Quando Napster non esisteva ancora
Ludovica Valori
Non e’ mai stata un semplice sottofondo, la musica. Anche mio
malgrado, data la mia propensione a imparare a memoria in maniera
quasi autistica i testi, e a ricordarmeli poi per anni, pur non
cantandoli mai neanche sotto la doccia. Prima di addormentarmi, mi
risuonano in testa, incontrollabili.
Tutto sommato questo e’ abbastanza diffuso nella generazione dei
famigerati “trentenni”, nata e cresciuta attaccata alla radio e
allo stereo, per poi vedere l’avvento della TV commerciale e, un po’
piu’ tardi, del computer e di Internet.

Abbiamo percorso una strada segnata da alcuni grandi
cambiamenti: adesso le innovazioni tecnologiche sono tante e si
susseguono con una velocita’ tale da lasciarci praticamente
indifferenti, ma allora si puo’ dire che fossero dei traumi. Sembra
davvero remota quell’epoca in cui molti non avevano la TV - a noi la
comprarono solo dopo grandi insistenze di mio fratello - e il computer
non si sapeva neanche cosa fosse… ma c’era lei, la radio: c’erano
le “Hit-parade” dei 33 giri e dei singoli.
Le ascoltavamo sempre: mio fratello ne ricopiava diligentemente i
risultati, se ne discuteva e si creavano altre classifiche secondo i
nostri gusti. Un po’ mi facevo influenzare, ma volevo conoscere
tutto e tutti. Leggevamo “Ciao 2001” come fosse un testo sacro,
avidamente, senza saltare neanche un articolo.
Non amai molto Renato Zero nonostante l’entusiasmo di una delle
nostre prime domestiche, una “sorcina” sfegatata. Passavamo lunghi
pomeriggi nella casa trasteverina di una cara baby-sitter che ci
faceva ascoltare Lucio Dalla e Gaber: la sua “Giotto da Bondone”
era la mia preferita, non smettevo di piegarmi dalle risate anche se
capivo la decima parte di quel che diceva.
Quando mori’ John Lennon fu una gran brutta giornata. Era vacanza, l’otto
dicembre: i nostri genitori ci portarono a fare un giro per l’Appia
Antica: c’era un gran nebbione, cosa strana per Roma. Uno dei primi
dischi che avevamo ascoltato sul giradischi dei “grandi”, un
Brionvega marrone e squadrato (solo attorno ai tredici avemmo uno
stereo per noi: anzi, prima ne ebbe uno mio fratello, poi io), era
stato Abbey Road dei Beatles. Avevamo anche Hey Jude,
che a un certo punto misteriosamente si ruppe: un’altra tragedia!
Ai tempi della scuola media era gia’ beatlesmania totale, complice l’amicizia
con una ragazzina da tempo innamorata di loro. Studiai l’inglese
anche per poter capire le loro canzoni: con i risparmi compravo i loro
dischi uno ad uno, consumandoli come avevano fatto prima di me
migliaia di altre ragazzine. Il mio primo 45 giri, pero’, fu Video
killed the radio star dei Buggles: rimase al primo posto in
classifica per non so piu’ quanto tempo.

Cominciavano gia’ ad apparire in TV i primi “videoclip”.
Di li’ a poco sarebbe nata “videomusic”, il primo canale
dedicato esclusivamente ai video. Ci avrei speso davanti ore e ore, in
quei periodi estivi in cui si sta a casa aspettando di partire per le
vacanze e il tempo non passa mai.
Tra gli italiani il mio idolo era Edoardo Bennato: nella lunga
distanza pero’ vinsero i quattro di Liverpool, forse perche’ si
sciolsero in tempo (i giudizi dei fan sono sempre spietati, non c’e’
niente da fare). Mio fratello, dal canto suo, scopri’ Battiato molto
prima del grande pubblico: quando usci’ La voce del padrone,
a casa gia’ non ne potevamo piu’. Pero’ noi fratelli piccoli gli
riconoscemmo una gran competenza.
Studiavo faticosamente il pianoforte, e in parallelo alle passioni
pop-rock avevo le mie piccole preferenze in fatto di classica. Agli
inizi il favorito era Beethoven, col tempo arrivarono Debussy, Ravel e
Gershwin, infine una tarda, illuminante riscoperta di Bach. Anche
Rachmaninov ha avuto dei bei momenti: prima del film Shine, sia
chiaro…
Con l’adolescenza si passo’ alla musica piu’ ballereccia: si
andava col branco in discoteca il pomeriggio, spesso di nascosto di
mamma e papa’. Pieni anni ’80: alcune cose le salverei ancora oggi
a pieni voti: Talk Talk, Howard Jones, Culture Club, Depeche Mode,
Paul King, Dead or Alive, Tears for Fears, e poi Peter Gabriel, Cure,
David Bowie, Simple Minds… non frequentavo discoteche alternative o
darkettone, anzi: ero nel pieno della “febbre da identificazione nel
gruppo”, piumini, Levis 501 e quella roba li’, pero’ i gusti
musicali, attenzione!… Ascoltavo di tutto, ma avevo gia’ chiare le
mie idiosincrasie: ad esempio, Michael Jackson. Neanche con tutta la
buona volonta’ mi e’ mai riuscito di apprezzarlo. Anche i Dire
Straits, per dirne un’altra, entusiasmo zero.
Ci fu l’epoca della grande diatriba tra Duran Duran e Spandau Ballet;
non mi appassiono’ molto anche se, dovendo scegliere, avrei
parteggiato per i secondi: per me i piu’ grandi rimanevano i Police.
Difatti il primo concerto che andai a vedere fu il loro, al Palaeur
per il “Synchronicity tour”, l’ultimo LP prima dello
scioglimento: 1983, se non sbaglio. Seguii Sting anche dopo, e non
senza soddisfazioni. Ma era gia’ un’altra cosa.
L’impegno “politico”, gli scioperi a scuola e le manifestazioni
erano gli U2 di Sunday bloody sunday. I Clash, un po’ di
striscio. Lo ska, divertente, ma piu’ di tanto non mi emozionava.
Negli anni seguenti approfondii Pink Floyd, Doors, Genesis, Rolling
Stones, Bob Dylan e altri grandi nomi del passato. Springsteen evocava
grandi spazi accompagnandoci nei primi viaggi “da soli”, mentre
Bob Marley riemergeva, spesso e volentieri, nei momenti di maggiore
tranquillita’.
I Pogues erano l’Irlanda, c’ero stata da piccolissima ma me la
ricordavo bene, gli Smiths l’Inghilterra: Londra in particolare,
dove si andava a studiare la lingua senza pero’ imparare granche’.
Mi piaceva molto anche Madonna (misteri dei gusti musicali!…). Andai
a vederla a Torino, nell’87, sfidando le ire di mia madre.
Poi arrivo’ il jazz. Frequentai un corso organizzato durante il
festival Umbria Jazz dal Berklee college of music, a Perugia, nel
luglio dell’89: un mondo che non conoscevo quasi per niente (mi ci
trascinarono alcuni compagni di scuola che avevano messo su un paio di
gruppi), suonai forse quattro note in tutto il corso e dormii molto
poco. Ho ancora la T-Shirt con la lista dei concerti piu’
importanti, tipo Miles Davis, Dizzy Gillespie, Stan Getz… li vidi
tutti. La notte, lungo il corso di Perugia e nella piazza dei Priori,
era tutto pieno di musicisti di strada. Fu una splendida estate.

