L'una e l'altra
Ingrid Salvatore
Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della
rivista Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano
Maffettone. Per ulteriori informazioni potete collegarvi al sito della
Luiss Edizioni o
scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it

All’origine dell’etica degli affari: una filosofia per l’America
degli anni Cinquanta con un occhio alle relazioni industriali.
Stamattina, appena dopo le undici, Michael si è chiuso a chiave nel
suo ufficio e non ne è più uscito. Bill (Bill!) gli ha mandato un
terrificante messaggio d’insulti sul sistema di posta elettronica:
si lamenta di una parte del programma che ha scritto. Secondo l’indice
dei fumetti-«Bloom County»-incollati-sulla-porta, Michael è di
sicuro il programmatore più intelligente nell’Edificio Sette e non
è il tipo da accettare con disinvoltura le critiche. L’esatta
ragione per cui Bill abbia scelto Michael, tra tutti noi, per dar voce
alle sue lamentele è oggetto di ipotesi confuse.Forse si tratta di un
controllo casuale della qualità del prodotto, tanto per mantenere in
riga le truppe. Bill è così intelligente. Bill è saggio. Bill è
gentile. Bill è benevolo. Bill, sii mio amico... per favore! [...]
L’inferno delle consegne è andato avanti anche oggi. Macinare,
macinare, macinare. Non ce la faremo mai. Continuo a dirlo. Perché
sottovalutiamo sempre le nostre tabelle di consegna? Proprio non lo
capisco. Dentro alle 9 e 30, fuori alle 11 e 30 di sera. Da Domino per
cena e tre Diet-coke. Oggi sono stato sopraffatto dalla noia un paio
di volte e allora mi sono messo a controllare sul mio WinQuote, l’estensione
che fornisce aggiornamenti continui sulla quotazione in borsa della
Microsoft. Era sabato e quindi non era possibile che i dati
cambiassero, ma io continuavo a dimenticarmelo. La forza dell’abitudine.
Le borse di Tokio o di Hong Kong sarebbero state in grado di provocare
qualche fluttuazione? Quasi tutti i membri dello staff danno un’occhiata
ogni tanto, nel corso della giornata alle quote di guadagni. Voglio
dire, se sei proprietario di 10.000 azioni (e tonnellate di membri
dello staff ne hanno molte di più) e il prezzo del pacchetto aumenta
di un milione, hai appena moltiplicato per dieci il tuo patrimonio! Ma
ugualmente se scende di due dollari, l’hai appena ridotto di venti
volte.[...]
Venerdì, la borsa ha chiuso a un dollaro e 75. Bill possiede
78.000.000 azioni, e questo significa che si è arricchito di 136,5
milioni di dollari. Io quasi non ho un pacchetto azionario: significa
che sono un perdente.
Bill, lo avete certo riconosciuto, è Bill Gates, fondatore della
Microsoft. Bill non è un vero padrone. Scrive messaggi personali ai
suoi collaboratori (non dipendenti) ed è per tutti solo Bill. Alla
Microsoft, del resto, non ci sono veri dipendenti. La maggior parte
dei membri è azionista dell’azienda e non ci sono orari: nessun
cartellino da timbrare. Gli uffici sono sempre aperti, così che si
può entrare e uscire quando si vuole. Si può dormire fino a tardi e
lavorare di notte, se lo si vuole. Il solo vincolo è definito dalle
date di consegna, per il resto ognuno si organizza come crede. La
Microsoft, non è nemmeno soltanto un’azienda. Concepita come un
campus, è infatti un luogo in cui si vive. Chi lavora alla Microsoft
vive nella Microsoft. Case, attrezzature sportive e un indotto
creatosi intorno alla grande azienda, che prolunga all’esterno l’atmosfera
interna, definiscono l’universo degli operatori Microsoft. La
Microsoft è una comunità.
E di sindacato, ovviamente, nemmeno a parlarne. Perché, poi? Non
sono, forse, gli operatori, con le loro azioni, proprietari della
Microsoft? Anni fa, Frank Tannenbaum, formulava nei termini seguenti
la sua visione di come si sarebbe organizzata la società, quando i
lavoratori (sindacalmente organizzati) si sarebbero riconquistati la
proprietà aziendale, attraverso l’azionariato diffuso: «Uno dei
mutamenti che si celano nello sviluppo del sindacalismo è il
ristabilimento di un interesse proprietario dei lavoratori». E poco
più avanti: «Non c’è nulla, nella morale o nella politica
pubblica, che si opponga allo sviluppo dell’interesse proprietario
dei lavoratori attraverso le loro organizzazioni».
Sindacato a parte, Tannenbaum avrebbe potuto salutare (se solo non
avesse letto Douglas Coupland!) il progetto della Microsoft come la
realizzazione della sua utopia: i lavoratori-azionisti si
reimpossessano del loro lavoro, ponendo fine a quella separazione fra
proprietà e gestione che tanto aveva preoccupato il nostro autore.
Questa è naturalmente una forzatura; in verità, è difficile dire
cosa avrebbe pensato Tannenbaum della Microsoft, tanto più che è
difficile anche dire cosa ne pensiamo noi, dato che il romanzo di
Coupland ci lascia con un senso di agghiacciata solitudine che è
difficile decidere se riguardi l’essere umano o il lavoratore. È
vero, invece, che è dalla grande diffusione della borsa e delle
azioni che tutto è cominciato.
Per Tannenbaum, la capacità del sindacato di operare come veicolo
della raccolta di azioni per i lavoratori rappresentava l’unico modo
di porre rimedio a un fenomeno che stava profondamente modificando il
volto del mondo dell’impresa e del lavoro: la nascita delle grandi
corporations, capitanate non più da un «padrone» ma da uno staff di
manager, la cui proprietà è diffusa fra azionisti anonimi e
sufficientemente dispersi, sostanzialmente indifferenti all’andamento
dell’azienda, se non nei termini delle sue quotazioni in Borsa.
«L’epoca del possesso in proprio da parte dell’individuo, della
famiglia o della società», scrive Tannenbaum, «quando i mezzi per
vivere che se ne dovevano ricavare dipendevano dalla cura costante dei
dettagli e dall’esercizio della responsabilità personale, ha ceduto
il posto in misura sempre maggiore a un rapporto fluido e impersonale
nelle industrie da cui gli uomini ricavano il proprio sostentamento.
La novità della corporation non consiste soltanto nelle sue
dimensioni o nella sua grande ricchezza, ma nelle conseguenze che ha
avuto sulla proprietà. Sotto forma associativa il compratore di
titoli ha una proprietà della quale si può spogliare nel giro di
pochi minuti. [...] Gli azionisti posseggono l’impresa, ma non ne
conoscono affatto i dirigenti; non conoscono neppure i nomi dei membri
del consiglio di amministrazione; non possono prendere decisioni
amministrative che influenzino in alcun modo l’andamento dell’impresa;
non sentono alcuna diretta responsabilità nelle operazioni compiute e
sarebbero incapaci di esprimere, se richiesti, un corretto giudizio
sul gran numero di problemi dell’impresa. [...] È accaduto che la
proprietà si è trasformata in un diritto indefinito di fronte a una
società per azioni diretta da gente che non la possiede».
Il problema che Tannenbaum ha cercato tanto di rendere evidente in
tutta la sua gravità, quanto di risolvere in termini filosofici era
quello, già maturato negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, della
separazione fra proprietà e lavoro, a causa dell’imporsi delle
grandi corporations come forma organizzativa dell’industria.
