoro dell’esperienza di una sinistra (scandinava, mitteleuropea, anglosassone) che ha saputo elaborare una sintesi virtuosa tra le ragioni della classe operaia e quelle della nazione, tenendo conto che gli scenari della globalizzazione ci pongono oggi molte questioni inedite.

Insomma, la scommessa di Vacca, sostanzialmente condivisa da Amato e D’Alema, punta ad aprire un capitolo nuovo nella storia del progressismo di casa nostra, promuovendone l’omologazione al socialismo europeo. Ma il peso dell’anomalia italiana resta consistente, tanto che neppure il sospirato approdo al governo dei Ds è riuscito a riassorbirla. Difficile dire se il prossimo Congresso della Quercia segnerà un decisivo passo avanti, anche perché il nodo del rapporto con la Margherita, come ha notato D’Alema, rende la situazione ancora più complicata.

 

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