Il grande Jazz a Roma
José Luis Sànchez-Martìn
Tutti concentrati in pochi giorni, Roma ospita alcuni dei nomi più
illustri della scena jazzistica mondiale, nomi del calibro di Chik
Corea, Joshua Redman, Branford Marsalis, Uri Caine, Herbie Hancock ma
anche eccellenti jazzisti italiani come Paolo Fresu, Roberto Gatto,
Danilo Rea ed Enrico Rava, che nelle tre principali iniziative
musicali dell’Estate Romana, vale a dire “Jazz in Campidoglio”,
“Fiesta” e “Caracalla Festival”, per non parlare della
rassegna jazz per antonomasia “Jazz & Image” dove si sono
esibiti mostri sacri come Dave Holland e Jack Dejohnette, hanno
richiamato fortemente l’attenzione del pubblico romano.

Rappresenta un caso a parte l’iniziativa “Jazz in Campidoglio”
voluta dal Comune di Roma e dal Sindaco Veltroni con il sostegno della
Fao per poter offrire ai cittadini un momento di alto livello
artistico che non fosse appannaggio d’un'elite o economicamente
proibitivo ma che al contrario facesse convivere la qualità della
proposta, per l’appunto Chik Corea e Joshua Redman, accanto ad una
grande partecipazione popolare, gratuita e aperta a tutti, nella
splendida cornice di Piazza del Campidoglio. Purtroppo nella realtà
non è successo perchè la vera platea è tutta riservata agli inviti,
e il vero pubblico è stato relegato solo agli spazi marginali e
laterali della piazza, con un’amplificazione non all'altezza e
predisposta solo a favore della platea dei VIP.
La rassegna si apre con Chik Corea, gigante del pianoforte, grande
ricercatore sonoro, musicista e compositore poliedrico emerso alla
fine degli anni Sessanta, quando suonava assieme a Miles Davis, il
Nume e l’autentica pietra angolare del jazz, maestro imprescindibile
di tutti i grandi jazzisti di oggi, dei quali assume la visione
complessiva della musica intesa come indagine senza confini stilistici
aperta alle suggestioni e alle contaminazioni di altre forme e generi
da ospitare e rielaborare in modo del tutto nuovo e originale. Non a
caso Chik Corea ha recentemente collaborato con la London Philarmonic
Orchestra.
La sua cifra musicale gira intorno a due forti componenti, da una
parte il lirismo mediterraneo, essendo Corea di origine spagnola, e
accanto a questa la sperimentazione afroamericana sulle quali egli
intarsia in modo sempre molto lucido il proprio discorso espressivo
musicale. La formazione proposta in questa occasione è il classico
trio (pianoforte, contrabbasso, batteria) con due giovani e
strabilianti musicisti, il contrabassista Avishai Cohen e il
batterista Jeff Ballard, membri stabili del sestetto Origin di cui
Corea è il leader fondatore.
Come omaggio al grande Miles Davis, Chik Corea apre il concerto con
due sue storiche composizioni, prosegue poi con il proprio repertorio
fino a un ultimo vero e proprio canto delle origini, Spain, che
il pubblico saluta come fosse la canzone clou di un cantante rock. Nei
bis Corea si trasforma in maestro di coro facendo intonare a tutto il
pubblico, suddiviso in tre gruppi vocali, motivi base, a formare una
sorta di arpeggio o di accordo: inutile dire quanto ciò infiammi gli
spettatori.
Sempre nella stupenda piazza si è tenuto il concerto di Joshua Redman,
sassofonista acrobatico ed elegantissimo che ad appena trentatrè anni
si trova ad essere considerato un capofila del mainstream
americano (a ventuno era già stato insignito del Thelonius Monk
Competion Award). Redman suona disinvoltamente e con cognizione di
causa tutte e tre le classi del sax - tenore, contralto e soprano -
con assoluta pertinenza musicale, senza sfoggio eclettico, e lo fa
sfruttando fino in fondo le possibilità espressive timbriche
offertegli dallo strumento.

Con una predilezione per sonorità levigate e concise, un suono “pulito”,
Redman gestisce in modo creativo il gusto per la melodia, per il “cantabile”,
attraversando territori in apparenza lineari e definiti ai quali però
nelle sue volute improvvisative conferisce man mano profondità,
ponendo incognite e sospensioni fortemente emotive che coinvolgono lo
spettatore in uno stato di leggera ipnosi. Ad eccezione del brano di
apertura tratto dal musical Oklahoma Redman esegue tutti brani
originali; uno addirittura, eseguito in prima mondiale, è talmente
recente che ancora non ha titolo, così racconta sorridendo al
pubblico rivelando che anche la formazione della serata (Gregory
Hutchinson alla batteria e Reuben Rogers al contrabbasso) è una prima
mondiale. Il concerto è un ventaglio delle fonti musicali alle quali
attinge o si ispira Redman e degli sviluppi che prendono sotto la sua
particolare vena, dal jazz classico, al blues, al funky alla musica
mediorientale e indiana, esibito con una semplicità e una naturalezza
propria dei maestri.
A “Fiesta” invece è salito sul palco il celebre Branford Marsalis,
figlio del grande vate del pianoforte Ellis Marsalis e fratello dell’ancora
più noto trombettista jazz ma anche stimato esecutore di musica
classsica Wynton col quale ha cominciato la propria carriera musicale
sotto i consigli e gli insegnamenti paterni, dapprima nel gruppo di
Art Blakey, i Jazz Messengers, e più tardi formando un quintetto
guidato dal fratello. La separazione fu causata del cantante rock
Sting, che chiamò Branford a suonare il sax per la sua tournée
mondiale di Dream of the blue turtles, scelta che contrariò
assai il fratello.
Nel 1984 è Miles Davis a volerlo con sè per il disco Decoy e
in seguito sarà Herbie Hancock, col cui quartetto girerà il mondo.
Noto in America anche per essere diventato un brillante showman
televisivo negli anni ‘90, Marsalis continua la propria attività di
compositore incidendo numerosi dischi per la Columbia tra cui, più
riconoscibile per il grande pubblico, va annoverata la colonna sonora
per il film di Spike Lee con Denzel Washington come protagonista Mo’
Better Blues.
Marsalis come Redman non è un innovatore in senso assoluto, la loro
peculiarità non è quella di aver costituito un genere musicale a sè,
rivoluzionando gli elementi esistenti e creandone nuovi, piuttosto
quello di aver saputo qualificare in modo personale quelli esistenti.
Anche riconducendosi apertamente nel solco del mainstream essi
hanno connotato un proprio stile personalissimo rielaborando e
componendo tra loro le differenti anime del jazz. Un concerto anche
questo che ha ampliamente corrisposto alle migliori aspettative del
pubblico che ha invocato con clamore, ottenendoli, vari bis.

