Noi, che abbiamo visto Genova
Ettore Colombo
Ora il mondo - e la sinistra, in particolare, ma anche il rumoroso
circo barnum dell’informazione - si dividerà tra chi c’era, a
Genova, e chi no, per scelta, per convenienza o per necessità. Noi c’eravamo,
e abbiamo visto. Francamente, non è stato un bel vedere. Soprattutto,
abbiamo visto troppo. Una cosa è fare la cronaca minuziosa degli
scontri, ora per ora, più che giorno giorno, da veri cronisti. Cosa
ben diversa è cercare di ricostruire quanto è accaduto. Ci proviamo.
Ma il taccuino è andato perso.
Primo e inaspettato punto, la carta. E poi acqua, telefoni cellulari,
bandane, cartine e stazioni cittadine.
La carta. Nei “controvertici” di solito ce n’è sempre in
quantità esorbitante. Doveva esserci anche al controvertice, denso
com’era il suo programma di incontri e dibattiti sul debito e sulla
sua “remissione” ai paesi poveri, di banche etiche e commerci equi
e solidali, di Ogm e Fmi, che avrebbero dovuto riempire fogli e fogli
di carta. Di giornale, di volantino, di siti Internet e di dossier,
ufficiali e non, carta che avrebbe dovuto riempire le tasche dei
partecipanti alle “sessioni di lavoro” e della stampa -
indipendente o meno che sia - che di solito, diligentemente, prendono
corposi appunti.
E invece, per terra, in giro per la città di Genova, c’era di
tutto, dalle bottiglie d’acqua (fondamentali, per i manifestanti
come per le forze dell’ordine) ai vetri infranti, dai sampietrini
divelti dalle strade alle maschere antigas, ai guanti, ai caschi
abbandonati. Ma di carta ce n’era poca. Le notizie volavano veloci
via etere, nemmeno su Internet (i fili dei collegamenti elettrici sono
saltati o sono stati tagliati ben presto), ma via telefono e di bocca
in bocca. Telefoni cellulari, certo, ma anche cabine “old style”,
visto che le batterie diventavano presto scariche.
Altri strumenti indispensabili a dotazione dei manifestanti,
oltre al telefono, si sono dimostrati le bandane (per coprirsi bocca e
occhi dal fumo e dai lacrimogeni), le mappe della città (“alternative”
anche quelle, visto che segnalavano soltanto dormitori, punti ristoro
e il tragitto dei principali cortei) e indumenti atti a coprire tutte
le parti del corpo, per evitare contatti con i gas, nonostante il
caldo torrido.
Arrivare pesanti, al controvertice, dunque, era un errore madornale:
il passaparola era viaggiare leggeri: i più furbi sono arrivati in
moto o in bicicletta (i mezzi di trasporto più ambiti, in questi tre
giorni), altri in macchina, la stragrande maggioranza in treno, treni
di partito o di movimento che sapevi da dove e quando partivano, ma
non riuscivi mai a sapere dove quando e arrivavano né tantomeno
quando e da dove sarebbero ripartiti.
Peraltro, la prima e unica “scoperta” da turista dell’antiglobalizzazione,
in una città deserta, spettrale e impedita all’accesso in tutti i
suoi punti e luoghi più tipici, erano le stazioni. A Genova, a
girarla in lungo e in largo, si scopre un lungo e incredibile elenco
di stazioni ferroviarie (Principe, Brignole, Quarto, Nervi). In
città, invece, si andava in giro a piedi: sperare o credere di
riuscire a salire su un autobus “speciale” (gli unici che
circolavano) o sui pochi tassì era pura utopia.
Genova per chi?
In questi giorni, a Genova era quasi impossibile mangiare, molto
difficile dormire, discretamente arduo darsi un appuntamento tra una
manifestazione e l’altra: i campi di raccolta del Genoa Social Forum
si sono presto trasformati in una bolgia infernale, dove nessuno
trovava più nessuno e tutti finivano nella piazza e nel gruppo
sbagliato. Solo i giornalisti facevano gruppo, muovendosi come un “black
bloc” massmediatico: a torme, avanzando e indietreggiando,
proteggendosi e intrufolandosi dappertutto.
