Horcynus Orca
Francesco Roat
I romanzi più belli, i capolavori, i testi maggiormente significativi
della nostra letteratura si dovrebbero sempre trovare in libreria o
quantomeno - se esauriti - sarebbe opportuno ristamparli. Purtroppo
ciò non accade con la dovuta sollecitudine e troppi sono i libri
finiti nel dimenticatoio delle Case Editrici. Uno di questi, che
vorrei ripubblicato al più presto, è Horcynus Orca, di
Stefano D’Arrigo. Si tratta, a mio parere, di un’opera
eccezionale, da collocare non solo tra le prose più notevoli del
Novecento italiano, ma dell’intera produzione letteraria europea del
XX secolo. Un romanzo che - per eccellenza di scrittura, creatività
inventiva, originalissimo registro stilistico - andrebbe collocato
accanto all’Ulisse di Joyce, alla Ricerca del tempo
perduto di Proust, all’Uomo senza qualità di Musil.

Sfortunatamente, invece, se andate in libreria vi
diranno che, di D’Arrigo, la Rizzoli ha appena edito I giorni
della fera, che rappresentano la prima stesura dell’Horcynus
Orca, uscito presso Mondadori nel lontano 1975 e poi riproposto
anni dopo negli Oscar, però oggi introvabile. Sarà che si tratta di
un romanzo fiume (il testo è di ben 1257 pagine), scritto in una
lingua che è un mix audace di italiano, dialetto siciliano, più una
serie mirabolante di neologismi e invenzioni lessicali. Sarà che l’autore
non ha pubblicato molto altro, tranne l’altrettanto introvabile ed
eccentrico romanzo Cima delle nobildonne (pure quello giacente
presso il dimenticatoio Mondadori), il quale - magari associato all’Horcynus
- meriterebbe senz’altro di uscire nei “Meridiani”. Sarà che i
libri d’ampio respiro, i quali necessitano di una lettura attenta ed
impegnativa, hanno poco mercato.
Ma veniamo al romanzo, la cui gestazione ha impegnato D’Arrigo per
un periodo lungo quindici anni, fra tagli, aggiunte (soprattutto
aggiunte) e rielaborazioni. Il risultato è insieme un romanzo epico,
visionario e d’introspezione che ha per protagonista il “nocchiero
semplice della fu regia Marina ‘Ndria Cambría”, in fuga dalla
guerra dopo l’8 settembre ’43 per far ritorno alla natia Sicilia.
Ma non vi sarà nóstos, rimpatrio pacificante per questo
anti-Ulisse. A parte la metamorfosi negativa che gli pare abbia mutato
- stravolgendola - l’isola tutta e i “pellisquadra”, i suoi
vecchi compagni pescatori, un inquietante segno premonitore appare
sullo Stretto: un’Orca marina agonizzante, simbolo di morte e
devastazione. Cifra di quell’ineluttabile volto oscuro e distruttivo
dell’esistenza, ma insieme del suo limite e della sua finitudine.
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