Tannenbaum vedeva bene come questa separazione deresponsabilizzasse la
proprietà (ormai solo di azionisti) rispetto a quanto accadeva in
fabbrica (o in qualunque posto di lavoro), separandola così tanto dai
suoi effettivi gestori quanto dai lavoratori. Una proprietà siffatta
non fa il bene dell’azienda e, dunque, nemmeno della società. Un
azionista (anonimo fra migliaia di altri azionisti) non ha interesse
nella produzione, nell’organizzazione, nella gestione. Non sa che
cosa l’azienda faccia. Non ha rapporto con i lavoratori, così come
i lavoratori non hanno rapporto alcuno con una proprietà così
immateriale. Questo, per Tannenbaum, avrebbe innescato un processo di
deresponsabilizzazione, tanto dei proprietari quanto dei lavoratori,
che alla fine doveva distruggere l’industria e con essa il benessere
che ci procura. Non solo. La spersonalizzazione della proprietà, con
la conseguente completa spersonalizzazione della responsabilità, era
tanto più grave quanto più le corporations si configuravano - in
termini di ricchezza e di influenza - come una sorta di Stato nello
Stato.
«È da notare», scrive ancora Tannenbaum, «che all’isolamento
individuale e alla fluidità si è accompagnata la concentrazione del
potere in società per azioni, in società finanziarie e in cartelli.
Abbiamo così una crescente impotenza sia del proprietario che del
lavoratore, accompagnata da un aumento delle dimensioni, della potenza
e del dominio dell’impresa. [...] Prima della guerra, esistevano
negli Stati Uniti trenta corporations i cui beni ammontavano a un
miliardo di dollari ciascuno. Ognuna di queste gigantesche unità
economiche è più ricca di molti Stati americani o di Stati sovrani
stranieri».
Se i dati di Tannenbaum appaiono ormai invecchiati è solo in senso
diminutivo. Per avere un’idea delle dimensioni attuali si
considerino questi dati forniti da Giulio Sapelli: «La prima azienda
al mondo per capitalizzazione borsistica, la General Electric (Usa),
capitalizza in Borsa circa 200.000.000.000 di dollari, ossia i due
terzi dell’intero valore della Borsa italiana. Se alla General
Electric aggiungiamo la Coca Cola (Usa), la seconda azienda
capitalizzata al mondo, [...] la somma delle loro capitalizzazioni
supera l’intera valore della Borsa italiana».
Esistono ragioni specifiche per cui le corporations si impongono come
un fenomeno prevalentemente americano, intendendo con questo sia il
fatto che è negli Stati Uniti che si sono inizialmente formate sia il
fatto che quelle americane restano le corporations più imponenti per
dimensioni e ricchezza. Torneremo più avanti su questo, cercando di
meglio definire la specificità italiana rispetto agli Stati Uniti.
Per ora invece, val la pena di segnalare come l’insieme dei problemi
che Tannenbaum poneva, di fronte al sorgere di questi immensi colossi
negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, è semplicemente intatto.
Adesso, semmai, esso si presenta con l’aggravante del carattere
multinazionale delle grandi corporations.
Non solo. Tannenbaum individuava anche, se si consente una lettura in
qualche misura orientata del suo lavoro, gli strumenti concettuali e
teorici con cui andavano affrontati i problemi che vedeva. A
Tannenbaum, infatti, importava dare una lettura morale dei problemi
che descriveva. Egli considerava un problema morale (e politico) il
tipo di rapporto che veniva a stabilirsi fra un’azienda ricca come e
più di uno Stato e lo Stato entro i cui confini essa si trovava a
operare. E considerava un problema morale il nuovo assetto che
venivano ad assumere le relazioni fra proprietà, management e lavoro.
Così come sottolineava fortemente il ruolo morale che il sindacato
doveva svolgere (e, secondo lui, di fatto svolgeva). Tannenbaum,
insomma, inventava, negli anni Cinquanta, quella che più tardi
sarebbe divenuta l’etica degli affari. Non solo. Inventava una
particolare versione di etica degli affari; la stessa che mi propongo
qui di specificare e difendere.
Prima di far questo e forse a solo giovamento dei (pochi) lettori di
Tannenbaum, devo precisare che a me non importa qui di entrare nel
merito della particolare costruzione di questo autore. Come ben
sottolinea il curatore della nuova edizione italiana, Tannenbaum è
per molti versi un autore superato nelle sue speculazioni più
teoriche riguardo alla funzione del sindacato, del lavoro e dei
rapporti fra lavoro e impresa. Impegnato com’è in una serrata
critica all’individualismo liberale (e alla sua fondazione teorica
contrattualistica), Tannenbaum fornisce una versione
ultra-comunitarista della fabbrica che, senza impegnarsi ora in una
querelle filosofica, può facilmente definirsi inaccettabile. Ma, come
ho detto, non sono questi gli aspetti più vivaci della filosofia di
Tannenbaum. L’aspetto vitale che a me importa sottolineare sta nell’importanza
che Tannenbaum attribuiva a una visione morale e politica delle
vicende tanto economiche quanto del lavoro e dei lavoratori che
trattava e che, inoltre, facesse questo tenendo sempre ben presente
come di fronte all’istituzione impresa veniva a trovarsi l’istituzione
sindacato.
Per comprendere il significato che attribuisco a questo esperimento,
rimasto per altro senza seguito, come dirò, occorre considerare
alcune cose. In particolare, occorre tener conto del fatto che
Tannenbaum è considerato una sorta di padre nobile delle relazioni
industriali e il suo libro «una delle più straordinarie introduzioni
all’esperienza sindacale (come vicenda storica e come esperienza
sociale e personale)». Tannenbaum, infatti, considerava inscindibili
le vicende dell’impresa da quelle del lavoro e da quelle del
sindacato. Questo significa che in Tannenbaum si trovano unificate le
istanze fondamentali dell’etica degli affari da una parte e delle
relazioni industriali dall’altra. E si trovano unificate come
questioni che non possono essere separate l’una dall’altra, pena l’inconsistenza
di entrambe.
Tannenbaum, tuttavia, non ha fatto scuola. Le cose sono andate al
contrario. L’etica degli affari, che delle due discipline è la più
recente, si è imposta indipendentemente da qualunque contatto con le
più vecchie relazioni industriali, e le relazioni industriali hanno
riservato una fredda indifferenza all’entrata in scena dell’etica
degli affari. Come è perché questa reciproca indifferenza si sia
instaurata non è a me noto. Si può ipotizzare che le due discipline
nascano da esperienze profondamente diverse e seguano quindi vie che
non facilitano questo incontro. Ma, al di là di queste ipotesi, il
punto per me centrale è mostrare come, in questo modo, entrambe hanno
perso qualcosa, come Tannenbaum sembrava aver compreso. Comunque sia
andata, l’intento centrale del mio lavoro consiste nel mostrare che
questo stato delle cose produce una perdita di capacità di
comprendere e valutare i problemi che ci stanno di fronte e che è
necessario, pertanto, tentare una riconciliazione delle due
prospettive.
L’idea è piuttosto semplice e, credo, non difficile da accettare.