Senza o quasi taccuini in tasca o in mano, però, persino senza
giornali, quotidiani di movimento (manifesto, Liberazione
e simili) compresi: le edicole della città erano, di fatto, tutte
chiuse. E il nostro taccuino? Chissà. Magari è in mano a qualche
poliziotto o a qualche “black bloc” o a uno dei primi travestito
da uno dei secondi. O viceversa, non sapremmo dire. Tutto e tutti si
confondevano, a Genova, in questi giorni. Carta che vince, carta che
perde. Carlo Giuliani ha puntato (un estintore contro una camionetta
dei carabinieri) e ha perso.
Zona rossa
Magari - il taccuino - è semplicemente finito in uno dei tanti angoli
tirati a lucido della “zona rossa”, quella del Porto Antico
e del centro storico, quella requisita, blindata e abitata da pochi
privilegiati (?), quella in mano ai potenti della Terra, ai corpi
scelti di tutte le armi e a inservienti e hostess dello staff, quella
dei Magazzini del Cotone. Magari - il taccuino - è finito nella
inutile e devastante mole di carta che solerti responsabili
dell'ufficio stampa distribuivano a ogni passo. Aggiornamenti sugli
scontri? Bilancio dei feriti? Macché.
Trattavasi di voluminosi e multilingue dossier - disponibili su carta,
certo, ma anche su cd-rom e in dvd, parola di giornalista -
radicalmente e indubitabilmente inutili. In sala stampa, la sala
stampa più bislacca del mondo, dove la nota tircheria genovese (o
berlusconiana?) obbligava i cronisti a comperare carte telefoniche (Wind)
per collegarsi ad Internet e invariabilmente, a pranzo come a cena,
prevedeva solo due menù: cornetti alla francese o focaccia alla
genovese (ma le feste e i gran galà, i briefing e le “colazioni di
lavoro” sono andate avanti, protette da alti e spessi muri
medioevali che chiudevano ogni possibile e impossibile varco, come se
niente stesse accadendo). Morale: stai col G8 o con l’anti G8?
Scegliere, tertium non datur. Carlo Giuliani ha scelto. E ha
perso.
La guerra
Secondo e più prevedibile punto, la guerra. Simulata o vera che sia,
a volte uccide. E lascia il segno. Da finta o simulata che doveva
essere, è stata guerra vera. Che uccide. Personalmente, apparteniamo
a una generazione che non ha vissuto gli anni Settanta. Adriano Sofri,
su Repubblica, prima che “ci scappasse il morto”, ha
scritto che i morti non scappano, restano. E soprattutto ha scritto
che i morti “cambiano le fasi”. Successe con l’omicidio
Calabresi nel 1972. Potrebbe succedere oggi.
Un punto, ci vorremmo permettere di rimproverare al mondo dei centri
sociali, da quelli milanesi a quelli veneti, da quelli romani a quelli
napoletani, il fronte dei “morbidi”, che autoproclama la “disobbedienza
civile”. Che - nella fattispecie - capiamo bene il loro concetto di
disobbedienza, molto meno quello di civiltà. La retorica - più che l’arte
- della guerra “alza il livello dello scontro”, si sarebbe detto
una volta. La cosa funziona fin quando c’è un ministro degli
interni “democratico” dei capi della polizia e dei prefetti e dei
questori che se non lo sono di indole, democratici, vengono indotti ad
esserlo. Persino un sindaco sinceramente democratico come quello di
Genova, Pericu, girava livido e impotente, nella “sua” città.
Giochi di guerra
Per anni c’è chi ha permesso, incitato e avallato, con sguardo
compiaciuto e benigno, che alcune centinaia di giovani ventenni e
trentenni si allenassero a simulare i loro grotteschi “giochi di
guerra” (Solo un veterano del ’68, del ’77 e di altro
ancora come Piero Bernocchi dei Cobas ha riconosciuto che “l’album
di famiglia” è un paragone che ancora serve, che bisogna
riconoscere e isolare i violenti). Abbiamo visto giovani e non più
giovani esponenti dei nuovi centri sociali e della vecchia Autonomia
bardati come cavalieri medioevali alla giostra, come quadrate legioni
romane alla pugna o come indiani armati fino ai denti e dai nomi
romantici e altisonanti pronti ad assaltare Fort Apache, poco importa.
