"El Alamein? Che, sta in
Messico?”
Stefano Arras
Stefano Arras è docente di italiano e storia. Queste sue osservazioni
nascono dalla sua partecipazione come commissario esterno a un esame
di maturità presso un istituto tecnico.
Il Novecento: storia o politica? I programmi di storia della scuola
italiana non hanno trovato ancora un punto di equilibrio. Da più
parti si chiede di tornare a poche sane nozioni: basta con la storia
sociale, interculturale, mondialista, di breve, lunga o media durata!
“Torniamo allo statuto!”. Che i nostri giovani conoscano la storia
d’Italia e magari qualche tradizione locale.

Basta con le monografie e con lo studio delle
strutture o dei processi! “Torniamo ai fatti!”: Mazzini è
Mazzini, Pio IX è Pio IX. E poi il Novecento: non è un secolo da
buttare, da dimenticare? La storia deve educare e deve essere la “storia
di sempre”: una storia normale. Storia, non cronaca: narrazione
condivisa, non luogo di dispute.
C’è chi ha proposto di escludere dall’insegnamento la “storia
contemporanea”, ovvero tutto quanto accaduto dal 1945 in poi: in
breve, gli ultimi 56 anni. Peggio che negli anni ‘50, quando il
programmi scolastici si fermavano al 1918 (escludendo solo 42 anni di
storia recente). Dobbiamo attendere una storia ufficiale che metta
tutti d’accordo? Dobbiamo dar credito a commissioni per la revisione
dei libri di testo?
Si penetra in una zona grigia nella quale le diverse influenze paiono
annullarsi: talvolta la scuola si presenta essa stessa “storia” di
questa neutralità. Gli Esami di Stato danno la visione di una
pacificazione già avvenuta. E’ un gioco di ombre dove la II guerra
mondiale appare al giovane non meno remota della II guerra punica.
Alla domanda: “Quando è caduto il fascismo?”, accade che il
giovane risponda stupito: “Perché, è caduto?”.
J. F. Kennedy, Crushev o Giovanni XXIII, protagonisti della storia
contemporanea più recente - quella che alcuni vorrebbero togliere dai
programmi scolastici perché ci coinvolge di più - sono sconosciuti a
molti candidati. Le grandi battaglie del 1942-1943 stentano a trovare
un’esatta collocazione geografica: “El Alamein? Che, sta in
Messico?”.
Concetti d’uso corrente nella vita pubblica, “guerra fredda”,
“distensione”, “resistenza”, “repubblica di Salò”, si
mescolano e sono subito archiviati da un: “Non so”. Nel racconto
dei candidati Mussolini può ben essere colui che dichiara la guerra
nel 1915 oppure Giolitti diventare l’ideatore della guerra d’Etiopia
(opportunamente retrodatata al 1911). Che importa? L’8 settembre
1943, nonostante il lodevole impegno del Presidente Ciampi, è una
data poco nota, più o meno come quelle delle battaglie di Pirro. A
chi si è arresa l’Italia? Con chi ha firmato l’armistizio? - “Con
l’Austria? Con la Germania?”. E alla domanda su quel che accade
dopo qualcuno risponde: “Le truppe partigiane dilagano nella Valle
Padana e dichiarano la guerra ...”.

Le leggi razziali italiane, collocate fra il 1939 ed
il 1940, sono assimilate frettolosamente ai campi di concentramento e
alla schiavitù. Le spiegazioni più sofisticate fanno peggio: “Le
leggi razziali tolgono agli ebrei i diritti politici”, lasciando
intendere che per gli altri lo stato fascista fosse più o meno una
democrazia. Né mancano coloro che nemmeno riescono a individuare i
destinatari, cioè le vittime di queste leggi.
Viceversa, quanto alla crisi della Repubblica di Weimar, non pochi ne
imputano la responsabilità agli Ebrei: la crisi del 1929 è
interpretata come una conseguenza della loro prevalenza nell’economia
della Germania. Quando la storia ingrigisce, sorprende che riprenda
forza il pregiudizio? Né va meglio sull’altro versante della sfida
ideologica. Lo stalinismo? “Stalin voleva il potere ed era un
dittatore sanguinario”.
Molti ragazzi non verbalizzano la differenza tra economia pianificata
ed economia di mercato, né la guerra civile, né la guerra ai
contadini: tutto è personalizzato, psicologizzato . Perciò ad un
candidato non è apparso strano stabilire un nesso concettuale tra
Stalin e D’Annunzio: “Non erano entrambi dei leader?”. Quanto
alla nostra Repubblica se ne sa poco: De Gasperi, Nenni e Togliatti
così come i partiti di massa del dopoguerra - D.C., P.S.I. e PC.I. -
sembrano appartenere al periodo delle guerre di successione del ‘700.
Chi se le ricorda?
E’ questa la pacificazione auspicata da tanti intellettuali? Si può
obiettare che la discussione storiografica, anche nella sua forma
degradata di “uso pubblico della storia”, non va confusa con la
crisi dell’istituzione scuola. Vero. C’è da chiedersi però se
tale discussione, spesso centrata sulla necessità di recuperare la
“memoria collettiva”, possa ignorare tale crisi. Questa fa il paio
con la crisi delle forme del sapere di cui parla Raffaele Simone ne
“La terza fase”.
La multimedialità favorisce il passaggio dall’alfabetico al
visuale, dal sequenziale al simultaneo. La stessa Internet, a cui
spesso ci si rivolge con volontà acquisitive, non elaborative, né
collaborative - per prendere non per dare, per copiare non per
elaborare - rafforza quest’appiattimento. Si perdono le “priorità”:
non c’è costruzione, non c’è memoria, vi è solo la
soddisfazione di un bisogno contingente (nel caso della scuola: l’interrogazione,
la tesina e l’esame). Tutto è uguale, tutto ha lo stesso peso: solo
l’utilità, collegata all’efficacia personale percepita,
discrimina le opzioni e concorre alla decisione.
La storia si potrà salvare? Pochi dubitano dell’utilità formativa,
ancorché non immediatamente percepita, dell’apprendimento della
storia. E ancora meno che tale attività possa escludere la scuola o
le tecnologie digitali. Il recupero della sequenzialità del sapere
storico però passa attraverso il recupero della storia e dei bisogni
contemporanei non per la loro emarginazione, proponendo una visione
contrastata degli eventi e dei processi, non la loro sterilizzazione.
Altrimenti, nella competizione globale i nostri giovani avranno ben
poca attenzione per un passato e una storiografia ridotta ad “antiquaria”.
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