Abbiamo visto come l’etica degli affari sia una disciplina
fortemente connotata dal paese in cui ha avuto origine, gli Stati
Uniti. Negli Stati Uniti, com’è noto, il ruolo, il potere e anche
le dimensioni del sindacato sono del tutto diverse, rispetto all’Europa
e, per quanto ci riguarda, all’Italia. Questo produce, nell’etica
degli affari una sistematica, e per il lettore italiano sorprendente,
sottovalutazione dell’importanza del sindacato come attore che opera
sia nella dimensione economica che in quella politica. La conseguenza
di ciò è che l’etica degli affari resta in Italia una disciplina
incompleta, se così posso esprimermi, tutta orientata a sottolineare
gli aspetti morali che sottostanno al rapporto fra società e azienda
e fra lavoratori e azienda e del tutto disinteressata a indagare il
rapporto fra sindacato e azienda e fra sindacato e lavoratori, nonché
- ma questo è un punto che lasceremo in sospeso - fra sindacato e
società. Questo è tanto più grave quando si consideri non solo,
come abbiamo detto, quanta importanza il sindacato abbia nella nostra
vita politica ed economica, ma anche quanto poco inclini siano gli
studiosi del sindacato e delle relazioni industriali a riconoscere la
valenza morale del ruolo del sindacato, come vedremo nella terza
parte.
In merito al ruolo del sindacato, voglio solo ricordare che il
sindacato in Italia ha un ruolo determinante nelle politiche sociali,
effettuando spesso scambi fra lavoro e prestazioni sociali. Questo
modifica sostanzialmente la natura del rapporto fra azienda e
lavoratori che smette di essere un rapporto a due per diventare un
rapporto più ampio a cui prendono parte attori politici (partiti) e
governativi. In tal modo, non solo diventa evidente la dimensione
politica che tutto ciò assume, e che l’etica degli affari non può
certo sottovalutare, ma si pongono tutta una serie di questioni che
non hanno evidentemente eguali in altri paesi. Per esempio, per chi
decide il sindacato? a che titolo rappresenta chi? quanta estensione
devono avere gli accordi che il sindacato sigla sia nelle aziende (a
entrambi i livelli di contrattazione) sia in ambito politico e
sociale?
Per lungo tempo, com’è noto, il sindacato ha preteso di
rappresentare una forza omogenea e coesa in contrapposizione -
economica e politica - al mercato. In questa ideale separazione della
società il sindacato si assumeva il compito di portavoce di un intero
blocco contro l’altro: ha parlato, infatti, a nome dei poveri, dei
disoccupati, dei pensionati, dei malati, delle donne, i cui interessi,
per quanto conflittuali potessero essere, erano accorpati dalla comune
appartenenza, presunta o reale, al lavoro dipendente. Naturalmente, le
cose non stanno più in questi termini. Il sindacato ha dovuto
prendere atto della parzialità degli interessi che rappresenta,
cominciando anche a mettere in questione - ma questo resta un punto
difficile - l’equivoco sin qui mantenuto circa la presunta
sovrapponibilità fra richieste di giustizia e richieste sindacali.
Fra gli studiosi di relazioni industriali, oltre che nel sindacato
stesso, la necessità di ridefinire ruolo e compiti del sindacato è
ormai divenuta esplicito oggetto di dibattito, con posizioni diverse.
Ma singolarmente, l’etica degli affari non ha saputo proporsi come
paradigma alternativo a quello delle relazioni industriali, in grado
di riformulare i termini della relazione fra lavoro, aziende, società
e sindacati, proprio perché, di fatto, è rimasta troppo ancorata
alla riflessione originatasi negli Stati Uniti, dove le questioni si
pongono ovviamente in modo diverso.
Mentre, dunque, nelle relazioni industriali e nel sindacato,
cominciava una riflessione su come ridefinire i rapporti fra mondo
degli affari e mondo del lavoro, fra istanze politiche e istanze
economiche e così via, l’etica degli affari, pur avendo tutte le
carte in regola per offrirsi come paradigma alternativo, non è stata
in grado di giocare questo ruolo, rimanendo non solo una disciplina
più marginale di quanto non potrebbe essere, ma lasciando fuori dai
suoi interessi alcune fra le questioni centrali che costituiscono il
dibattito politico.
Il mio punto, pertanto, è che se l’etica degli affari vuole giocare
un ruolo nelle vicende nazionali, se davvero vuole offrirsi come
efficace strumento per le aziende tanto quanto per i lavoratori e per
il sindacato, deve dotarsi di tutte le competenze che la mettano in
condizione di intervenire nel merito delle questioni che realmente
definiscono l’agenda nel nostro paese. Il primo passo per far questo
è certo costituito dallo stabilire un legame con le relazioni
industriali, sia in termini di critica a queste, nella misura in cui
non si mostrano più in grado di concettualizzare le pretese morali
che il sindacato avanza sia, d’altro canto, in termini di
integrazione di tutto ciò che dalle relazioni industriali l’etica
degli affari può apprendere, in particolare per quanto attiene il
ruolo del sindacato e la dimensione politica a cui di fatto si svolge
il dibattito.
Voglio precisare che questa prospettiva non ha solo una valenza
teorica, non si tratta solo di migliorare lo statuto dell’etica
degli affari in questo paese, magari per dare più visibilità a chi
di etica degli affari si occupa. La questione, infatti, è pratica
tanto quanto teorica. Senza un’adeguata collocazione dell’etica
degli affari nel contesto del nostro paese, infatti, quello che si
rischia è che l’intero uso dell’etica degli affari si riduca a
una sorta di fiore all’occhiello di aziende che ne vedano e ne
vogliano sfruttare l’effetto di immagine, per così dire, ma del
tutto marginale rispetto ai problemi reali nonché alle vere sedi in
cui si decide.
Che senso ha, per dire, che lo studioso di etica degli affari scriva
articolate pagine sui rapporti fra impresa e lavoratori senza mai
andare a guardare cosa si contratta nei luoghi di lavoro, sulla base
di quali teorizzazioni, con quali decisioni da parte chi e per quali
ragioni. E, allo stesso modo, che importa che l’etica degli affari
ponga in agenda il rapporto fra l’azienda e la comunità se poi
questo si scontra con il potere di rappresentanza del sindacato che è
in grado di imporre certe soluzioni piuttosto che altre, qualunque
cosa l’etica degli affari dica?
Ho detto all’inizio che l’etica degli affari ha direttamente a che
fare con la particolare conformazione della proprietà che le grandi
aziende prendono nel corso degli anni Cinquanta. Con l’imporsi di un
azionariato diffuso che separa la proprietà dalla gestione si pone il
problema del controllo sui manager che si trovano in condizione (data
la fluidità della proprietà) di decidere in assenza di vincoli
sostanziali o, d’altra parte, di affidare la loro lealtà a piccoli
gruppi di azionisti, per varie ragioni capaci di effettuare un
controllo sull’azienda non paragonabile a quello di altri azionisti.
Ora, proprio questo tipo di problema - e lo vedremo più avanti con
più precisione - ha determinato un aspetto essenziale dell’etica
degli affari che è, infatti, fortemente concentrata sul problema
della responsabilità del manager e dei dirigenti in generale.
Ora, il problema della responsabilità chiama immediatamente in causa
aspetti della moralità privata di ciascuno che viene, per così dire,
responsabilizzato a prendere sul serio la valenza morale delle proprie
decisioni. Quello che intendo sostenere è che questa prospettiva è
troppo restrittiva per gli scopi che ci proponiamo, che le questioni
più salienti, in particolare per la forma di capitalismo del nostro
paese, sono di natura diversa, e in special modo tali da chiamare in
causa più una dimensione di etica pubblica che di etica privata e di
responsabilità.