Importa che qualcuno - o, peggio, più d’uno - ci creda e sviluppi
un culto e una “poesia” della battaglia, se non appunto, della
guerra, che ha molto di dannunziano e poco di serio.
Fin quando la farsa, il gioco, la “rappresentazione” dello scontro
non si trasforma in battaglia, guerra e tragedia vera, che puzza di
sangue. E dove l’odore orrendo del sangue di Carlo e di tante altre
decine di persone si mischia al fumo acre e denso dei lacrimogeni, al
suono secco e cadenzato degli stivali delle quadrate legioni (quelle
vere, quelle delle forze dell’ordine o del disordine che dir si
voglia) che rimbomba sull’asfalto, al sibilare velenoso dei
manganelli (e troppe volte delle pallottole, di gomma, ma anche di
acciaio) nell’aria, al fuggi fuggi generale di fronte alle cariche
della polizia e dei carabinieri - troppo spesso su camionette lanciate
all’impazzata contro la folla - al rumore sordo e spaventoso dei
sampietrini e delle spranghe divelti dal terreno e usati come
micidiali armi primitive, al panico da “stadio del Cile di Pinochet”,
da “rastrellamento della Wermarcht”, da “cariche della celere
come negli anni Cinquanta”, da “omicidio di Giorgiana Masi”,
trasformando delle pacifiche, allegre e colorate “piazze tematiche”
contro la globalizzazione in altrettanti campi di battaglia, ognuno
con il suo bilancio di feriti, contusi, dispersi, affumicati e
spaventati.
I commissariati e gli ospedali di Genova sono diventati prigioni
coatte e ospedali da campo. Le vie, i vicoli e i sottopassi di una
città che sale e scende per chilometri di fronte al mare nella linea
Gotica o nel campo d’Agramante, nel campo di Canne dopo la battaglia
o nelle Forche Caudine. Con tutto il suo corollario di devastazioni e
di ferite (agli edifici e ai luoghi della città) da post raid aereo.
Carlo Giuliani ha giocato anche lui alla guerra. E l’ha persa.
I mass media
Ancor più ovvio punto terzo, i mass media. Prima hanno suonato la
grancassa, poi hanno fatto luce. Luca Casarini, il leader delle tute
bianche, prima di “scendere in campo” (di battaglia) è stato
definito, testuale, un “novello Giovanni dalle Bande Nere”. E
dunque, la prima e più grande responsabilità è dei grandi mass
media, nostrani, europei e mondiali, che hanno montato e ingigantito
questo appuntamento e il suo controcanto di contestazione, suonando la
grancassa per tutti i disadattati e i disperati del continente che
sembrano essersi tutti dati un tacito quanto drammatico appuntamento a
Genova.
Costruendo e inventandosi dal nulla leader che non c’erano o che non
erano tali (uno su tutti, Vittorio Agnoletto, il portavoce del Genoa
Social Forum, uno che il partito che lo aveva candidato alle elezioni
senza nemmeno farlo eleggere, Rifondazione comunista, ha boicottato
fino all’ultimo, rosa dalla gelosia del suo successo mediatico e di
movimento), incitando il governo Berlusconi a non perdere l’appuntamento
con la Storia e il Genoa Social Forum a dotarsi di un megafono che mai
avrebbero potuto sperare di avere o di costruire dal niente in un
mese. Soffiando sul fuoco degli scontri e del muro contro muro, alla
caccia disperata di notizie e di violenze.
Professionalmente e moralmente migliori della vecchia e logora
compagnia di giro dei grandi inviati travestiti da reporter di guerra,
si sono comportati i tanti giornalisti, fotografi, cineoperatori e
cameramen “indipendenti”, sia quelli vicini al Media center del
Genoa Social Forum, dal sito Indy Media al network di Radio Gap, sia
quelli veramente indipendenti, free lance italiani e stranieri.
Vestiti in perfetta e inappuntabile tenuta antisommossa (casco calato
sulla testa, parastinchi, pettorina “press” ben visibile sopra il
giubbotto, bandana calata sugli occhi contro i gas dei lacrimogeni,
telecamere e teleobiettivi pratici e leggeri), hanno svolto il loro
lavoro “con grande sprezzo del pericolo”, spesso aiutando giovani
ragazzi manganellati e feriti, confondendosi con la polizia come con i
manifestanti, annotando, filmando e denunciando tutte le violazioni
del diritto e della legalità commesse, chiunque le effettuasse.
