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Francesca Chiapponi e Marianna De Marzi



Sono finalmente riuscita a contattare Marianna, un’amica ed ex collega quando lavoravo a Wall Street Italia. Martedì 11, appena appresa la notizia della tragedia americana, ho provato a mettermi in contatto con lei, ma, neanche a dirlo, i telefoni erano impazziti e comporre qualsiasi numero con prefisso 001/212 era totalmente impossibile. Solamente ieri, a distanza di sei giorni dall’accaduto, ho finalmente avuto sue notizie e, per dover di cronaca, l’ho pregata di fornirmi una dettagliata testimonianza in prima persona, insieme a Francesca, una sua collega. La sede di Wall Street Italia, dove Marianna continua a lavorare, si trova proprio al 41° piano del prestigioso Empire State Building, dal quale si vedevano le Torri maledette.
Maria Teresa Cinanni



Martedi' 11 settebre 2001, ore 8.00, come ogni giorno siamo al lavoro, al 41esimo piano dell'Empire State Building, simbolo storico di New York, degli Stati Uniti.

Un caffè, due risate, quattro chiacchiere, qualche e-mail ai genitori lontani, poi ci immergiamo nel nostro tran tran quotidiano, ci prepariamo all'apertura di un altro giorno di borsa. Un'apertura che non e' mai arrivata.

Alle 8.45 il nostro direttore, che dal 73esimo piano ha appena visto ogni cosa dalla sua finestra esposta a sud di Manhattan -la nostra è esposta a nord-est-, ci dà la notizia, e per un attimo pensiamo a uno scherzo, tanto sembra assurdo e impossibile quello che è accaduto: un aereo si è schiantato contro una delle torri gemelle.

Ci precipitiamo alle finestre e ci appare davanti agli occhi la cruda e allucinante realtà; nei giorni precedenti era nuvolo e velato, c'è ora invece un cielo blu e terso che quasi beffardamente ci mostra la cruda realtà che forse preferiremmo non vedere: c'è fuoco sulla torre e già si sente il rumore delle sirene dappertutto. Nei primi momenti pensiamo a un incidente, ma in pochi minuti apprendiamo la notizia: si tratta di un atto terroristico.

E' in quel momento che la paura si fa ancora più grande: le Torri Gemelle sono il simbolo del potere economico degli Stati Uniti. L'Empire State Building potrebbe essere il prossimo target. Sono da poco passate le 9.00, neanche il tempo di realizzare quello che è accaduto, comincia l'evacuazione dall'Empire e assistiamo a un secondo attacco, un secondo aereo schiantatosi sulla seconda torre.

E’ grande l'ansia di uscire al più presto dall’Empire. E non siamo i soli a pensarlo, i corridoi sono pieni di persone che affrettano il passo, c'è fila agli ascensori, al piano terra la gente è accalcata verso le uscite. Siamo finalmente sulla strada, smarriti, impauriti, ansiosi di chiamare a casa, dove, pensiamo, avranno sicuramente appreso la notizia e saranno in agitazione. Intorno a noi gli stessi nostri sguardi: la gente è incredula, non sa da che parte andare, non sembra esserci un luogo sicuro al momento e tutto è già bloccato: treni, metropolitana, mezzi.

I cellulari sono fuori uso, i telefoni pubblici funzionano poco e hanno file sempre più lunghe. Siamo scioccati ma vogliamo vedere quello che sta succedendo, non riusciamo a rimanere là fermi, senza fare nulla, senza vedere, capire cosa accade. Decidiamo di dirigerci verso Downtown, in alcuni momenti corriamo, tanta è la nostra ansia ma anche la paura che ci sia qualche pericolo a due passi ogni volta che qualcuno arriva verso di noi urlando, o scappa in altre direzioni.

Sulla strada che percorriamo dall'Empire verso le Twin Towers in una ventina di minuti incrociamo e fissiamo le immagini di umori stravolti, paura e incredulità, teste alzate agli edifici in fiamme. Alle 9.40 raggiungiamo Washington Square, gremita di giovani con la divisa dello spettatore improvvisato e inebetito. Superiamo una folla che, per umore, non sembra più tanto eterogenea, quando un boato ci travolge alle spalle. Davanti a noi la prima torre svanisce dietro a una nuvola di fumo.