Se quanto abbiamo detto sin qui è condivisibile, un esito essenziale
consiste nel mettere in rilievo come l’etica degli affari abbia
rilevanza, almeno certamente da noi, politica piuttosto che morale,
che chiami in causa più questioni di etica pubblica che non questioni
di moralità privata. Di conseguenza, il prossimo passo che mi accingo
a compiere, dopo questa, forse troppo lunga e, tuttavia, spero utile
introduzione è quello di presentare una critica all’etica degli
affari mossa da una prospettiva di etica pubblica, più che privata e,
di seguito, presentare alcuni limiti delle relazioni industriali
rispetto a cui l’etica degli affari sembra offrire un rimedio.
Problemi della stakeholder analysis
Come disciplina di recente, anche se non più recentissima,
affermazione, l’etica degli affari richiede in primo luogo una
definizione: cosa si intende per etica degli affari?
L’etica degli affari si afferma essenzialmente come disciplina
filosofica; viene insegnata da filosofi, si rivolge a teorie
filosofiche di più ampia portata, morali o politiche, opera con
nozioni essenzialmente filosofiche. L’etica degli affari appartiene
a quella branca di discipline che si definiscono etica applicata (ma
filosofia applicata non sarebbe improprio) e che operano con una
maggiore sensibilità sociologica, se così vogliamo chiamare una più
spiccata attenzione ai problemi concreti e locali. Questo, però,
ancora non spiega l’esistenza di un ambito disciplinare a tutta
prima singolare come l’etica degli affari. Infatti, non si potrebbe
legittimamente pensare che «etica degli affari» sia solo un gioco di
parole, qualcosa che esprime quasi una contraddizione in termini? Cosa
intende chi dell’etica degli affari ha fatto la sua
specializzazione?
Quasi tutti i manuali di etica degli affari cominciano con questo tipo
di domande, nel tentativo di spiegare in che modo perché l’etica
abbia rilevanza all’interno del mondo degli affari. In generale, in
questa prospettiva l’etica degli affari viene concepita come una
nuova disciplina che si propone di «portare» la riflessione etica
all’interno delle valutazioni pertinenti nel mondo degli affari.
Questo significa, assumere come oggetto dell’etica degli affari la
possibilità di orientare (o vincolare) in senso morale i
comportamenti aziendali sia all’interno che all’esterno: dei
lavoratori e verso i lavoratori dell’azienda, verso i clienti o
verso la comunità più ampia, che può estendersi all’intera
umanità, quando i danni procurabili siano di natura ambientale, per
esempio, e di vasta portata.
In questa ottica, l’etica degli affari è spesso concepita come un’indagine
morale sulle responsabilità individuali che possono essere del
manager, spesso, oppure dei singoli lavoratori. L’idea al centro di
questa concezione dell’etica è che ciascuno possa essere indotto,
nelle circostanze appropriate, a riconoscere un problema morale e ad
affrontarlo secondo una qualche concezione etica. La realizzazione dei
codici etici per le aziende segue, evidentemente, una logica di questo
genere. Così intesa, l’etica degli affari ha come problema centrale
quello del reperimento delle risorse motivazionali per l’adozione di
una prospettiva morale. Perché, dopo tutto, bisognerebbe essere
morali in circostanze che, per definizione, sono dominate dall’interesse
e dal profitto? Come ci si può aspettare che il mercato sia soggetto
alla morale o che un manager smetta di pensare a come migliorare le
quotazioni dell’azienda e si metta a fare il filantropo? E, d’altro
canto, perché mai un lavoratore, la cui unica motivazione al lavoro
è data dal suo salario, dovrebbe sentirsi moralmente obbligato nei
confronti del suo datore di lavoro?
L’etica degli affari trova soluzioni diverse a problemi di questo
genere, non sempre soddisfacenti. Fra queste, la più articolata e
teoricamente sofisticata è certamente quella che individua negli
interessi dei soggetti coinvolti (gli stakeholders) e nella
responsabilità di chi quegli interessi tocca, la necessità di
prendere sul serio una prospettiva morale, in cui è implicito il
rispetto di quegli interessi. In altri casi, si cercano soluzioni più
compatibili con la vocazione economica del mercato, per esempio,
mostrando come l’adozione di una prospettiva morale possa essere
vantaggiosa per l’azienda e dunque parte delle sue stesse strategie.
L’idea qui ha un duplice aspetto. Per un verso, si tratta di
mostrare come l’azienda possa avere un ritorno di immagine dal
presentarsi sul mercato come azienda moralmente impegnata. Dall’altro,
si tratta di mostrare come l’adozione di una prospettiva morale
rappresenti una strategia vantaggiosa per l’azienda che evita,
così, di incorrere in sanzioni di tipo morale. Tutti ricorderanno il
caso recente della Nike che ha subito una forte campagna di
boicottaggio a causa dello sfruttamento di lavoro minorile in Vietnam.
Ciascuna di queste strategie presenta i suoi vantaggi e i suoi limiti,
evidentemente. È chiaro, infatti, per ciò che riguarda i tentativi
del secondo tipo, che l’idea di collegare così strettamente etica e
strategie economiche, tanto da farne tutt’uno, ha il vantaggio di
eliminare il problema motivazionale (perché dovrei essere morale
negli affari?), ma l’essenziale inconveniente di essere poco etico,
per così dire: se solo l’etica dovesse smettere di essere
conveniente o se, in un caso particolare, un’azienda dovesse trovare
più vantaggioso non essere etica piuttosto che esserlo, allora,
naturalmente, si potrebbe semplicemente abbandonare l’etica.
Sembrerebbe che l’adozione di una prospettiva etica necessiti di un
vincolo più forte del particolare vantaggio dell’azienda, ma non è
chiaro dove rintracciarlo. I tentativi basati sulla responsabilità,
in special modo del manager, nei confronti dei soggetti coinvolti,
cercano evidentemente di offrire questo vincolo più forte, ma come
cercherò di mostrare, anch’essi falliscono. Avanzerò, quindi, l’ipotesi
che il loro fallimento dipende dal fatto di condividere con le
precedenti ipotesi un’impostazione che sottovaluta la dimensione
politica.
Come ho detto, il mio tentativo è quello di rendere più evidente e
più significativa la dimensione politica dell’etica degli affari
sulla base dell’idea che solo a questo livello l’etica degli
affari si mostri davvero in grado di fare i conti con i problemi che
determinano la nostra agenda politica. Di conseguenza, quello che
vorrei proporre è una concezione diversa dell’etica degli affari in
cui la questione centrale non è cercare di indurre qualcuno ad avere
un comportamento etico nel mercato, cosa che si può e si deve fare
attraverso l’istituzione, per esempio, dei codici etici, ma quello
di definire un quadro normativo che ci metta in condizione di
stabilire quali sono gli interessi rilevanti, come debbano essere
trattati e così via.
Comincerò, dunque, col presentare la più sofisticata delle forme di
analisi che l’etica degli affari adotta: la stakeholder analysis per
mostrare, come ho detto, che anch’essa non riesce a fornire un
quadro esaustivo di ciò che possiamo aspettarci dall’etica degli
affari. Come si vedrà, il problema che viene presentato rappresenta
una riformulazione, in termini più sistematici e con il vocabolario
dell’etica degli affari, dei problemi presentati nell’introduzione
in forma più discorsiva.
