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La sconfitta è il destino di Bin Laden



Giancarlo Bosetti




Il terrorismo può permettersi di “alzare il tiro”, di aumentare indefinitamente fino alle sue estreme possibilità “tecniche” il numero delle vittime, può aumentare l’impatto sulla comunicazione, può scegliere bersagli sempre più importanti, fino ai vertici del potere e dell’immaginario collettivo (il presidente, il Papa), può anche scegliere bersagli sempre più sconvolgenti ed efferati non per la loro importanza politica, ma per la loro identificazione con la vita della gente comune: i bambini, le scuole, il mercato della verdura, come abbiamo visto accadere tante volte a Belfast, in Medio Oriente, a Sarajevo.

Il terrorismo può diventare sempre più nichilista (come è nella sua propria natura), folle, delirante (come appare agli altri), può cercare il suo picco di gloria facendo scorrere fiumi di sangue. Può persino far desiderare una scalata al cielo, e farla sembrare possibile in un impeto di trascendenza, può fare apparire Dio in terra sottoforma di una terribile giustizia che fulmina gli infedeli. E tale sicuramente Dio appariva nelle menti che pilotavano gli aerei suicidi dell’11 settembre.

Ma questi picchi inebrianti corrispondono di solito a momenti di crisi, ai quali segue la disfatta, se come di solito accade l’organismo sociale coinvolto reagisce con un rigetto. In questi giorni, giudicando l’assalto a Washington e New York, veniva in mente - fatte le debite proprozioni di scala - quello che fu per le Brigate Rosse il sequestro e l’uccisione di Moro: l’inizio della fine. Fu il momento massimo della “geometrica potenza”, che tale appare sia perché richiede un notevole sforzo di energie organizzative, precisione, denaro, pazienza, determinazione, da parte dei terroristi, sia perché vi corrisponde, in controluce, l’impotenza e lo smarrimento dei suoi bersagli, della politica, delle polizie, dei servizi di intelligence, che di solito proporzionano i loro sforzi e la loro vigilanza all’ultima impresa terroristica, non a quella successiva che ovviamente ancora non conoscono.

Quando il terrorismo tocca l’apice e mette in scena una strage “impensabile” spinge all’apice anche la reazione del corpo sociale colpito. Se riflettiamo onestamente sul passato, pur senza alimentare illusioni (perché in realtà si tratta di un lavoro difficile, spesso ancora sanguinoso, lungo), bisogna dire che gli apici del terrorismo sono un segnale della sua difficoltà, sono l’indizio di un insuccesso politico, della incapacità di dare uno sbocco significativo alla propria esistenza, sono l’ultima disperata puntata di un giocatore di poker che ha già perso tutto. Quando il terrorismo è più florido colpisce con “raziocinio” e “misura” (molte virgolette, si capisce), uccide bersagli che accrescono il suo consenso, ha bisogno dei suoi riti, dei suoi comunicati e del suo linguaggio, ma non ha bisogno di portare il bersaglio troppo in alto.

Così fu per le Brigate rosse: finchè rimasero una infezione grave e cronica furono sì combattute energicamente ma come quelle malattie con le quali ci si rassegna però a convivere, perché il costo della loro eliminazione totale appare troppo onerosa a tutto l’organismo; quando però si manifestarono come una malattia potenzialmente mortale per la democrazia, la reazione andò anch’essa all’apice con qualche costo per la democrazia, in termini di riduzione della libertà, in termini di allargamento della soglia per la pressione repressiva, di abbassamento delle garanzie. Ma furono eliminate. Si sa che, alla fine della parabola Br, alla conclusione del sequestro del generale americano Dozier, alcuni arrestati furono torturati - governo Spadolini - tutti furono presi, nessuna protesta si alzò, l’area di consenso intorno ai terroristi era ridotta a quasi nulla.

Qualcosa del genere necessariamente accadrà ora: si pagherà un prezzo in libertà e garanzie e difficilmente a questo ci si potrà e vorrà opporre. Immagino già quante ore di coda costerà l’attesa del controllo dei passaporti all’arrivo a New York, come immagino quanti brutti momenti passeranno, che so, degli egiziani che girano il mondo per i loro ordinari e tranquilli commerci, per tacere di alcuni miei amici italiani dalla pelle olivastra che sembrano palestinesi, talebani, o curdi, a seconda della crisi del momento. E’ la reazione febbrile che scatena gli anticorpi, per restare in metafora, e che porta alla guarigione dopo notevoli sudate.

Questa volta è gigantesca la scala della crisi: l’organismo ha subito una ferita tremenda, migliaia di morti, un colpo simbolico ed effettivo al potere militare ed economico d’America. E gigantesca sarà perciò la reazione. Tutto più grande. L’organismo interessato non è una società, uno stato, ma il mondo intero, perché il mondo intero, la sua mobilità, la sua vita ordinaria, i suoi mercati sono esposti alle conseguenze sia dell’attacco che della reazione all’attacco.

Questi ragionamenti, relativamente ottimisti circa il risultato finale, trovano una conferma piuttosto circostanziata, dal lato del mondo musulmano, in un libro recente che si intitola Jihad, ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico (pubblicato da Carocci poche settimane fa), di Gilles Kepel, un direttore di ricerca del CNRS di Francia e responsabile del programma di dottorato sul mondo islamico all’Istituto di studi politici di Parigi. La figura di Bin Laden è presentata nella chiave del fallimento del suo progetto: la utopia di uno stato islamico supernazionale. E dal fallimento, dalla mancanza di basi in ogni singolo stato musulmano, dalla crisi di alleanze, il bisogno spasmodico di un colpo spettacolare, di un super-show capace di guadagnargli la simpatia di strati superficiali di disperati nei paesi dove maggiore è la tensione alimentata dalla miseria, dai conflitti e dalla predicazione fondamentalista.

Il potere che conta nei paesi musulmani non sta con Bin Laden, da tempo gioca contro di lui, e persegue il rafforzamento dei regimi nazionali. L’attacco alle torri gemelle e al Pentagono può modificare questa tendenza? Molto difficilmente. Accadrà quasi certamente il contrario. E’ parabola discendente, per quanto sia il sangue speso per arrestarla. E’ la stessa cosa accaduta a Khomeini. Il leader della rivoluzione sciita emise la Fatwa, la condanna a morte nei confronti di Salman Rushdie, l’equivalente di una impresa terroristica, proprio nel momento in cui si annunciava il declino del fondamentalismo islamico e l’affermarsi a Teheran di tendenze moderate, che sono oggi maggioritarie. La tesi di Kepel è che il trend democratico è quello prevalente anche nel mondo musulmano. La modernizzazione avanza anche per loro. Quello di Bin Laden sembra destinato ad essere ricordato come un tentativo disperato di fermare questa tendenza.

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