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Non lasciamo allo sbando un movimento
nuovo
Nadia Urbinati
I DS hanno lasciato Genova. L’hanno lasciata nel momento più
tragico, quando le forze dell’ordine e le forze del disordine
stavano mettendo a segno il loro progetto di criminalizzare il
movimento politico di questa nascente nuova sinistra. Quando era
chiaro a tutti che il governo di destra aveva decisio di difendere il
G8 contro la città per poter poi dire di aver difeso l’ordine.
Andandosene, i leader dei DS hanno sconfessato la strategia politica
che ha contraddistinto la sinistra parlamentare del secondo
dopoguerra: tenere insieme, in dialogo dialettico, la dimensione
istituzionale e quella del movimento; il parlamento e l’extra-parlamento.
Stare nel movimento per non perderne la direzione politica e non
consegnarlo ai violenti; ma anche per arricchire la sinistra
parlamentare.
Una politica di responsabilità che ha sempre contraddistinto la
sinistra italiana democratica. Una politica il cui compito era di
impedire lo scollamento tra le istituzioni dello stato e la vita della
società civile, di impedire alle prime di allontanarsi dai loro
fondamenti democratici e alla seconda di radicalizzare la sua già
spontanea vocazione anti-statale. La dirigenza dei DS si è
inopinatamente posta di fronte all’alternativa assurda di scegliere
tra Parlamento e Piazza.
Genova ha mostrato con drammatica chiarezza l’inadeguatezza
culturale, politica, ideale di questa sinistra parlamentare e
ufficiale. Dopo il 13 maggio, i suoi dirigenti si sono avventati l’un
contro l’altro per conquistare la direzione di una sigla che
rappresenta a mala pena i suoi collegi elettorali. E ora, dopo Genova,
sono pronti a usare la tribuna parlamentare per prendersi uno spazio
politico tardivo.
Timorosi di andare a Genova perché timorosi di essere troppo a
sinistra nella coalizione dell’Ulivo (scioccamente i giornali hanno
perfino associato la decisione dei DS di andare a Genova con la “spaccatura”
dell’Ulivo, come se l’Ulivo fosse un partito), una volta a Genova
hanno deciso di andarsene proprio quando si è offerta loro l’opportunità
di esercitare una leadership politica in un movimento in via di
formazione, contraddittorio e magmatico, e tuttavia innegabilmente
ricchissimo di potenzialità. Tatticismo insipiente e utile soltanto a
svelare l’insopportabile virtuosismo degli oratori parlamentari DS:
tutti pronti a condannare il Ministro degli Interni dopo che altri ne
avevano chiesto le dimissioni.
Genova è per i dirigenti DS un enigma che rivela la loro totale
impreparazione a capire e valutare la nuova dimensione del discorso
politico della sinistra. Viene da chiedersi che cosa leggano e che
cosa studino i leader DS dopo aver chiuso i testi canonici del
marxismo modernista della Guerra fredda. La cultura dei diritti è
loro estranea, quella della democratizzazione oltre e al di là degli
stati territoriali anche.
Restano abbarbicati al realismo del mercato tanto quanto chi del
mercato fa un feticcio. La dimensione creativa del simbolico, la forza
etica dei valori normativi della democrazia, tutti questo è a loro
estraneo. La loro politica è il parlamentarismo. Ed è una politica
suicida per la sinistra, come la storia nazionale insegna, perché
separare le istituzioni dalla cittadinanza attiva significa
contribuire a svilire la democrazia a mero legalismo, esaltare la
dimensione coercitiva delle istituzioni e la dimensione ribellistica
della cittadinanza attiva.
Il Parlamento si fa voce nel deserto, e la società diventa un
mulinello di voci indecifrabili. In questo insipiente dualismo a
perdere è la politica e quindi la sinistra: arte di capire e
governare il nostro tempo secondo i principi della democrazia.
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