Anche Carlo ha avuto il suo “filmato verità”. Ma l’altra sera,
alla tv, lui se l’è perso.
Ps. Sono stati così bravi, gli operatori dell’informazione, in
questi giorni a Genova, che a loro si possono ascrivere almeno tre
meriti indubitabili: 1) Hanno svelato come è morto Carlo
Giuliani e chi l’ha ucciso. 2) Hanno svelato il bluff della polizia
quando questa, nel corso della notte di sabato, ha fatto irruzione
nella scuola elementare Diaz, a Punta Vagna, sede proprio del Media
center del Gsf. 3) Hanno salvato la pelle (nonostante i feriti e i
contusi che pure si sono contati, nelle loro fila), nascondendo la
pettorina davanti ai Black bloc (“Mica vorrai picchiarmi? Sono un
manifestante...”) come davanti alle forze dell’ordine (“Mica
vorrete picchiarmi? Sono un giornalista...”). Poi, certo, si sono
visti giornalisti un po’ troppo simili ai poliziotti e fotografi un
po’ troppo simili agli anarchici...
Politica
Polemico e non così scontato punto quarto, la politica. Quella che
non c’era e quella che non pensa.
Quella che è mancata, a Genova, in questi giorni, è stata
soprattutto la politica. C’erano i volontari cattolici, certo,
quelli ambientalisti, quelli pacifisti. E c’erano le tute bianche e
i centri sociali, che sono per definizione “di movimento”. E poi,
cos’altro? Poca Rifondazione, curiosamente troppo poca, anche solo
per garantire un adeguato servizio d’ordine - mai tanto invocato -
un po’ di Cobas e di sindacalismo di base, ma di certo non tutto,
qualche innocuo e spaventato verde, una manciata di dirigenti di
medio-alto livello della sinistra sindacale (Fiom), della sinistra
associativa (Arci), della sinistra politica (Ds). E nessun altro.
Non i Ds, quelli veri, che hanno deciso di rinunciare, non la Cgil,
quella grande, che ha deciso di starsene a guardare, non la parte
maggioritaria dell’Ulivo, che si sentiva imbarazzato o contrario e
ha deciso di non aderire. Morale, tutto il peso della tre giorni è
caduto - sia sul piano decisionale che su quello organizzativo - sulle
spalle di pochissime persone. Agnoletto, Casarini, appunto, e
Bernocchi (dei Cobas). Punto, fine, stop. Ascoltare i loro
conciliaboli era un gioco da ragazzi: mai servizio di protezione e
riservatezza delle decisioni dei leader è stato così farsesco e
inutile, beffato e turlupinato a mo’ di colabrodo dalle intelligence
di molti più di otto Grandi, se si vuole comprendere nel gruppo
numerosi servizi segreti, polizie e centri operativi di mezzo mondo.
Certo, c’erano tanti bravi e buoni giovani cattolici, volontari
delle associazioni e militanti dei centri sociali che s’incontravano
e si sfegatavano fino a notte fonda per discutere il da farsi, tenersi
informati (ma “radio movimento” ne ha dette di tutti i colori: “ci
sono tre, cinque morti”, “hanno sospeso il G8”), dare man forte,
ristoro e sollievo agli amici e compagni feriti, dispersi, isolati,
confusi, spaventati, per piangere e disperarsi di rabbia alle notizie
delle ennesime violenze e degli ennesimi scontri cruenti. Per andare a
depositare un fiore sulla tomba di Carlo o per gridare “assassini,
assassini” ai carabinieri, ma anche per inveire a mani nude contro i
“Black bloc” che, al loro passaggio, devastavano ogni cosa. Per
denunciare e segnalare le indubbie e ingiustificate violenze delle
forze dell’ordine, accecate dall’odio e viste in più occasioni -
anche da chi scrive - colpire indiscriminatamente giovani dall’aria
“sospetta” e giovani (ma anche donne, anziani e dirigenti dal
volto noto) che persino un bambino di Genova, un Pietro Micca
qualsiasi, avrebbe capito che erano lì, in strada, in piazza, solo
con la forza delle loro idee.
