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I Diesse che c’erano e quelli che
non c’erano o, se c’erano, scappavano
Ettore Colombo
“Ma dove sono i Ds?! Dov’è la Cgil?!”. Tra le tante urla di
dolore, di paura, di pericolo, che sentite a Genova, lungo quei tre
lunghi e maledetti giorni, chi ha sentito anche questa, d’invocazione,
doveva avere orecchie davvero avvertite. Doveva essere “un compagno”.
C’eravamo, a Genova, e quei tre giorni - nel mezzo di quella nave in
gran tempesta - anche con loro li abbiamo passati, compagni di una
specie particolare, quella diessina. Razza in via di semi estinzione o
quantomeno di veloce ridimensionamento, nel campo d’Agramante che
risponde al nome di sinistra italiana. Di sicuro, merce rara, a
Genova, considerando che a farla da padrone, all’interno del
movimento, nei cortei come sui media, erano ben altri: i cattolici,
davanti a tutti con tutte le loro “articolazioni” (del dissenso,
cattocomunisti, radicali, pacifisti, non violenti, moderati,
clericali, ciellini, persino), il movimento antagonista e dei centri
sociali, da quelli ancora affascinati dall’Autonomia alle oramai
istituzionali, ordinate e disobbedienti, ma schierate a testuggine “tute
bianche”, tutta Rifondazione, certo (da quella più berlingueriana e
moderata a quella più radicale, comunque presente a ranghi completi,
Bertinotti, segreteria nazionale e deputati in testa), e poi i Cobas -
in grande spolvero, forti di un nuovo protagonismo politico come mai
prima - , persino quelli di Socialismo rivoluzionario, i comunisti del
Pkk greco, i trotzkisti francesi, i pacifisti scandinavi. E,
naturalmente, gli anarchici di ogni lingua e paese, buoni e cattivi.
Già, quasi dimenticavamo uno sparuto gruppetto di verdi, che sembrava
capitato lì per caso e che ha subito due sfregi notevoli: il primo è
stato la palpabile assenza della sua leader, Grazia Francescato, la
quale nonostante i tanti proclami della vigilia, si è fatta vedere
pochissimo, nei cortei, e il secondo sono stati i fischi al suo bel ex
ministro, Pecoraio Scanio, fischi da lui subiti nel corso di uno dei
tanti incontri del Public Forum. Poveri verdi e povera la loro grande
“M” tutta fatta con i palloncini colorati (di verde, ovvio).
Genova non era posto per loro. Ma i fischi li hanno presi anche i
diessini, appunto, nel corso della miriade di dibattiti organizzati
dal Genoa Social Forum e molti leader storici dell’Autonomia, dei
centri sociali - duri o morbidi, sul tema, faceva poca differenza -
dei Cobas e anche di Rifondazione, gliel’avevano giurata, ai
querciaroli: “Se vi fate vedere, sono c…i vostri”.
Il comportamento dei vertici dell’ex Bottegone, infatti, aveva fatto
saltare la mosca al naso a molti: “Ma come - sibilavano i radical
del movimento - fate la guerra in Kosovo, trattate con Berlusconi,
preparate il G8 voi, sposate la globalizzazione, e poi volete scendere
in piazza con noi?! Ma state a casa, che è meglio!”. Eppure, i
diessini c’erano, a Genova. Sono scesi giù in treno con noi (anche
se era un treno di comunisti...), hanno mangiato e dormito dove e
mangiavano e dormivano gli altri e - dopo la decisione improvvisa
quanto benvenuta dei loro massimi leader, D’Alema e Fassino
compresi, i più tiepidi e diffidenti nello sposare la causa e le
modalità di protesta dei “popoli di Seattle” - erano pronti a
manifestare e a sfilare, orgogliosi e con in mano le loro bandiere, in
piazza.
