Budapest 1956, la forza delle
illusioni
Antonio Carioti
I sogni muoiono all’alba č il titolo del testo teatrale
sulla Rivoluzione ungherese scritto da Indro Montanelli, testimone
diretto dei fatti. Un titolo azzeccatissimo. Ci volevano davvero dei
sognatori incorreggibili come gli insorti di Budapest per credere che
nel 1956, con la guerra fredda in corso, fosse possibile staccarsi dal
blocco sovietico per costruire un socialismo democratico e umanitario.
Eppure, nonostante l’atroce smentita dei fatti, ci furono in quel
Paese sventurato uomini che, anche dopo la disfatta, non rinunciarono
a illudersi.

Uno di loro era Miklós Vásárhelyi, scomparso quest’estate a
Budapest dopo una vita passata a credere in un futuro migliore e a
lottare per realizzarlo, senza mai darsi per vinto. Era l’ultimo
sopravvissuto tra gli imputati del processo intentato nel 1958 contro
i dirigenti della rivolta. Alcuni suoi compagni di sventura, tra cui
il leader ungherese Imre Nagy, vennero condannati a morte e impiccati.
Vásárhelyi, che aveva avuto un ruolo secondario, se l’era cavata
con qualche anno di carcere e la lunga emarginazione sociale
inflittagli dal regime installato al potere dai carri armati di Mosca.
Ma si era rifiutato d’imparare la lezione.
Per una curiosa coincidenza, era nato a Fiume, allora compresa nella
parte ungherese dell’impero asburgico, nell’ottobre del 1917,
pochi giorni prima che i bolscevichi prendessero il potere in Russia.
L’infanzia l’aveva passata sotto la sovranitŕ italiana, dopo l’annessione
al regno sabaudo della cittŕ adriatica, che all’epoca era un
autentico crogiolo di popoli e lingue. A un bimbo come il piccolo
Miklós poteva capitare di parlare ungherese con i genitori, di
studiare in italiano a scuola, di comunicare in croato con i
negozianti al mercato, di imparare il tedesco dalla governante di
casa.
Piů tardi la sua famiglia era tornata in Ungheria, allora governata
dal regime autoritario e conservatore di Miklós Horthy: un ammiraglio
senza flotta, finito paradossalmente a capo di un Paese che, dopo la
prima guerra mondiale, aveva perso ogni sbocco al mare. L’atmosfera
era stantia, soffocante. E Vásárhelyi, temperamento ribelle, aveva
deciso di studiare all’universitŕ in Italia, dove si trovavano
alcuni suoi cugini. Rispetto al clima stagnante di Budapest, lo
attirava l’apparente dinamismo del regime di Mussolini. Ma la sua
infatuazione per il duce durň poco, anche se fece in tempo a
inneggiare alla conquista dell’Etiopia, con tutti gli altri studenti
precettati in Piazza Venezia, nel maggio 1936.
Rientrato nuovamente in patria, aveva cercato a sinistra una risposta
piů soddisfacente alle sue inquietudini. E nel 1939, alla vigilia
della nuova tragedia che avrebbe scosso l’Europa, si era iscritto al
Partito comunista clandestino. Erano poche centinaia di militanti, ma
destinati a governare il Paese dopo che l’Ungheria, prima alleata
del Terzo Reich e poi ridotta da Hitler a semplice satellite, venne
investita dalla controffensiva impetuosa delle truppe sovietiche, un
po’ liberatrici e un po’ occupanti.
Sembrň allora a Vásárhelyi che le sue aspirazioni di giustizia e
uguaglianza potessero avverarsi. Invece sul popolo magiaro calň la
cappa di piombo di uno dei regimi piů rigidamente liberticidi dell’Est
europeo. Ma non era facile accorgersene per un giovane abituato a
portare il paraocchi dell’ideologia. “Ancora oggi - avrebbe
confessato nel 1996 a Federigo Argentieri - il peso dei miei anni
staliniani grava sulla mia coscienza”.

