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Come è lontana Genova in Tv



Mauro Buonocore



Che cosa ci ha raccontato la televisione del G8 di Genova? Che cosa è riuscito a comprendere, chi a Genova non c’era, dalle immagini che in quei giorni hanno colonizzato gli schermi televisivi?

I diversi telespettatori saranno stati attraversati dalle emozioni più varie, forse dalla vergogna, dalla rabbia e dall’indignazione rivolte ora ai Black Bloc, ora alla polizia che caricava i cortei, ora ai dimostranti che rispondevano alle cariche. E ci sarà stata anche la paura, tra quelle emozioni, la paura generata dalla violenza, lontana, distante, eppure così vivida e reale che sembrava la si potesse toccare, anche se lo schermo della tv era al sicuro dagli assalti, dalle pietre e dai lacrimogeni, dai manganelli e dalle spranghe.

La televisione ha la pretesa di raccontare gli eventi, costruisce una narrazione che ce li mette davanti agli occhi trasformati in immagini, elaborati secondo le regole di una rappresentazione che ci viene presentata come la sintesi della realtà, di quello che è accaduto.

La rappresentazione delle giornate genovesi ci ha messo di fronte due realtà che sembravano distanti anni luce eppure abitavano la stessa la città. Da una parte i cortei, le manifestazioni, le immagini di strade assediate, le divise, i caschi, i volti coperti, le fughe, le cariche e i negozi dati alle fiamme; dall’altra il vertice delle autorità internazionali, un’isola di quiete e di tranquillità, di discussioni a tavolino, di cerimoniali e foto di rito. Da una parte la società civile, dall’altra la politica ufficiale.

La vicinanza geografica di questi due avvenimenti si è tramutata sullo schermo televisivo in una lontananza abissale che ha preso corpo via via che la programmazione dei diversi canali rimbalzava da una parte all’altra del limite che separava la famigerata “zona rossa” da tutto il resto della città.

Quella politica così distante

La politica è apparsa distante dalla società, fisicamente distante, separata dal resto del mondo che vuole rappresentare. Erano lì, ben visibili, le barricate alzate ai confini dei luoghi inaccessibili ai cittadini comuni, rese significative dalla continua ripresa delle telecamere, dalle foto che puntualmente sulle prime pagine dei quotidiani le hanno portate all’attenzione della gente. Inferriate che si alzavano fino al cielo, pareti di container, blocchi di cemento armato sono stati l’immagine di una distanza che aumentava fino a diventare irreale man mano che le ore passavano, che gli scontri si facevano più accesi, che il vertice continuava il suo aulico cerimoniale.

Non potevano non stridere i sorrisi di circostanza di Berlusconi e di Bush di fronte alle notizie dei feriti e alle visioni delle manganellate; di fronte alla notizia della morte di un ragazzo, le strette di mano di Blair e di Putin sembravano provenire non solo da un’altra città, da un altro luogo, ma addirittura da un’altra dimensione; rispetto al bilancio dei feriti, della fine di Carlo Giuliani, dei danni che ha subìto la città di Genova, le conclusioni cui sono giunti i partecipanti del G8, dal mancato accordo sul protocollo di Kyoto allo stanziamento dei fondi contro le malattie che ha già fatto sollevare molte voci di indignazione, assumono la parvenza di una cerimonia celebrata da una accolita di privilegiati; e quanto più le immagini portavano il telespettatore ad una reazione emotiva nei confronti delle scene di violenza che prendevano corpo sul teleschermo, tanto più i politici apparivano chiusi nella loro definizione di “otto grandi”, incommensurabilmente lontani dalle scene che avevano luogo a pochi metri da loro.

Le immagini ci hanno dunque consegnato la lontananza tra il vertice che abitava la “zona rossa” e la realtà che si dimenava stridente e violenta nel resto della città. Ma questa distanza tra politica e società civile non albergava soltanto tra i luoghi protetti del vertice, ma anche nelle figure, nelle dichiarazioni e negli sguardi di alcuni esponenti della classe politica italiana.

In un libro del 1985 intitolato Oltre il senso del luogo, il sociologo Joshua Meyrowitz descriveva la televisione come un mezzo che espone l’intera persona di colui che vuole comunicare. Se, cioè, per essere convincenti alla radio era sufficiente un’eloquenza che sapesse rendersi familiare e affidabile agli orecchi degli ascoltatori (così come seppe esserlo Roosevelt), in televisione questa qualità non basta più, perché le telecamere sono pronte a riprendere e a trasmettere la figura intera di chi ha intenzione di comunicare: ogni aspetto della personalità diventa un’informazione visibile e significativa.

Ecco allora che ci tornano alla mente i sorrisi e la placida tranquillità dei partecipanti al vertice barricati nella zona protetta al di fuori della quale la città veniva distrutta e una manifestazione di idee si trasformava in uno scontro violento. Ci torna alla mente il volto di Gianfranco Fini che, nello speciale di Porta a porta, sosteneva a spada tratta le uniche ragioni delle forze di polizia, delle loro azioni, e se c’era “scappato un morto”, continuava il Vice Presidente del Consiglio, questo era dovuto al comportamento dei manifestanti; ci torna alla memoria pure il volto di Ignazio La Russa che, dalla platea dei tg, con risoluta calma definiva una linea di netta e inappellabile separazione tra il torto di chi manifestava e la ragione della polizia.