Tornata a casa, divorai Thelonius Monk e Charlie
Parker, ancora oggi i miei preferiti in assoluto assieme a Mingus e
Coltrane, che arrivarono poco dopo. Le voci di Billie Holiday e di
Chet Baker accompagnarono non poche nottate. Il virus del jazz
contagio’ presto mio fratello minore, che ancora oggi non da’
alcun segno di guarigione. Quello grande rimase invece sul rock
cantautoriale, con qualche incursione nel liscio e nel pianobar “per
guadagnarsi la pagnotta”.
Quanto a me, assieme ai primi impegni lavorativi arrivo’ anche Paolo
Conte: la sua “verde milonga” suonava sulla segreteria telefonica
del primo studio di pubblicita’ in cui capitai per imparare i
rudimenti del mestiere (soprattutto del computer): passai li’ giorni
e notti, in compagnia della musica dell’avvocato di Asti. Poi, per
circa un anno, condivisi un seminterrato con alcuni amici illustratori
come me. Era una continua disputa per decidere chi doveva scegliere la
musica da ascoltare mentre si disegnava: uno era amante dell’acid
jazz, un altro voleva i Nirvana, un terzo i Faith No More e un altro
ancora il rap. Io ascoltavo tutto, come una spugna.
Tom Waits mi fu vicino in tempi di sofferenza fisica e morale. Con i
Negresses Vertes mi decisi a imparare il francese. Lavorai in un pub
spagnoleggiante per una lunga stagione e da allora non posso piu’
ascoltare i Gypsy Kings senza rivedermi davanti i tavoli pieni di
gente da servire.
Anni ’90: dai viaggi nei Balcani riportai forti impressioni e
contatti con culture e musiche diverse; usci’ il film Underground,
e la musica delle bande slave fece girare la testa a parecchi. Nello
stesso periodo misi sotto i denti un CD - ormai da tempo si era
affermato questo standard: non piu’ il vinile nero, cosi’
sostanzioso e pesante, tutto da maneggiare, leggere e rivoltare, ma un
astuccetto di plastica con dentro un tondino dorato dai riflessi
arcobaleno, indistruttibile, fedelissimo, ma tanto freddo… - di “Musica
tradizionale Yiddish dall’Europa Centrale”. Il klezmer, un’altra
scoperta. Lo ascoltai miliardi di volte. Passare ore e ore a lavorare
con la musica: uno dei (pochi, in realta’) vantaggi dell’essere
liberi professionisti e del lavorare in casa.
Stava scoppiando la febbre della World Music, quella stessa febbre che
infiamma oggi le platee nostrane. Etno dappertutto, etno soprattutto:
un arcobaleno di sapori esotici per palati sempre piu’ golosi. Il
mio non si sottrae all’abbuffata, anche se con qualche distinzione
(confesso che non riesco ad amare la pizzica!). La diffusione dei
masterizzatori, assieme a Internet, l’Mp3 e i programmi come Napster,
hanno reso tutta la musica accessibile a tutti: una gran cosa, ma
anche un delirio continuo, un’ansia da duplicazione e download che
non si riesce ad appagare, mai.
E’ piu’ difficile parlare della musica degli ultimi anni, c’e’
meno distacco: oltretutto una serie di avvenimenti ha fatto si’ che
riprendessi a suonare, rimanendo ancora piu’ invischiata nella
faccenda. Posso soltanto dire che negli ultimi due anni e’ stato
tutto un rincorrersi di musica latinoamericana - che prima non amavo
affatto - e klezmer-balcanica, che continuo ad amare; infine, una
menzione speciale per Kurt Weill e Nick Drake, per Fossati, De Andre’
e Capossela tra gli italiani, e per la musica di improvvisazione “totale”:
ma questa e’ una storia che si potra’ raccontare solo tra qualche
anno.
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