E la prima cosa da chiarire, a questo riguardo, è l’uso dell’espressione
stakeholder analysis che può, a tutta prima, sorprendere. In
generale, infatti, in letteratura gli stakeholders non sono un modello
di analisi ma soggetti, cioè individui o gruppi o associazioni che
hanno variamente a che fare con un’impresa. Stakeholders è un
neologismo coniato a partire dal termine di uso, invece, corrente
stockholders, vale a dire azionisti. Le ragioni di questo slittamento
dell’ambito di pertinenza disciplinare hanno molto a che fare con
quanto si diceva in apertura di questo lavoro. Come sappiamo, infatti,
l’origine dell’etica degli affari si può far risalire alla
separazione fra proprietà e dirigenza (e quindi lavoro), dovuta all’imporsi
delle corporations che hanno progressivamente sostituito le aziende di
medie e piccole dimensioni. Come è stato sostenuto: «Nel Novecento
[...] la grande impresa americana si afferma come organizzazione
quotidianamente controllata e diretta non più dai rappresentanti
delle famiglie proprietarie [ma] da coorti di manager stipendiati».
Come abbiamo detto, questo creava una grande quantità di problemi, e
forse anche di più che legittime ansie, dovuti alla generale
sensazioni di perdita di controllo di un complesso semi-istituzionale
che andava facendosi sempre più grande e potente. Evidentemente, se
la proprietà non è più né visibile né presente, chi controlla i
manager? A chi rispondono i manager? Quali sono i loro limiti e quali
i loro poteri?
Non sorprende, dunque, che il primo nucleo di problemi che ha
interessato l’etica degli affari riguardasse proprio la relazione
fra manager e stockholders, nel tentativo appunto di definire - a
fronte di una proprietà gioco forza disinteressata alla gestione
(perché semplicemente inconsapevole) - le responsabilità
manageriali. Questo tipo di problemi, ingigantito dalla forma
multinazionale che hanno assunto le corporations, viene adesso
solitamente trattato sotto la dicitura di corporate governance, almeno
secondo un’interpretazione sufficientemente restrittiva dell’espressione
corporate governance. L’etica degli affari, invece, come dicevamo,
ha trovato sempre più limitato l’ambito delle relazioni
stockholders/management come il solo pertinente, assumendo come
migliore e più appropriato riferimento gli stakeholders, vale a dire,
lo ripeto, chiunque entri, volente o nolente, in relazione con un’azienda.
Si vede bene, dunque, come gli stakeholders possano essere una
varietà assai ampia di individui o gruppi. Oltre, ai più immediati
soggetti a cui si può pensare - i lavoratori, in primo luogo, i
fornitori, altre aziende con cui si è in relazione - gli stakeholders
possono allargarsi a comprendere gli abitanti dell’area in cui l’azienda
si trova o le istituzioni politiche. E questo è ovviamente importante
nei casi, per esempio, di un’azienda inquinante, ma anche nei casi
in cui l’azienda rappresenti una fonte essenziale di benessere per i
cittadini, essendo la loro unica possibilità di lavoro. Assumendo
come riferimento gli stakeholders (piuttosto che gli stockholders), l’etica
degli affari intende dunque occuparsi di questo tipo di questioni.
Il punto per noi rilevante qui è il seguente: come è stato
sostenuto, l’etica degli affari tende a considerare gli stakeholders
come aventi di per sé una valenza morale, così che una volta che
siano assunte, di fronte a quelle aziendali, le richieste degli
stakeholders, abbiamo già chiamato in causa l’etica. Come ha
scritto Kenneth Goodpaster: «I valori etici, viene spesso suggerito,
entrano nel processo di decisione manageriale per la via della
stakeholder analysis. Ma l’idea che introdurre la stakeholder
analysis nelle decisioni di affari equivalga a introdurre l’etica in
quelle decisioni è discutibile».
La tesi di Goodpaster è che ad essere moralmente rilevanti non sono
le prospettive introdotte dagli stakeholders che, in quanto tali, non
dicono ancora niente, ma le soluzioni che si individuano a fronte di
richieste contrastanti. Dire semplicemente che vi sono persone che
vengono toccate nei loro interessi da comportamenti aziendali
significa poco da un punto di vista morale. Quello che conta è come
tratteremo questi interessi quando andremo a cercare una soluzione. A
me sembra che questo punto sia cruciale, ma il mio tentativo di
analizzarne le implicazioni, nonché di spiegarne le ragioni, è
diverso da quello compiuto da Goodpaster.
La mia idea, infatti, è che Goodpaster, una volta individuata questa
debolezza di fondo della stakeholder analysis, non vada poi fino in
fondo a cercare di capire come si generi questo errore prospettico,
sfruttando meno di quanto si potrebbe la sua felice intuizione. A mio
avviso, infatti, la debolezza originaria sta nel non attribuire un
peso sufficiente alla dimensione politica dell’etica degli affari.
Ma, a questo punto, devo necessariamente chiarire cosa intendo per
dimensione politica, e voglio farlo servendomi di un caso. Il caso,
che fece abbastanza rumore in Italia all’inizio degli anni Ottanta,
riguarda l’Acna di Cengio, una grande fabbrica che produceva, all’inizio,
esplosivi e, poi, prodotti intermedi per coloranti. L’Acna è
situata al confine fra Piemonte e Liguria e assai vicina al fiume
Bormida di cui inquinava le acque (dico inquinava, perché le
produzioni sono ormai quasi sospese). La vicenda dell’Acna fu molto
lunga e complicata, coinvolse una gran quantità di attori
istituzionali (compreso l’allora ministro dell’Ambiente Giorgio
Ruffolo), associazioni locali di matrice ambientalista che si
costituirono per l’occasione, talune delle quali avevano per
obiettivo la chiusura definitiva dell’azienda e, infine, il
sindacato. E proprio il sindacato è l’attore che qui più
interessa.
Come si può immaginare, infatti, quando le proteste cominciarono a
farsi più minacciose, i lavoratori cominciarono a temere seriamente
la perdita del posto di lavoro. Con grande imbarazzo del sindacato,
essi si schierarono al fianco del management aziendale per difendere l’azienda
contro le ipotesi, ormai sempre più credibili, di chiusura. Che i
lavoratori si siano schierati dalla parte dell’azienda per difendere
il loro posto di lavoro è tutt’altro che incomprensibile. Assai
meno però lo è il comportamento del sindacato e i suoi imbarazzi. Il
sindacato mantenne, infatti, una posizione ambigua sino alla fine, con
conflitti fra livello locale e livello confederale, con prese di
distanza dai lavoratori stessi e distinguo più o meno capziosi dal
management. Di fondo, il sindacato si trovava (e sempre più si trova)
in una posizione assolutamente scomoda, in quanto il suo ruolo di
istituzione quasi-pubblica, con pretese di rappresentanza generale, e
il suo ruolo di difensore di interessi parziali confliggono.
Cosa voglio dire con tutto ciò? Proviamo a considerare la vicenda
dell’Acna di Cengio secondo la stakeholder analysis. Tutto quello
che essa è in grado di dirci è che vi erano interessi conflittuali
in gioco, non quale fosse la soluzione all’intera vicenda. Cosa
bisognava fare? Quali erano gli interessi legittimi in gioco? Che
rilevanza ha, nella stakeholder analysis, il fatto che lavoratori e
management avessero la stessa opinione? E come può la stakeholder
analysis dar conto del conflitto, sorprendente, fra sindacato e
lavoratori e fra vertice e base del sindacato?