Ci tornano alla mente, in sostanza, atteggiamenti che sembrano scavare un fossato tra la politica e la società, come se fossero due campi distinti che non debbano entrare in contatto. La politica che si barrica in un bunker a cielo aperto, che giustifica senza alcune attenuanti l’uso della violenza, è una politica che non guarda alla partecipazione dei cittadini, che non si dispone al dialogo con la società civile, è una politica dalle braccia d’acciaio e dalle gambe di cristallo che non si apre al confronto con chi ha scelto di rappresentare. Ed è la politica che la televisione ci ha raccontato durante il G8 di Genova.

Un’ambiguità non risolta

Dalla rappresentazione televisiva di quanto è avvenuto nel capoluogo ligure, ci pare di poter rilevare ancora un altro aspetto. La televisione è un mezzo di comunicazione malato di un morbo dal quale forse non riuscirà mai a guarire, la semplificazione. La complessità degli eventi, la molteplicità della realtà non riesce a passare attraverso lo schermo televisivo, la tv non spiega la complessità, la lavora per renderla presentabile: la taglia, l’accorcia, la trucca, la pettina fino a che non è pronta per andare in onda. A questo meccanismo non è sfuggito nemmeno il “popolo di Seattle”, e la sua presenza a Genova si è subito tradotta televisivamente nel suo aspetto più spettacolare: l’ordine pubblico.

Non si è parlato di altro nei mesi che hanno preceduto il G8, gli argomenti erano quelli del pericolo dei violenti, del rischio degli scontri; i termini erano quelli della semplificazione, della ricerca di parole che sapessero riassumere in una definizione colorita da far digerire al grande pubblico la molteplicità di anime che stava all’interno del Genoa Social Forum. Nulla però ha spiegato gli argomenti che stavano sotto questi avvenimenti.

Da una ricerca dell’istituto People SWG effettuata nel mese di giugno, risulta che l’80% degli intervistati non conosceva il nome delle associazioni che facevano parte del Gsf, mentre più della metà non conosceva i motivi della protesta. Alla vigilia del G8 il “popolo di Seattle” si presentava ai telespettatori come una vaga nebulosa che minacciava la quiete della città per non ben determinati motivi politici, economici o di altra misteriosa natura.

Poi è arrivato il 20 luglio, il venerdì dell’esplosione della violenza, e allora sì che il vertice di Genova è diventato un evento mediale. Gli ingredienti c’erano tutti: immagini crude in grado di attirare le emozioni delle persone, vicinanza geografica di quello che stava accadendo, eccezionalità dell’evento e delle modalità in cui si sviluppava, il grande dispiegamento di individui direttamente ed emotivamente coinvolti. Se si aggiungono il dovere di cronaca e la spettacolarizzazione intrinseca delle immagini che potevano andare in onda senza commento e non perdere nulla della loro efficacia mediatica, si vede come il G8 si sia “spontaneamente” trasformato in un drammatico spettacolo da mandare in onda. Ma anche qui la televisione non è riuscita a trasmettere il senso pieno della complessità che aveva luogo a Genova.

La televisione ci ha fatto, sì, vedere la cronaca dei fatti, ma si è limitata alla violenza in senso generale: le fiamme, le cariche della polizia, i lacrimogeni, il sangue. Il senso pieno di quello che a Genova è successo non è arrivato dallo schermo della tv. Dietro le ovvietà dei dibattiti, oltre la banalità delle affermazioni per cui “non tutti i manifestanti sono violenti”, non siamo riusciti a cogliere la portata reale di quello che è avvenuto; nonostante lo sforzo di tanti giornalisti e operatori la distanza da quanto accadeva è rimasta poco scalfita.

Certo ci è arrivato il caos, la paura, la concitazione, ma il tutto ci è giunto velato da uno spesso strato di ambiguità.. Non abbiamo capito che cosa sia successo davvero, chi fossero i componenti del Black Bloc, come ha davvero agito la polizia, quale ruolo abbiano avuto gli agenti infiltrati tra i manifestanti, che cosa e perché sia successo durante la perquisizione della scuola che ospitava alcuni membri del Gsf.

Nella rapida successione di immagini cui la grammatica televisiva non può rinunciare non siamo stati in grado di cogliere - le immagini non sono state in grado di trasmetterci - l’umiliazione subita da coloro che hanno visto una protesta civile soffocare nelle fiamme delle macchine e dei negozi, che hanno visto le loro idee zittite dai manganelli.

Quello che si ci è arrivato dallo schermo della tv, sin da prima che Genova si popolasse di divise e di manifestanti, è stata la violenza non spiegata, non chiarita. Non c’è stato spazio per gli argomenti, per i contenuti e per i significati; la televisione non ha spazio per il confronto approfondito dei ragionamenti e delle idee. Rubando le parole a Jürgen Habermas, potremmo dire che non c’è spazio per la razionalizzazione della società, per il dialogo ragionato, per la ponderata espressione di idee ed opinioni.

La violenza è più televisiva, anche se la tv non si riesce a spiegarla.

 

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