Poi, venerdì, è accaduto l’irreparabile: Carlo Giuliani è morto,
era steso sul selciato, riverso a terra, col sangue intorno, che
ancora mandava il suo odore acre e ingiusto. Nel corso della notte, i
diesse che erano presenti a Genova e quelli che dovevano arrivare
hanno vissuto, nel loro piccolo, un dramma nel dramma: il partito
aveva fatto dietrofront, a Genova non bisogna andare più, restate
tutti a casa. Contr’ordine, dunque, compagni? Beh, è stato nel
corso di quella notte drammatica e spaventosa che abbiamo visto il
meglio (e il peggio) di quel partito o di ciò che ne resta all’opera.
Molti scappavano, anche comprensibilmente, compreso Giovanni Lolli,
neodeputato abruzzese che pure aveva detto “A Genova ci vado con mio
figlio”, compresi molti esponenti dell’Arci e della Cgil. Avevano
paura, non capivano e non riuscivano a prevedere cosa sarebbe successo
l’indomani. Altri arrivavano, come l’esponente della sinistra
interna Marco Fumagalli o come il leader dei Comunisti unitari, oggi
nei Ds, Famiano Crucianelli: un breve giro, qualche capannello con i
compagni, un pezzo di corteo, schivando lacrimogeni e botte, e poi
via, di nuovo a casa. Altri ancora non sarebbero mai arrivati, come i
deputati liguri, che pure l’avevano promesso, o come l’ex ministro
Salvi, cui era stato chiesto con insistenza.
Sarebbero potuti venire almeno a fare da argine, a controllare l’operato
delle varie polizie, a salvare il salvabile. E invece niente, a casa
anche loro. Ma in piazza qualcuno c’era. Tanto per fare dei nomi, il
presidente della Regione Toscana, Claudio Martini, con la sua fascia
tricolore, parecchi sindaci, consiglieri comunali, provinciali e
regionali di mezz’Italia, il segretario della Fiom (con al seguito
mezza Fiom…) Claudio Sabattini, i ragazzi - spaventati certo, ma non
scappati - dell’Uds, dell’Udu, dell’Arci, della Sinistra
giovanile. E c’era Ermete Realacci (con dietro mezza Legambiente),
che sarà pure della Margherita, ma sempre il braccio destro di
Rutelli rimane, e dunque anche qualcuno dell’Ulivo, o dei suoi
paraggi, come il deputato verde, ma “radical di centro” Gianfranco
Bettin, per capirci, non solo militanti e dirigenti di Rifondazione e
dei centri sociali, chiusi nei loro bui “cordoni”. Soprattutto, c’erano
centinaia di diessini “di base”: milanesi, toscani, romani,
torinesi, napoletani, qualcuno persino con la sua brava bandiera, ma
per lo più in incognito, ma vigili e generosi.
Noi, che siamo “venuti via” con loro, ci teniamo a citare un
giovane amico, Pierfrancesco Majorino, 28 anni, barbetta bionda,
segretario milanese dei Ds. Pare che lo stiano mettendo sotto, ora,
nel suo partito, per aver “trasgredito agli ordini”, ma era
rasserenante vederlo fare vigilanza “non violenta” nei punti più
delicati del corteo, sabato. Era in piazza, dice ora, dopo che
finalmente il suo partito “s’è mosso”, nei cortei di protesta
del dopo Genova, “perché era giusto esserci. L’errore è stato
non renderci visibili, non avere più coraggio, non marcare la nostra
presenza, anche a costo di prenderci i fischi. Ognuno deve assumersi
le proprie responsabilità: la nostra gente voleva esserci, a Genova,
e si è visto nei cortei di protesta che abbiamo organizzato dopo, a
Milano. Come partito però da Genova usciamo male, sotto tutti i punti
di vista: prima abbiamo avuto mille tentennamenti, poi la tiepida e
contraddittoria adesione, infine la fuga. Mi chiedi se il mio partito
vuole davvero discutere di questi temi e di questo movimento? Non lo
so. So che farlo o non farlo condizionerà il senso almeno di una
militanza, la mia”.
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