Un aspetto cruciale della insufficienza della stakeholder analysis
consiste nel fatto che non solo anticipa troppo la soluzione,
affidando alla sola chiamata in causa di interessi diversi (e
conseguente attribuzione di responsabilità) l’emergere dell’etica
nel mercato, ma non è in grado di farci vedere quali sono gli
interessi legittimi e quali no. Con un’attenzione tutta spostata
sulle eventuali responsabilità di chi deve prendere decisioni (ma
senza badare troppo al fatto che sono in molti a dover prendere
decisioni), la stakeholder analysis riduce tutto a una questione di
etica privata, lasciando fuori le questioni più interessanti di etica
pubblica.
I punti per me cruciali, dunque, in quanto sin qui detto, sono i
seguenti. La stakeholder analysis è insufficiente, da un punto di
vista teorico, in quanto non è in grado di prospettare soluzioni
significative ai problemi che pretende di trattare. Ma il sospetto
più di fondo è che la stakeholder analysis rappresenti un modo per
«moralizzare» i comportamenti aziendali pur sancendo, in definitiva,
che v’è un solo arbitro della moralità, il manager, che dovrà
prendere le decisioni definitive. Io credo che questo modo di
procedere sia, per un verso, poco realistico e, per un altro verso,
non particolarmente fondato da un punto di vista morale. Infatti, da
una parte non è vero che, come ho cercato di mostrare con il caso
Acna, vi sia un solo decisore che deve valutare gli interessi in campo
e prendere la migliore decisione da un punto di vista morale. In
verità, molte decisioni, e specialmente quelle che riguardano aspetti
morali, vengono prese in azienda cercando di coinvolgere il sindacato
e spesso anche parti politiche. Non solo. Credo anche che il
coinvolgimento del sindacato, spesso anche sfidando le resistenze di
quest’ultimo, dovrebbe essere un elemento di primario interesse per
l’etica degli affari, e questo non solo perché in questo modo si
può creare molta più democrazia nelle aziende, si può rendere
partecipi delle decisioni persone direttamente coinvolte nella
produzione, quali i lavoratori sono, ma, dall’altra parte, si può
anche rendere il sindacato più responsabile sia nei confronti dei
lavoratori, sia nei confronti dell’intera società.
Un’azienda che si ponga il problema di migliorare le condizioni di
lavoro all’interno delle aziende, problema che a me pare piuttosto
determinante nel quadro dell’etica degli affari, non lo fa
indipendentemente dal sindacato; così come, un’azienda che intenda
licenziare o riqualificare i lavoratori o investire in formazione ha
bisogno del sindacato e decide tutto questo, al meglio, con il
sindacato. Allo stesso modo, a me sembra, che vi sia una sempre
maggiore necessità del coinvolgimento diretto del sindacato nelle
decisioni aziendali; che questo sia un bene tanto per il lavoro e i
lavoratori quanto per l’azienda. Finita l’epoca di una
contrapposizione fra un datore di lavoro concepito come colui che
cerca di estorcere più lavoro che può dai lavoratori, i quali
cercano di darne il meno che possono, finita l’epoca in cui la sola
relazione possibile fra lavoratori e impresa è quella dello
sfruttamento e della contrapposizione, appare un bisogno evidente di
una nuova base sia teorica che reale che determini come devono essere
regolati i rapporti fra azienda e lavoratori da una parte e società
dall’altra parte.
È centrale, pertanto, da questo punto di vista, che l’etica degli
affari non si esaurisca nel proposito di rendere morali i
comportamenti del decisore, mostrandogli come esistono altri interessi
in gioco.
Per una concezione politica dell’etica degli affari
Sono ora in grado di chiarire cosa intendo quando parlo di dimensione
politica o di etica pubblica piuttosto che privata, nell’etica degli
affari. Quello che vorrei proporre, infatti, è di concepire l’etica
degli affari come una disciplina a due livelli. Uno, quello a cui
abbiamo appena accennato, riguarda la dimensione più locale e
individuale dell’etica.
Qui il punto riguarda i comportamenti dei singoli, le loro decisioni e
scelte che vanno valutate da un punto di vista morale. V’è però
anche un altro livello, la cui connotazione è più politica, in cui l’etica
degli affari non ha tanto a che fare con i singoli individui ma con l’assetto
delle istituzioni principali; il mercato, il mercato del lavoro, il
rapporto fra società e mercato e così via. In questa luce, l’etica
degli affari viene concepita più che come una disciplina da inventare
ex novo, come una sistematizzazione di ambiti disciplinari già
esistenti. Assumiamo, cioè, che l’etica degli affari non debba
occuparsi soltanto di indurre comportamenti etici nel mercato, e
stabiliamo che un compito essenziale dell’etica degli affari sia
quello di determinare quali siano i problemi etici che il mercato pone
e quale sarebbe un tipo di organizzazioni sociale in cui tali problemi
siano risolti nel modo migliore che ci è disponibile. In questa luce,
il nostro problema non è più reperire le risorse motivazionali per
«portare l’etica nel mondo degli affari», in qualunque modo
intendiamo farlo, ma invece stabilire, da principio, quali sono i
problemi che hanno un rilevanza etica, entro la prospettiva che
assumiamo. In questa concezione l’etica degli affari ha meno a che
fare con le tradizionali teorie morali che cercano di spiegare in che
modo mi devo comportare in certe circostanze e più a che fare con le
teorie politiche che cercano di rispondere a problemi quali: qual è l’assetto
giusto delle istituzioni e, in particolare, delle istituzioni
economiche?
Distinguendo fra un piano più specificamente morale e uno più
politico non intendo presentare una distinzione fra elementi morali ed
elementi di maggiore realismo, spesso associati all’idea del
politico. Per politica io intendo una dimensione che sia ancora
vincolata a un punto di vista morale, ma che, a differenza della
morale, non assuma come oggetto le motivazioni o le azioni
individuali. La mia idea è che la politica si occupa dell’assetto
delle istituzioni più che delle motivazioni individuali e dunque che
il compito dell’etica degli affari intesa come disciplina più
politica che morale è quello di provare a individuare come devono
essere regolati i rapporti fra grandi istituzioni come il mercato e il
lavoro, il mondo produttivo e la società nel suo complesso. E
proporrò di intendere la regolazione di questi rapporti nella forma,
astratta di un patto che debba essere sottoscritto, fra gli individui.
Per comprendere meglio la distinzione che ho cercato di tracciare fra
una prospettiva morale e una politica, all’interno dell’etica
degli affari, può essere utile un esempio. Con ogni probabilità noi
pensiamo che chiunque si trovi nelle condizioni di farlo ha il dovere
morale di adoperarsi per tentare di diminuire le sofferenze dei più
poveri. Critichiamo come immorale il comportamento degli egoisti e
sentiamo spesso senso di colpa per aver fatto troppo poco quando ci
troviamo di fronte ai barboni che vivono agli angoli delle strade.
Questa è certamente una parte essenziale della nostra sensibilità
morale. Noi abbiamo certamente un senso morale e ci poniamo problemi
morali. Quando ci troviamo di fronte a problemi di questo tipo, noi
non pensiamo che una buona soluzione possa essere affidata alla
moralità individuale. Per questo genere di problemi noi adottiamo
soluzioni politiche e istituzionali. Pensiamo che ci debbano essere
istituti ad hoc, i servizi sociali, le forme più avanzate di stato
sociale e così via, che risolvano il problema. Questo evidentemente
non ci esime da responsabilità morali in tutta una serie di
circostanze che ci investono direttamente. Immaginate che un barbone
si presenti alla porta di casa per chiedervi se può entrare e fare
una doccia! Che fare? Dirgli che non abbiamo mai evaso le tasse e che
quindi abbiamo pagato perché lui avesse assistenza sarebbe un gesto a
dir poco vigliacco.
