Mia figlia nel mondo dei grandi
Riceviamo e pubblichiamo:
Da: Anna Clerici <annaclerici@virgilio.it>
A: <caffeeuropa@caffeeuropa.it>
Data: Giovedì, 13 settembre 2001 4:16
11 settembre 2001. Mia figlia comincia la scuola elementare. Alle 9,
emozionate e già sveglie da un pezzo, entriamo nella sua classe; mi
sembra un pulcino, ancora non ha il grembiule e lo zaino, si attacca a
me. E’ intimidita. E io a dirle quanto sia bello andare a scuola, e
quanto sia importante cominciare a leggere, e scoprire tutte le cose
straordinarie di cui è fatto il mondo.
Passa la mattina, leggo i giornali; faccio delle telefonate, sto al
computer, ma il pomeriggio è libero, tutto per noi. A mezzogiorno
vado a prenderla e torniamo a casa. Si ferma su dettagli per lei molto
importanti(“sai mamma, non possono mettermi dietro alla lavagna, è
attaccata al muro”) ma si è dimenticata il nome della maestra.
Il programma del pomeriggio è organizzato da ieri: andremo con due
amichette più grandi a comprare i materiali che la scuola
richiederà: quaderni, astuccio. Lei è felice, io anche.
Verso le tre, credo, arriva la prima Ansa sul cellulare: un aereo cade
sul WTC ; che sfiga, penso. Entro in cartoleria, la radio è accesa;
le bambine guardano le copertine colorate, il mio cane aspetta fuori,
e il cartolaio e io ascoltiamo; prima distrattamente, poi ci guardiamo
e cominciamo a capire.
“Cosa sta succedendo?” Mi chiede. Non lo so, non capisco. Arriva
il messaggio Ansa, dice che è stato un attentato. Intanto la radio
parla di un attacco al Pentagono. Comincia a suonare il telefono: “Hai
già sentito?” Amici che a turno mi danno pezzi di informazioni.
Intanto le bambine vogliono il gelato, devo far finta di niente. La
più grande però se ne accorge: “Cosa sta succedendo?” .Forse
dovrei dirle qualcosa, ma non so se la sua mamma sarà d’accordo. Le
dico che sono caduti due aerei.
“Due?” Chiede lei, ma sentiamo per la strada alcune persone che
parlano di dirottamento.
“Cosa vuol dire?”
”Vuol dire che qualcuno ha costretto il pilota a cambiare strada.”
“E chi voleva cambiare strada, per andare dove?”
Interviene mia figlia:”Forse il pilota è come me mamma, era al suo
primo giorno di scuola di pilotaggio e ha sbagliato”.
“ Forse, amore, forse.”
E intanto, camminando per strada con le bambine per mano, comincia a
salirmi dallo stomaco una sensazione fortissima, che non so perché
arriva da lì, invece che dal cervello: è la sensazione che tutto
quello che sto facendo non abbia alcun senso.
Torniamo a casa, incontro il mio vicino, un uomo intelligente e
sensibile. Ha sentito e visto tutto, è sconvolto. Gli chiedo di
aspettare che le bambine entrino; non so perché, ma sento il bisogno
di tenerle all’oscuro. Mi racconta qualcosa: gli aerei, le vittime,
le reazioni. Arriva la mamma di una delle bambine, ha le lacrime agli
occhi, dice che questo weekend le porta al mare. Guardo i suoi occhi,
e quelli del mio vicino, forse sto cercando quel sottile velo di
indifferenza che in fondo in fondo ci accompagna quando commentiamo
anche i crimini più efferati. Ma trovo solo terrore. E anch’io devo
avere la stessa espressione.
Chiamo mia mamma, è andata a trovare sua sorella a Stresa, le chiedo
come sta. Chiamo mia sorella, suo marito doveva partire oggi per il
Libano. Non è partito; suo padre però lo credeva già a Beirut, ha
trovato il cellulare spento e gli ha lasciato un messaggio: “Ciao
Paolo, sono il papà, se trovi gli aeroporti chiusi prendi una nave e
torna a casa”. Chiamo mio marito, dice che torna presto, e , quando
entra in casa, ha lo stesso sguardo del mio vicino.
Guardiamo lo zaino nuovo di nostra figlia, attacchiamo le etichette ai
quaderni , chiedo a mio marito di non parlare, di aspettare che lei
vada a dormire. La bacia mille volte. Poi, lei va a letto; non abbiamo
fame, sprofondiamo nel divano, accendiamo la televisione. E quella
sensazione che arriva dallo stomaco cresce, mi domando in una sera il
senso di un odio che credevo non potesse esistere, e di quale altro
odio procurerà questo odio, e chi saranno le prossime vittime.
E mi chiedo anche come posso accompagnare mia figlia nel mondo dei
grandi, se io e gli altri adulti oggi ci guardavamo come bambini persi
in un supermercato. La stessa paura di bambini che mi sembra di vedere
anche negli occhi degli intervistati e dei cronisti. E mi domando come
potrò proteggere mia figlia se io non sono nemmeno in grado di
proteggerla dalle paure della sua mamma.
La mia generazione - quella nata negli anni Sessanta - non ha mai
visto niente di così drammatico così da vicino, è cresciuta con un’idea
di guerra dell’altrove.
Vado a dormire quando ne so abbastanza; la moviola non mi interessa,
il silenzio amplifica il dolore. Se polverizziamo l’impatto emotivo
in troppi dettagli (le strutture, l’ora dell’impatto), alla fine
rischiamo di assuefarci e di dimenticare che l’unica cosa importante
da capire oggi è il senso profondo di una così devastante azione
umana.
12 settembre 2001. Secondo giorno di scuola. Mia figlia è contenta
del suo nuovo zaino e non vede l’ora di usarlo, se lo trascina per
strada come un fardello. L’accompagno, lei entra in classe, io torno
a casa, rifaccio i letti, mi siedo e, finalmente, piango.
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