Le emozioni si concentrano in pochi secondi, tutto sembra inesorabilmente rapido e incalcolabile. E ancora siamo lontani per capire e vedere la disperazione che anima le torri. Correndo, incrociamo gruppi di persone sul ciglio della strada, molte donne piangono, sono tanti quelli che hanno amici o parenti laggiù; tutti gli occhi guardano alla torre, mentre le radio mandano in onda una cronaca in diretta che sconvolge per la perfezione della strategia di attacco e per le vite coinvolte.

La corsa si placa e a 5 blocchi dalle torri fermiamo i nostri passi per osservare da vicino la torre sopravvissuta. Ancora resiste. Arriva verso di noi un poliziotto in divisa visibilmente provato e ferito, Mr. Guerrillo che -ci dice- era vicino alla torre crollata, troppo vicino: è il primo colpito e ferito che incontriamo sulla nostra strada. Proviamo a chiedere per capire la dinamica dei soccorsi, la situazione a pochi blocchi da noi. Scuote la testa, invita ad allontanarsi.

Capiamo che le forze dell'ordine sono impegnatissime nelle operazioni di evacuazione e sicurezza, ci sembrano efficienti pieni di volontà e pronti, ma è difficile contenere e controllare la folla crescente che si accalca intorno. Mr Guerrillo ripete:"Andatevene lontano, presto", allarga le braccia e indica un parco alle nostra spalle.

Vicino a lui un uomo in giacca e cravatta ci guarda e inizia a raccontare la sua storia: "Ho un ufficio al 29esimo piano del World Trade Center. Stamattina ho perso il treno dal New Jersey e ho preso quello successivo". Ripete più volte questa frase: evidentemente prende coscienza della sua fortuna. Fissa incredulo la torre che resiste. Pensa ai suoi colleghi, di cui non si sa ancora niente. E pensa, è ovvio, a se stesso e a quel treno che aveva maledetto pochi minuti prima della tragedia.

Siamo senza parole, non ci sembra il caso di chiedere altro; l'uomo è scioccato. Sono le 10.25, improvvisamente ci coglie un rumore fragoroso, e il blocco dell'incredulità cattura le nostre gambe e gli sguardi. La seconda torre crolla. In pochi secondi, tra stupore e paura vediamo frammenti scagliati in ogni direzione, mattoni e vetri che luccicano.

Scappiamo in ritirata nelle strade laterali, ci disperdiamo cercando un riparo dal fumo che ingoia isolati e palazzi. Nascosti in un interno, aspettiamo la fine del crollo, dopodiché alcuni di noi azzardano un’uscita per riprendere il corso. Troviamo solo fumo e polvere. La polizia non ha ancora coperto tutte le zone, non ha avuto il tempo di bloccare il passaggio che ci porta vicinissimi alla tragedia.

Nel grigiore rimasto, vediamo fotografi e giornalisti. Davanti a noi solo una distesa di polvere e fogli, residui di un commercio abbattuto senza ancora un perché. L'aria è irrespirabile, la visuale difficile. Raccogliamo fogli, leggiamo stampe di e-mail, ironia della sorte raccontano di una New York magnifica e di un lavoro interessante.

Attorno, altri increduli senza mascherina, macchine fotografiche ed espressioni attonite. Veicoli parcheggiati coperti di residui, travestiti di grigio. Ci voltiamo e un uomo al palo coperto di detriti scrive sul portatile, senza alzare gli occhi. E' uno degli ultimi evacuati.

Passano ambulanze, pompieri; il silenzio è colmato da sirene che suonano senza sosta. Poco oltre, tre ragazzini riempiono le bottiglie di plastica con i residui del crollo. Incredibile. Sui loro volti un sorriso fuori luogo. Beata innocenza. Un evento da imbottigliare.



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