La distinzione interna all’etica degli affari fra un livello
politico e uno morale è qualcosa di molto simile a quello che l’esempio
suggerisce: vi è un livello di moralità privata che nessuna etica
pubblica è in grado di rimpiazzare. Continuamente noi ci troviamo di
fronte a problemi che hanno connotazione morale e che dobbiamo
decidere come affrontare. Ma questo non esaurisce la dimensione etica
delle questioni, e anzi ne costituisce solo una parte. A un livello
più ampio, infatti, noi non vogliamo che tutto sia affidato alla
capacità del singolo di trovare una buona risposta (ammesso che vi
sia) a ciascuna singola questione. Quello di cui abbiamo bisogno è un
quadro più ampio di regole che stabilisca i principi generali che
devono informare le nostre decisioni e i nostri comportamenti e
regolare i rapporti fra le diverse istituzioni.
La distinzione fra i due livelli, ha il vantaggio di lasciare intatta
la dimensione morale, che c’è e resta, e che è fondamentale ai
fini di uno strumento assai importante dell’etica degli affari: i
codici etici. Nella mia lettura, infatti, i codici rappresentano un
modo di autovincolarsi dei soggetti (per esempio, di una specifica
azienda) sulla base dell’assunzione di una prospettiva morale. Ma
questo modo di autovincolarsi è inserito in un quadro più ampio in
cui siano definite le regole che - indipendentemente dalla volontà
dei singoli e dall’avere loro o meno risorse motivazionali da
spendere - aiuta a identificare quali conflitti sono salienti e quali
soluzioni di tali conflitti possono essere definite morali.
Un vantaggio di intendere in questo modo l’etica degli affari, anche
se si tratta solo di un vantaggio teorico, è dato dal fatto che si
può concepire l’etica degli affari non tanto come una nuova
disciplina di cui debba esser definito l’oggetto (per esempio, come
si può essere morali nel mercato), ma come un tentativo di
sistematizzazione di una varietà di ambiti di indagine, di interessi
e ricerche che datano ben prima della sua nascita. Pescando a caso fra
gli autori che più immediatamente possono venire in mente, da Marx a
Schumpeter, da Locke a Rawls, ciascuno di questi ha scritto pagine che
potrebbero certamente trovare posto in un manuale di etica degli
affari. Le pagine di Marx sull’alienazione, o sull’organizzazione
del lavoro in fabbrica, oppure le tesi di Rawls sulla società come
impresa cooperativa in cui ciascuno ha diritto di avanzare una
richiesta sui benefici della cooperazione perché ha contribuito a
produrli, sono tutte tesi che hanno evidentemente a che fare con ciò
che possiamo intendere per etica degli affari.
Possiamo riprendere, solo per fare un esempio, una pagina di
Schumpeter, per mostrare come l’etica degli affari fosse già in
nuce, ben prima che fosse istituzionalizzata come disciplina. Scrive,
infatti, Schumpeter:
Il tipo moderno di capitano di industria si distingue da quello detto
[il capitalista che vede fuse in sé le funzioni di proprietario e
imprenditore]. La sua posizione di imprenditore poggia di norma sulla
proprietà o sul potere di disporre di maggioranze azionarie; in quest’ultimo
caso in definitiva poggia sull’influenza personale nei confronti dei
capitalisti e in particolare nei confronti delle banche che detengono
tali maggioranze. Esteriormente, la posizione in questione trova in
genere espressione in quelle posizioni create dall’evoluzione del
diritto societario (presidente, consigliere di amministrazione che
dirige o conduce gli affari, administrateur delegué, eccetera). Un
uomo di questo tipo non ha necessariamente rapporto con una fabbrica o
una maestranza concreta. Si limita ad orientare la direzione generale
della politica commerciale delle sue società, fa di esse o con esse
qualcosa di nuovo, decide nelle situazioni pericolose. Non è
semplicemente il rappresentante dei propri interessi o di quelli della
sua famiglia. Se lo è in maniera esclusiva, sia lui che gli altri
avvertono ciò come una cosa scorretta. [...] La «ditta» viene per
lui in secondo piano rispetto al «problema». La sua posizione nei
confronti degli operai è tipicamente diversa da quella del padrone di
fabbrica; e se ha spesso occasione di considerare nel singolo caso il
sindacato come un avversario, dato il suo modo di lavorare non
riuscirebbe tuttavia a far niente senza organizzazioni operaie.
Un’accusa che si potrebbe muovere all’impostazione che ho appena
presentato consiste nel sottolineare come in questo modo si vedono
sfumare i confini fra filosofia politica e etica degli affari. Dopo
tutto, si potrebbe affermare, tutti i problemi sin qui menzionati
(dall’inquinamento ai rapporti fra paesi poveri e ricchissime
corporations, dall’inquinamento alle regole che devono informare le
relazioni industriali) sono questioni politiche e non possono essere
assunte da una disciplina come l’etica degli affari. La mia risposta
a questa obiezione è che se è certamente vero che la mia prospettiva
sfuma la distinzione fra etica degli affari e filosofia politica,
tuttavia non li annulla. Essa ci consente, credo, da una parte di
aprire un quadro problematico per l’etica degli affari che sia più
denso di significato e più attinente ai temi che sono in discussione
sia nel mondo degli affari, sia nel mondo del lavoro e in quello
politico. Dall’altra parte, l’etica degli affari non esautora la
filosofia politica, avendo rispetto a questa, un campo di indagine e
di applicazione assai più specifico. In una teoria politica in senso
lato, non troveremo per esempio, una indagine in dettaglio del
rapporto fra datori di lavoro e lavoratori, perché questo esula dalla
pretese più generali della filosofia politica, mentre è
evidentemente un aspetto proprio dell’etica degli affari. Allo
stesso tempo, però, vengono evidenziati i punti di contatto
importanti che vi sono con la filosofia politica, ciò che costituisce
un punto di forza dell’etica degli affari, offrendo un quadro più
interessante di quello che si ferma all’individuazione delle
responsabilità morali.
La pretesa avalutativa delle relazioni industriali
Si può azzardare un’ipotesi sul perché alcuni importanti esponenti
dell’etica degli affari abbiano attribuito così grande importanza
alla prospettiva morale (dove per morale intendo sempre morale privata
e per politica sempre una prospettiva pubblica). Il loro orientamento
sembra infatti essere fortemente determinato dalla visione più
tradizionale sul mercato: il mercato come una free moral zone, in cui
l’introduzione di vincoli morali deve trovare adeguata
giustificazione, viceversa si tratta di arbitrio e persino danno per
il mercato, che viene implausibilmente limitato nella sua funzione
naturale di produrre profitto. Infatti, se si prende sul serio questa
prospettiva, tutto il problema dell’etica degli affari diventa
ovviamente quello di spiegare come sia possibile «portare l’etica
nel mondo degli affari», cioè in luogo al quale dovrebbe essere
estranea.
Io credo che questa visione abbia ampi limiti, se la si prende come l’unica
prospettiva morale che si può adottare nei confronti del mondo
economico. Mentre si può certamente difendere, ed è implicito nella
idea difesa sopra, di una dimensione politica dell’etica degli
affari, una visione sin da principio morale del mercato. Il mercato
influenza in modo determinante la vita di moltissime persone, chi
opera nel mercato è in grado di influenzare aspetti determinanti
della società, l’impatto del mercato e della produzione sulla
nostra qualità della vita è enorme ed evidente, di conseguenza è
privo di senso pensare che l’etica sia qualcosa di esterno al
mercato.
