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La testimonianza di studente, per caso sotto le torri



Daniele Castellani Perelli




C’era un principio d’inferno, con sirene e fuochi e lacrime. Ci sono andato quasi dentro per capire, fotografare, esserci.

Nuda nomina tenemus, scriveva l’Adso di Eco: così per me, mentre rileggo il programma di visita di quel mattino: “Bleecker (Streeet)”, “W(orld) Trade”, “Wall (Street) + Toro”.

La solita fatale ragnatela di Caos e liberi arbitrii ha fatto e disfatto a modo suo: prima ha voluto che destinassi alle Torri proprio quel penultimo mattino di vacanza, poi si è divertita a salvarmi, in modi banali, decisamente poco consoni ad una grande Fors virgiliana.

Alle 8:45 circa mi è passato un aereo sulla testa, volava bassissimo: era il primo Boeing.

Saliti finalmente sull’autobus (M6, direzione Downtown), 2 ragazzi di Milano ci hanno avvertito che un aereo si era schiantato contro una delle Torri gemelle. Dopo quattro fermate ci hanno fatto scendere tutti (Union Square Park).

I miei genitori mi avevano portato in America per far loro da guida e interprete, io li ho portati quasi dentro a un inferno, sostanzialmente perché ignoro la fisica e non immaginavo minimamente la possibilità del crollo delle 2 Torri.

Un fiume di gente risaliva la Broadway bassa, noi siamo scesi.

Alcuni piangevano; altri, casualmente fraternizzati intorno ad un'automobile, ascoltavano le notizie della radio; altri ancora, troppi anni davanti alla tv, raccontavano eccitati e divertiti i due impatti.

Una donna ci si è messa davanti e ci voleva quasi costringere a tornare indietro (“Oggi niente Torri gemelle, niente Statua della Libertà. Tornatevene su, a Central Park, via! Vedrete tutto in televisione, via!”): ho fatto alcuni passi nella direzione che voleva lei, ma appena se ne è andata ho convinto i miei a proseguire.

Ora che, scrivendo, controllo la cartina di Manhattan, mi accorgo di essere arrivato a due edifici di distanza dalla Torre Nord, cioè al City Hall Park e al Woolworth Building.

Lì una malvoluta scelta di prudenza ci ha salvato la vita: invece di continuare sul lato destro della Broadway, abbiamo seguito il consiglio di una poliziotta che urlava indicando la sinistra.

Su Park Row un buffo carro della Polizia ci ha incanalato in Beekman Street.
Eravamo a Beekman Street quando, per noi, è venuto giù il mondo.
Un boato continuato, come di terra che s’apre e inghiotte; una nube improvvisa. La prima Torre crolla.

Ora è facile capire: si sa, pressappoco, chi è stato a colpire, cosa esattamente è successo, quante strade sono state coinvolte e quali edifici sono crollati.

Noi, a 400 metri, dai mozziconi di parole americane afferrate nell’avvicinamento alle Torri e nella drammatica fuga, sapevamo che: due aerei si erano schiantati senza motivo contro le Twin Towers, una donna nera aveva parlato di quattro aerei dirottati, tutta la città poteva essere coinvolta.

Quando è venuta giù la prima Torre, non sapevamo cosa fosse successo. Siamo semplicemente stati investiti da una massa urlante, con donne che cadevano e con la paura che si venisse schiacciati.

Nella fuga ho guardato più volte indietro e ho visto che la nube di fumo correva più di noi. Ho stretto il braccio di mia madre come fanno i poliziotti quando arrestano un mafioso. Le ho urlato di correre, mentre una signora nera e pesante disperata cercava spazio proprio tra noi due.

Avevo portato i miei genitori sessantenni quasi dentro l’inferno, ora almeno dovevo tirarli fuori.

Abbiamo risalito il sud di Manhattan con dei fazzoletti alla bocca. Brooklyn Bridge, Pike Street, Chinatown.

Mentre passava la paura, il quadro si faceva più chiaro. Una signora nera ci ha fermato solo per raccontarci quello che aveva visto dalla finestra (I have seen everything from my window) e ci ha parlato dei due aerei di Washington. In una delle tante inutili code per telefonare, un cinese americano ha maledetto alcune persone che ancora erano su un autobus (It’s very dangerous) e ci ha svelato la sua bizzarra teoria: “Collega i fatti (Link them), nella stessa ora 2 aerei si schiantano contro le Torri Gemelle e 2 colpiscono edifici federali a Washington: It’s t’rorism” “What?” “T’rorism!” “Excuse me, i can’t underst…” “Terrorism!!”.

Ho chiesto ad un poliziotto se la nostra zona, quella dell’Empire, era sicura. Mi ha risposto di no, e che nessuna zona era sicura. Siamo tornati a piedi in albergo, in una New York senza macchine e vita.

La sera dopo, di ritorno dall’unica cena decente dell’intera vacanza, un’altra fuga, quasi altrettanto drammatica: per un allarme bomba proprio all’Empire, chiusa un’ampia zona della Manhattan centrale. Fortunatamente era solo uno dei cento falsi allarmi giornalieri, ma fosse successa la tragedia anche lì…

Ogni pomeriggio siamo andati a chiedere notizie, suggerimenti, soluzioni al Consolato italiano. Ma ci hanno dato solo sostegno psicologico: evidentemente troppo poco, per un’istituzione il cui nome deriva da consulatus, non da consolatio.

Con quattro giorni di ritardo, ora siamo di nuovo a Roma.
Penso che è come se duemila anni fa alcuni sconosciuti individui del lontano Regno dei Parti avessero distrutto i luoghi sacri della città imperiale di Cesare.

Anche ora che ci sono stato, l’America mi appare un’inesauribile contraddizione: liberatrice o colonizzatrice, radicalmente individualista o nazionalista, con densità altissime o desertica, lussuosa o stracciona, colta o ignorante.

Avevo pronto un discorsetto da turista europeo attento, affascinato dall’America ma al tempo stesso razionalmente critico come può esserlo un qualsiasi leftist democratico.

Mi ritrovo con un’immagine sola: la sera di quel martedì, un giovane nero mezzo-scemo con i calzoncini da ciclista, nel lutto silenzioso di Times Square, con una bandana USA legata in testa: accelera, poi lascia i pedali leggero per fare la curva: sfila davanti a noi, la mano destra sul manubrio, la sinistra in alto che stringe una stupida bandierina a stelle e strisce. E’ lì, per la prima, che mi viene da piangere, come un mezzo-scemo.

Maledetta America, New York is still here.











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