L’ultimo degli appuntamenti, ma solo in ordine di tempo, di cui
parleremo è stato quello del decantatissimo pianista americano Uri
Caine, dotato di una formazione solida sia in ambito musicologico
accademico, sia in ambito strettamente jazzistico. Folgorato
giovanissimo dal genio di Glenn Gould e in particolare dalla sua
dirompente interpretazione delle variazioni Goldberg di Bach, le
stesse che oggi propone Uri Caine in questa azzardatissima e
interessante versione jazz, estende i propri interessi da subìto alla
musica di Oscar Peterson, Herbie Hancock, Cecyl Taylor, per citarne
alcuni.
Allievo di un singolare pianista francese, Peiffer, Caine matura ben
presto una propria cifra esecutiva e timbrica che lo rende in breve
tempo all’altezza di esporsi, suonando a fianco a giganti come
Freddie Hubbard o Joe Anderson. Risale al ‘93 le sua prima incisione
come solista, Sphere, alla quale segue nel ‘95 Toys e
infine nel ‘96, dopo essersi immerso nell’universo musicale di
Mahler, su insistenza del suo produttore Stefan Winter, Urlicht:Primal
Light che diviene un classico, e indica nuove direzioni per la
rilettura del repertorio classico. Vincerà di lì a poco il premio
Toblacher Kompanierhaus che viene di norma tributato alla migliore
esecuzione 'ortodossa’, tanto per dire quali siano le virtù
pianistiche e musicali di Caine.
In occasione del concerto romano alle Terme di Caracalla, Uri Caine
propone come anticipavamo una rilettura delle variazioni Goldberg di
Bach, nella ricorrenza dei 250 anni dalla morte che si festeggiarono
nel 2000, allontanandosi radicalmente dall’esecuzione canonica e
spingendosi verso un confine in cui l’opera del genio sfuma, si
confonde e si sposa con altre musiche e con altre tradizioni. Infatti,
nella genesi di questa operazione, nata coinvolgendo molti prestigiosi
musicisti (cori, archi, cantanti gospel, trombettisti jazz e molti
altri ancora, fino a DJ di fama) e concepita prevalentemente come
incisione work in progress, vi si trovano escursioni che
spaziano dalla musica antica alla contemporanea, dal klezmer ebraico
al ragtime, dal free jazz al mambo, fatti incontrare/dialogare con le
note di Bach secondo una scelta arbitraria quanto pertinente e non
casuale da un punto di vista della suggestione musicale di partenza.
Il risultato, a nostro avviso, non restituisce nella forma del
concerto dal vivo (che ospita soltanto alcuni degli strumenti presenti
nella registrazione, dal momento che nell’incisione ogni brano ha
una propria formazione strumentale autonoma) ciò che probabilmente
può invece provocare nell’ascolto del disco. Appare essere
fondamentalmente un tentativo di sottolineare nessi nascosti tra la
partitura bachiana e altre forme musicali, con un senso dell’umorismo
apprezzabile ma che presto cede il passo a una prevedibilità di
applicazione del criterio di sovrapposizione, sottraendo qualcosa alla
dimensione musicale anzichè approfondendola.
La maestria dei muscisti coinvolti è indubbia, tuttavia il loro
viaggio scorre parallelo, senza mai davvero incontrarsi in un ensemble
unitario e questo per un concerto jazz è una mancanza che si avverte
immediatamente e da quel punto di vista possiamo dire imperdonabile. C’è
virtuosismo, c’è perizia, ma anche un gusto di giocoleria ‘intermusicale’
che finisce quasi per assuefare lo spettatore, distraendolo dal
discorso vero e proprio con ghirigori non sempre necessari.
Si ha l’impressione che questo studio tolga da un lato qualcosa a
Bach, dall’altro qualcosa alle musiche chiamate in causa e infine
quella virtù propria al jazz di scavare nei meandri e negli anfratti
di un tessuto musicale, trovando soluzioni e possibilità nuove.
Peccato perchè il calibro di questo musicista faceva presagire un
piccolo capolavoro che invece non c’è stato.
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