La voce di Bob Dylan
Francesco Moroni
La voce di Bob Dylan - Una spiegazione dell'America, Feltrinelli,
pagg.300, £ 28000
"Wordsworth e Shelley sono poeti. Ginsberg è un poeta. Io non
sono un poeta". Forse non basterà questa dichiarazione
rilasciata a Newsweek nel 1997 per troncare l'antica
disputa sulla reale collocazione di Bob Dylan nel panorama della
cultura mondiale. Ma chiedersi oggi se l'uomo di Duluth sia un poeta o
un semplice cantautore è veramente un esercizio sterile ed ozioso,
perché "Dylan ha cessato da tempo di essere un semplice artista.
Ormai è una geografia, un universo semiotico, un'intera cultura
concentrata in un singolo performer (...), un'infinita partita a
scacchi tra la parola e la voce", scrive Alessandro Carrera nel
bellissimo libro La voce di Bob Dylan - Una spiegazione
dell'America (Feltrinelli). Una biografia intellettuale che offre
molteplici chiavi di lettura per approfondire lo studio di un
personaggio tanto geniale quanto impossibile da classificare.

Carrera analizza la figura di Dylan e le sue molte identità nel
contesto della cultura americana, tra le suggestioni della poesia e il
costante richiamo alla tradizione musicale folk e blues. Non è il
caso, dopo la lettura di questo libro, di insistere sull'usurata
immagine del Dylan politico, cantore del movimento dei diritti civili,
perché con It ain't me, babe (1964) già si era affrancato dal
rischio di rimanere prigioniero di un cliché. Non si è mai
considerato un attivista, neppure quando ha scritto Hurricane o
Masters of war, delle quali ha costantemente negato la
politicità. Ha avuto contatti con sette ebraiche ultraortodosse, è
stato per tre anni cattolico fondamentalista, ma la sua vera,
autentica militanza resta la musica, reinventata concerto dopo
concerto, con quella voce metamorfica che trasforma le sue canzoni in
qualcosa di sempre diverso.
Si contano seicento interpretazioni differenti di Just like a woman
e 23 versioni del testo di Tangled up in blue, a testimonianza
del fatto che in Dylan non c'è mai nulla di definitivo. Dopo
quarant'anni passati ad osteggiare il suo stesso mito e a rimettersi
in discussione, lasciandosi alle spalle le mille etichette che abbiamo
provato ad affibbiargli (elettrico, acustico, rivoluzionario,
conservatore, apocalittico, sentimentale), resta sullo sfondo di
un'irripetibile esperienza artistica un elemento su cui pochi hanno
saputo o voluto riflettere: la voce. Per Robert Ray "E' stato il
suono della voce di Dylan a cambiare la testa alla gente, più del suo
messaggio politico".
L'analisi dei testi di Dylan non può prescindere dal ruolo della sua
voce, essenziale nel continuo e costante rinnovamento delle canzoni
del menestrello di Duluth. Può essere divertente, per gli aspiranti
filologi, ritrovare echi di Keats, Eliot o Ginsberg nelle canzoni
dylaniane, ma è certamente più utile analizzare l'evoluzione di una
vocalità che, nelle sue multiformi espressioni, ha attraversato la
recente storia americana, rispecchiandone - se vogliamo - le mille
contraddizioni.
Nota giustamente Carrera che il modo feroce e quasi isterico con cui
Dylan, nel 1974, declama la celebre "strofa del presidente"
di It's Alright, Ma ("Talvolta anche il presidente degli
Stati Uniti deve apparire nudo davanti al suo popolo") riflette
il senso di stupore dell'opinione pubblica americana di fronte al
montare dello scandalo Watergate. "Quando la esegue a Rotterdam
il 27 settembre 2000 (...), il modo quasi sorpreso con cui pronuncia
la parola naked e la reazione divertita del pubblico fanno
capire che ci siamo capiti". Da Nixon a Clinton, il cerchio si
chiude. Due diverse intonazioni di un medesimo verso racchiudono in
sé il senso di due eventi della politica degli Stati Uniti.
Questa voce si rivela funzionalmente indissolubile dai versi e dalle
musiche del canzoniere dylaniano e - con la mediazione
dell'informatissimo Carrera - ci guida nel labirinto poetico e
linguistico di un artista che, secondo Springsteen, ci ha insegnato ad
usare la mente, così come Elvis Presley ci ha insegnato a muovere il
corpo. Qualcuno ha paragonato la sua influenza sulla cultura popolare
all'influsso della luna sulle maree. La lettura del saggio di
Alessandro Carrera è un'ottima occasione per verificare la bontà di
questa affermazione, che non possiamo non condividere.
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