Black bloc
Ecco, appunto, i “Black bloc”. Con questa coperta dell’anarchismo
giustificano e distruggono tutto, ma la coperta non è corta, è
inesistente. Almeno, Maria Soledad ed Edo Massari, i due anarchici
suicidatisi due anni fa a Torino, dopo essere stati arrestati con l’accusa
di essere dei terroristi, avevano delle idee. Rispetto a questi “nuovi
anarchici”, invece, delle due l’una: o la morte della politica
lobotimizza anche i cervelli e fa credere che contro il capitale
bastino fionde e pietre oppure, se un’ideologia ce l’hanno, i “Black
bloc” la tengono accuratamente nascosta: con l’anarchismo non c’entrano
nulla, col movimento dei “popoli di Seattle” neppure, con la
sinistra - anche la più radicale e antagonista - men che meno.
Forse, come ora fioccano le denunce e i video indipendenti mostrati in
conferenze stampa improvvisate che invece qualcosa c’entrano eccome
con polizie e naziskin di mezz’Europa “infiltrati”. Militanti e
capi storici della vecchia “Autonomia” avevano l’aria quasi
spaventata, quando passavano: “Chi cazzo siete?!”, gli dicevano.
In cambio ricevevano botte. Come chiunque si frapponesse tra loro e il
resto del mondo da distruggere. Una cosa però bisogna dirla: la loro
furia distruttrice, tipica dei “casseurs”, ammaliava frotte di
giovani. Pronti a credere che era quella della devastazione fine a se
stessa la via più breve che conduce alla felicità di tutti. Carlo
era uno di loro. Però non deve essere morto felice.
Genova
Ultimo e dolente punto quinto, la città di Genova. Quella che è
stata invasa e quella che è ancora lì.
“Tutti a Genova! Tutti a Genova!” è stato per mesi il ritornello
incessante e contagioso del movimento anti-globalizzazione, ritornello
che ha convinto e sedotto - moderno pifferaio di Hammelin - migliaia e
migliaia di persone che, confusamente o nettamente, dentro di loro
sentono e credono che questo mondo così com’è non va bene, che le
diseguaglianze personali e collettive vanno combattute e che la lotta
va condotta a livello planetario, che la globalizzazione delle menti e
delle merci può distruggere usi e costumi, mondi e prodotti.
Signori anziani e attempati ma dal passato impegnato, giovani e
giovanissimi di solito indifferenti alla politica e agli eventi, madri
con bambini preoccupate per l’avvenire, la salute e il cibo dei loro
figli, volevano dare vita a un gigantesco happening collettivo e di
massa, gioioso e festante, ma gli è stato impedito. Anzi, meglio:
sono stati espropriati del diritto forse più prezioso, quello di
manifestare liberamente il loro pensiero.
Alla stregua di questi, i cittadini di Genova si sono sentiti
espropriati per giorni della loro città, blindata e chiusa più che
al traffico e a possibili provocatori, alla vita stessa da alcuni
signori che hanno occupato manu militari il centro della loro
città e che poi neanche la guardano. Eppure, i pochi genovesi
rimasti, nonostante vedessero la loro città andare in pezzi e in fumo
ora dopo ora, hanno mantenuto la prontezza d’iniziativa e lo spirito
caustico di sempre, offrendo thé freddo per la gola, limoni per gli
occhi e acqua fredde per le mani dei manifestanti, accogliendo i
feriti nei portoni e prestando loro la prima assistenza medica e
legale (come pure hanno fatto, bene e a lungo, sanitari e avvocati del
Gsf), tenendo informato i vari spezzoni di corteo sulle notizie in
arrivo e sul possibile da farsi.
A volte però anche reagendo con fastidio e odio verso i manifestanti
e il loro “esercito di pezzenti”, accusato - molto più degli Otto
Grandi - di avergli requisito e distrutto la città. Carlo Giuliani
era di Genova, padre sindacalista, impegnato nel sociale. Aveva scelto
la strada più facile, quella che meglio conosceva, in quel dedalo di
viuzze e “carrugi” che sono il vanto della città, per attaccare i
“difensori dello Stato”, uno Stato che odia, la via della
violenza. E, naturalmente, ha perso. La strada, la direzione, come
forse canterebbe Jovanotti, e ora anche la vita.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da
fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio
Attualita' |