
|
Haden torna a Roma
Andrea Di Gennaro
Con l’eleganza che ormai da tempo contraddistingue la sua
personalità e si riversa meravigliosamente nella sua musica, Charlie
Haden è salito sul palco di Villa Celimontana al termine di un
pomeriggio piuttosto turbolento per le defaillance di un’organizzazione
rea di alcune ingenuità. E non in grado di ospitare un musicista che,
“in cambio” della sua maestria, chiede un’ospitalità altrove
evidentemente concessagli con maggiore solerzia.
Durante una fugace cena nel verde del quartiere Aventino, Haden si è
addirittura concesso alle domande di alcuni cronisti piacevolmente
stupiti dal suo atteggiamento molto disponibile. Dichiarazioni a 360°
quelle del celebre contrabbassista che dalla fine degli anni ’50 non
ha mai smesso di contribuire agli sviluppi della musica jazz, sebbene
ami definirsi “una musicista con il compito di creare e far
apprezzare la bellezza”, non gradendo quindi molto l’appellativo
di jazzista.
Da sempre impegnato anche sotto il profilo socio-politico, Haden ha
sciolto le nostre remore nel chiedergli se possa essere questo un
momento storico in cui riproporre il contesto della sua celebre
Liberation Music Orchestra, che nel 1969 incise l’omonimo disco
proponendo una musica che portava con sé i germi della protesta,
ferventi in quel periodo. “La situazione è senza dubbio differente,
ma credo che ci siano tutti gli elementi che possano spingermi in una
tale direzione. Torneremo in tour, come due anni fa, e penso proprio
di registrare un altro disco”.
Parlando a ruota libera tanto del mercato discografico quanto della
globalizzazione e delle relative proteste di questi giorni, il
musicista naturalizzato californiano ha avuto anche parole dure nei
confronti di Bush, dei suoi vicini e della sua “distorta” visione
politica in merito agli armamenti: “noto degli atteggiamenti
fascisti in molti di questi uomini che sono attualmente al governo, e
che occupano un posto che hanno rubato” ha detto Haden, riferendosi
alle recenti vicende elettorali americane.
Ancora un’anteprima che farà di certo piacere ai tanti
appassionati, “a settembre uscirà un altro volume dei miei Montreal
Tapes, stavolta in duo con Gismonti” ha dichiarato con un demo
in mano e felice del fatto che alla domanda sono seguiti i complimenti
per le altre registrazioni live della stessa serie, alcune
delle quali in trio con Paul Motian alla batteria e Geri Allen al
piano.
Salito quindi sul palco e presentati i tre musicisti che da ormai
quasi un ventennio collaborano con lui nel “Quartet West”, Charlie
Haden ha subito dato l’idea di essere in buona forma nonostante sia
sempre costretto a suonare dietro uno schermo in plexiglas a causa di
disturbi all’udito; il repertorio è stato in gran parte lo stesso
che da tempo la band porta in giro per il modo, costituito da brani
tratti dal song-book californiano o da temi originali scritti ed
arrangiati sempre in quella chiave stilistica. Come ad esempio First
Song, composta per il disco in duo (Beyond The Missouri Sky
n.d.r.) registrato con il chitarrista Pat Metheny, e qui riproposta in
un arrangiamento che oltre a mantenere intatto lo spirito originale ha
fornito un avvincente apporto ritmico ed una coloritura vagamente
orchestrale.
La musica di Haden ha sempre espresso con evidente lirismo la sua vena
melodica fatta di note tanto quanto di silenzi; melodicità
percepibile e fruibile con facilità anche attraverso le maglie
armoniche molto larghe da lui stesso tessute e riempite dal panismo di
Alan Broadbent e dal sax tenore di Ernie Watts con la stessa
sobrietà. Il primo, sensibile alla delicatezza di certo Mahler dal
quale ha evidentemente appreso il gusto per i passaggi alternati tra
tonalità maggiori e minori e a cui ha saputo accostare pregevoli
fraseggi bluesy carichi di uno swing leggero; il secondo invece a suo
agio sia nella stesura di calde e levigate melodie, che nelle più
avanzate strutture modali come dimostrato con enorme personalità in Lonely
Woman di Ornette Coleman.
Un brano quest’ultimo, lontano dall’estetica dominante all’interno
del “Quartet West” ma di certo caro ad Haden data la sua lunga
militanza al fianco del sassofonista di “Free Jazz” e “This Is
Hour Music” a partire dal 1959. Nell’esecuzione a rimanere del
tutto inalterate sono state la sobrietà e l’eleganza timbrica dell’intero
quartetto, mentre a cambiare pelle è stata la struttura dell’offerta
musicale. Echi di un free jazz intimo e viscerale, anche se mai
urlato, hanno trovato la loro ottima sintonia con i pedali di basso
costantemente disegnati dallo stesso Haden, sempre forti di un intenso
portato ipnotico; il tutto votato a dare vita ad un corpus musicale
dalle tinte a tratti ancestrali in cui il tenore di Ernie Watts si è
potuto imporre come una voce che dal basso e con sicurezza sa
afffermare la sua presenza.
I tempi di marcia scanditi poi dalle bacchette di Larance Marable sul
rullante hanno completato quella “dissacrante” rilettura delle
radici del jazz che il movimento degli anni ’60 aveva portato a
compimento, e in maniera rudimentale teorizzato. Anche per il resto
del concerto l’apporto ritmico di Marable è risultato essenziale,
impregnato di scansioni blues e un fraseggio altamente swing, grazie
al sapiente gioco di accentazioni sul piatto e la cassa. Batterista
forse poco noto al grande pubblico odierno, lontano dai funambolici
virtuosismi di tanti giovani colleghi, Marable vanta collaborazioni
discografiche al fianco di Charlie Parker, e nella serata romana ha
costantemente unito un senso del relax tipicamente west-coast ad una
propulsione di stampo afroamericano.
In un paio di brani, tra cui la storica ballad Body And Soul,
è salita sul palco anche la moglie del leader, Ruth Cameron, vocalist
dall’impronta piuttosto attoriale anche in virtù dei suoi trascorsi
cinematografici. Anche dal vivo, come sul recente lavoro in studio, la
signora Haden non è sembrata dotata di mirabili qualità canore, e
questa mancanza ha inficiato una performance che comunque non voleva
avere nulla di pretenzioso. Anzi, risultata del tutto legittima
soprattutto alla luce delle esplicative parole dei due coniugi a fine
concerto: “…quello che più ci interessava era avere un tipo di
pronuncia e di fraseggio che avesse delle connotazioni al limite tra
la recitazione e il canto”.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da
fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio
Attualita' |
|
  
|