Un primo barlume di speranza tornň dopo la morte di Stalin, quando la
guida dell’Ungheria venne assunta dal riformista Nagy, di cui
Vásárhelyi diventň collaboratore. Poi perň nel 1955 la vecchia
guardia del partito aveva ripreso il sopravvento. Finché nel 1956 l’insurrezione
spontanea del popolo di Budapest non spazzň via tutta l’impalcatura
totalitaria, compresa la grottesca statua di Stalin, alta oltre venti
metri, eretta nel centro della capitale magiara.
Per pochi giorni tutto era sembrato possibile. Mettere insieme la
libertŕ e la giustizia, la democrazia e il socialismo, anche la piena
indipendenza nazionale. Troppo bello per essere vero. Poi, la
tragedia: l’invasione sovietica, la disperata resistenza, un pesante
tributo di sangue. Nagy e gli altri capi riformisti, Vásárhelyi
compreso, furono arrestati e sottoposti a un processo farsa, con un
verdetto crudele e aberrante. Infine venne la grigia normalizzazione
pilotata da János Kádár, il leader portato al potere dall’Armata
rossa, che dopo l’iniziale stretta repressiva cercň di trovare un
compromesso con la popolazione, attraverso concessioni parziali e
riforme di facciata.

Anche a Vásárhelyi, amnistiato nel 1960, qualcosa era stato
permesso. Un lavoro per sbarcare il lunario l’aveva trovato. Gli
consentirono perfino, negli anni Settanta, di recarsi in Italia per
svolgere degli studi. Anzi avrebbero preferito che nel nostro Paese
chiedesse asilo politico, togliendosi definitivamente di torno. Ma lui
sentiva il dovere di rimanere in patria, di impegnarsi per mantenere
vivo il ricordo del 1956 e per raccontare dovunque gli fosse possibile
la veritŕ sugli avvenimenti di cui era stato testimone e attore,
stravolti in modo vergognoso dalla propaganda ufficiale.
La sua prima testimonianza diffusa in Italia, una lunga intervista ad
Argentieri, uscě in volume nel 1988, lo stesso anno in cui Kádár fu
costretto a cedere il timone. L’anno dopo cadde il regime. Poi un
altro colloquio venne incluso sempre da Argentieri in appendice al suo
saggio “La rivoluzione calunniata” del 1996. Entrambe le
interviste, con ulteriori materiali, sono poi state riunite nel libro
“Verso la libertŕ”, pubblicato da Rubbettino nel 1999. Si tratta
non solo di un documento storico rilevante, ma soprattutto del
resoconto sincero di un individuo in pace con se stesso. La solenne
sepoltura di Nagy e degli altri martiri della Rivoluzione, il 16
giugno 1989, era stata la grande rivincita di Vásárhelyi.
Purtroppo, come capita spesso nella storia, al valore di chi si č
battuto per un ideale corrisponde l’ingratitudine di chi non ha
avuto lo stesso coraggio. Paradossalmente nell’Ungheria
postcomunista il 1956 č un ricordo scomodo. Lo č per una sinistra
composta in gran parte di reduci della dirigenza kadariana. Lo č
ancor piů per una destra ostile agli ideali socialisti cui s’ispiravano
in maggioranza, come riconobbe onestamente proprio il conservatore
Montanelli, gli insorti di Budapest.
Gli ultimi anni di Vásárhelyi sono stati cosě turbati da polemiche
meschine, verso di lui e verso il centro di ricerche storiche sulla
Rivoluzione che dirigeva. Bassezze indegne perfino di essere
menzionate, se non fossero una prova di quanto la politica spicciola
possa essere matrigna verso chi ha contribuito a scrivere la storia.
Eppure l’ultimo messaggio di Vásárhelyi resta un appello alla
fiducia nell’umanitŕ. “La grande illusione - ha scritto evocando
il famoso film di Jean Renoir - č il presentimento del futuro, la
veritŕ ultima”. Non si potrebbe sintetizzare meglio la lezione del
1956 ungherese, insurrezione sconfitta ma feconda.
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