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Da Hollywood, istruzioni per l'uso?



Paola Casella




Quante volte è successo, in un disaster movie hollywoodiano, che terroristi di varia provenienza geografica e persuasione ideologica prendessero di mira i cosiddetti landmark, cioè gli edifici simbolo, delle metropoli americane? Il fatto che a mettere in scena la distruzione di quei landmark , con il massimo dispendio di effetti speciali, siano stati gli stessi americani - e del resto nessun altro si sarebbe concesso una simile libertà - simboleggia il misto di spacconaggine e di scaramanzia con cui l'America, nel sapersi target possibile, affrontava la paura dell'attacco sul suolo domestico.

All'indomani della tragedia, quello commesso dalla mecca del cinema appare quasi un peccato di hybris. Di più: come la pericolosa codificazione di un immaginario collettivo che si è trasformato da fantasia (anzi, fantascienza) in realtà. Una codificazione simbolica che, travalicando i confini Usa, ha raggiunto coloro che se ne sono poi serviti per rendere particolarmente efficace, a livello massmediatico, le proprie azioni.

Sarebbe semplicistico implicare che Hollywood abbia, con leggerezza e incoscienza, fornito ai terroristi l'imbeccata, per non dire il libretto di istruzioni, su come mettere in scena un attentato in grado di monopolizzare l'attenzione del mondo, rendendolo istantaneamente riconducibile a un archivio iconografico ormai globalmente assimilato. Tantopiù che si rischierebbe di concludere che gli americani "se la sono cercata", con la stessa gretta logica colpevolista che trasforma una minigonna nella giustificazione di uno stupro.

Ma è altrettanto difficile non tracciare un collegamento immediato fra la sequenza del secondo scontro fra il Boeing e la torre gemella, programmato a 18 minuti di distanza dal primo in modo che tutte le televisioni del mondo potessero mandarlo in onda in tempo reale, e le tante scene analoghe viste nei disaster movie, nei thriller, nei film di fantascienza e persino nelle parodie hollywoodiane che hanno utilizzato l'attacco ai landmark americani precisamente per la sua valenza simbolica e spettacolare. Quelle scene hanno conferito un grandeur all'attentato alle torri gemelle e al Pentagono che di certo non è dispiaciuto a chi conferisce grande importanza al superomismo delle proprie azioni.

Soprattutto visto che la firma di quell'attentato appare senz'altro estranea alla cultura americana. E grande importanza riveste, secondo il codice hollywoodiano, l'estraneità del terrorista cinematografico all'America anglosassone e protestante, quella della palizzata bianca. Non è un caso che molti film recenti che ipotizzavano la distruzione dei principali landmark americani (da Indipendence Day a Mars Attacks!) ne identificassero come responsabili gli extraterrestri, altrimenti detti alieni, ben sapendo che qualsiasi residente in suolo statunitense non nato in loco e non naturalizzato americano viene definito "alieno".

La differenza sta solo fra alieni illegali, cioè quelli entrati abusivamente nel Paese, e alieni legali, cioé in possesso di regolare permesso di lavoro e soggiorno, ma non ancora americani a pieno titolo. A questo proposito ricordiamo che due film recenti, Green Card dell'australiano Peter Weir e Dancer in the Dark dello danese Lars Von Trier, hanno messo in chiara evidenza le ipocrisie e le contraddizioni di un sistema di accoglienza degli immigrati che passa repentinamente dalla benevolenza alla condanna inappellabile. Da Die Hard 3 a Air Force One a The Peacemaker fino all'ultimissimo Codice Swordfish, gli alieni - russi, bosniaci, ceceni - sono i nemici dell'American way of life, e quindi perfetti avversari da grande schermo. Da loro ci si aspettano azioni terroristiche e variamente criminali, proprio in quanto corpi estranei.

E arriviamo a considerare la matrice islamica del recente attacco ai landmark americani, collegandola per un momento alla caratterizzazione standard dell'arabo nel cinema americano: quasi sempre un imbroglione sudaticcio e malvestito - un esempio per tutti è il ladruncolo del cartone animato Aladino, che come tutti i cartoon, specie quelli quintessenzialmente yankee della Disney, è uno stereotipo così greve che la comunità araba, all'epoca dell'uscita di Aladino, aveva inoltrato protesta formale alla Anti Defamation League, chiedendo e ottenendo la modifica di un paio di battute della canzone cantata dal personaggio, che definivano gli arabi come ladri e barbari. E' dai tempi del Ladro di Baghdad che l'arabo a Hollywood viene rappresentato come un untuoso sbruffone: tanto che, all'indomani della Guerra del Golfo, lo stesso Saddam Hussein veniva trasformato in un cialtrone da operetta nella parodia Hot Shots!.

Il terrorista arabo del grande schermo americano, invece, oltre che infido e sudaticcio, diventa temibile, invece che ridicolo. In Vivere e morire a Los Angeles come in Ritorno al futuro, in Black Sunday come in True Lies, i terroristi arabi fanno paura, e, come i mafiosi del Padrino, meritano in qualche modo rispetto. All'inizio di Navy Seals e di Attacco al potere, (il film che più da vicino ricorda gli eventi degli ultimi giorni) c'è una scena nella quale un personaggio americano incontra un leader islamico ritenuto il mandante di alcuni atti di terrorismo, e in entrambi i casi è il leader islamico, a dominare la conversazione, a incutere timore nel suo interlocutore yankee.

Se davvero l'attentato alle torri gemelle e al Pentagono è di matrice islamica, non possiamo non osservare che è stato condotto secondo tutte le regole hollywoodiane, e in piena conformità alle aspettative del pubblico occidentale: con grande spettacolarità, mirando all'obiettivo più alto e più visibile, e rafforzando, presso tutti gli "spettatori" occidentali e soprattutto quelli americani, lo stereotipo cinematografico dell'arabo sanguinario (vedi il dettaglio dell'utilizzo di coltelli e temperini) selvaggio ma temibile, deprecabile ma, come Don Vito Corleone, capace di incutere un perverso tipo di rispetto.

Un'ultima considerazione sottolinea quanto la linea di demarcazione fra cinema e realtà, fra Hollywood e gli ultimi fatti di cronaca, sia sempre più labile. Nei più recenti film hollywoodiani il ruolo del presidente americano è sempre ricoperto da un attore di primo piano, persino nelle commedie. Pensiamo a Harrison Ford (Air Force One) ma anche a Jack Nicholson (Mars Attacks), a Michael Douglas (Il presidente americano) e a John Travolta (Primary Colors). Se non è una star, il presidente del grande schermo americano è perlomeno la quintessenza del wasp (vedi Donald Pleasance) o anche un nero, ma molto carismatico (Morgan Freeman in Deep Impact, che pronunciava eroicamente il suo discorso alla nazione stando in piedi sulle macerie della Casa Bianca).

Persino un presidente anonimo come Bill Pullman in Independence Day, scritturato appositamente per non fare ombra alle vere star del film (Will Smith e Tommy Lee Jones), aveva più presenza mediatica di George Bush Jr. Così la CNN, in piena tragedia,non ha trovato di meglio che riesumare un vecchio discorso alla nazione di Ronald Reagan, e l'impressione, da spettatore, è stata che fosse stato ripescato non in quanto presidente dei mitici anni Ottanta - quelli forti, quelli decisionisti - ma in quanto l'unico, nella storia recente, dotato del fisico del ruolo, e del background professionale per risultare convincente nell'interpretazione.

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