Quello che propongo pertanto è una definizione dell’etica degli
affari intesa come parte, più specialistica della filosofia politica,
più addentro di quanto lo sia quest’ultima alle questioni
economiche e di organizzazione del mercato del lavoro, ma che lavori
essenzialmente con gli strumenti della filosofia politica e in cui
trovi spazio una versione più astratta di come potrebbero e
dovrebbero essere regolati i rapporti all’interno di una società in
cui il mercato gioca una parte importante, ma non fuori dai vincoli
sociali.
Ma l’aspetto su cui vorrei tuttavia richiamare qui l’attenzione, e
a cui forse non si è badato a sufficienza, è che l’idea del
mercato come free moral zone, oltre a caratterizzare le versioni più
liberiste riguardo al mercato, è comune in verità a una disciplina
che pretende di porsi in netto conflitto con le visioni liberiste, le
relazioni industriali. La critica che vorrei muovere infatti, alle
relazioni industriali dal punto di vista di un’etica degli affari
definita così come abbiamo fatto è quella di mostrarsi
incomprensibilmente sorde a qualunque visione che faccia riferimento a
una prospettiva morale. Si può citare a questo riguardo l’affermazione
di Colin Crouch, esponente di rilievo nelle relazioni industriali,
secondo cui i discorsi di etica sono in sostanza poco più che sermoni
domenicali. In un libro che ha per titolo Etica e mercato, Crouch
scrive: «una critica morale del sistema economico esistente può
sembrare aria fresca [...] anche a coloro che la trovano persuasiva in
linea di principio. I sermoni sono per la domenica, non per i giorni
feriali. Gli argomenti che prendono forma di un invito al pentimento,
non connessi alla realtà istituzionale, possono sembrare sospetti
come sermoni».
Il punto è che le relazioni industriali, dominate come sono da una
visione economicistica prima e sociologica poi, sono così scarsamente
orientate all’idea secondo cui noi possiamo sottoporre a valutazione
gli assetti che determinano le nostre vite, che esiste un punto di
vista morale che possiamo cercare di riconoscere e giustificare e da
cui valutiamo, che di fatto finiscono col condividere la tesi del
mercato come free moral zone. Questo si vede assai bene nelle analisi
di relazioni industriali in cui, nonostante sia evidente la dimensione
morale di certe vicende, esse vengono spiegate, valutate, definite,
sempre in assenza di un esplicito giudizio morale (questo anche quando
il giudizio morale è implicitamente assunto).
Si può facilmente avanzare l’ipotesi secondo cui le relazioni
industriali e, per la verità gli studi sul sindacato, restano, in
qualche misura, ancora condizionate da una visione marxista in cui,
ovviamente, parlare di un punto di vista morale o di valutazione
morale non ha molto senso. Negli studi di relazioni industriali la
pretesa avalutatività è di norma, per cui si indaga su come il
sindacato agisce in quanto, per esempio, rappresentante degli
interessi dei lavoratori, ma si sottace e non si sottopone a indagine
il tratto di interprete di interessi che il sindacato ha giocato e
continua a giocare. Ma questo ruolo di interprete non è profondamente
connotato da un punto di vista morale? Secondo quali criteri - di
giustizia, di convenienza, di fedeltà a certi interessi piuttosto che
ad altri - il sindacato agisce?
Non desta certo stupore il fatto che anche all’interno degli studi
di relazioni industriali sia sempre più evidente la necessità di
uscire da una concezione troppo restrittiva del ruolo del sindacato.
Ma anche quando questa consapevolezza sia del tutto esplicita
difficilmente si arriva a un’esplicitazione del contenuto morale
dell’azione sindacale. Voglio fare riferimento qui a un articolo di
Allan Flanders che criticando la concezione troppo economicistica del
sindacato sostenuta inizialmente dai coniugi Webb e, secondo Flanders,
mai chiaramente messa in discussione, giunge ad asserire con forza il
ruolo politico del sindacato: «Subendo l’influenza di un’epoca in
cui l’economia politica appariva come la sola scienza sociale, [i
Webb] hanno cercato di spiegare in termini economici le implicazioni
della contrattazione collettiva, considerata in tutta la loro opera
come una istituzione puramente economica».
Proprio in quanto fortemente condizionata da una visione prettamente
economicistica «la teoria classica e tradizionale del sindacalismo»,
secondo Flanders, si rivela particolarmente inadeguata, in special
modo perché «lascia deliberatamente da parte quasi tutti gli aspetti
non economici della contrattazione». E alla fine Flanders si spinge a
dichiarare: «Gli iscritti al sindacato reagiscono non soltanto in
funzione dei propri interessi economici, ma anche in funzione dell’idea
che essi hanno di ciò che è giusto o ragionevole». Se in una
prospettiva di etica degli affari si può interamente condividere
questa affermazione, l’impressione è che studiosi dell’una e dell’altra
disciplina ne fornirebbero interpretazioni diverse. Se, infatti, dal
punto di vista dell’etica degli affari la questione è interamente
riducibile a questa affermazione, ciò da cui dipende il fatto che noi
possiamo giudicare da un punto di vista morale ciò che dipende da
noi, le nostre scelte, le nostre decisioni, gli assetti entro cui ci
troviamo a vivere, compreso dunque il mercato e gli attori che in esso
operano, per gli studiosi di relazioni industriali questo asso resta
ancora tutto da compiere. La brillante analisi di Flanders, infatti,
ci lascia esattamente al punto in cui a noi sembra il problema si
ponga: quale vogliamo che sia il rapporto che deve regolare la
convivenza fra imprese, sindacato e società?
C’è un ultimo punto che vorrei toccare. E riguarda un aspetto che
potrebbe sollevare perplessità circa la mia proposta di una sorta di
integrazione fra etica degli affari e relazioni industriali. Infatti,
abbiamo detto sopra che l’etica degli affari è una disciplina
essenzialmente filosofica, insegnata da filosofi e che opera con
concetti essenzialmente filosofici. Allo stesso modo, le relazioni
industriali sono connesse alla sociologia. Ora, i rapporti fra
sociologia e filosofia sono da sempre complessi, intricati, carichi di
controversie epistemologiche e metodologiche assai difficili da
trattare. In qualche modo, sociologi e filosofi si contendono il campo
talvolta badando bene di fortificare i confini. Così, benché solo
per quanto attiene i più limitati ambiti delle relazioni industriali
e dell’etica degli affari, questo lavoro si trova a fare i conti con
questa complessa e intricata questione. Non stupirà dunque che chi
scrive voglia prendere le sue precauzioni.
Per cominciare, io non cerco di mostrare che la sociologia origina da
domande filosofiche che istanzia, tuttavia, in una ricerca nella
realtà che la filosofia non è in grado di fare. Non cerco nemmeno di
mostrare che, in realtà, la frattura fra filosofia e sociologia è
dovuta più a particolari teorie che non a una qualche
incommensurabilità disciplinare e che, pertanto, la sottovalutazione
della «relazione fra comportamento economico da una parte e ideologia
politica e valori morali dall’altra [...] avrebbe sorpreso i padri
fondatori dell’economia politica classica non meno che i padri
fondatori della sociologia». E nemmeno sosterrò che una filosofia
che non si confronti con la dimensione istituzionale è destinata ad
un’inutile astrattezza. Quello che io ho semplicemente in mente è
che forse le relazioni industriali da una parte e l’etica degli
affari dall’altra possono rappresentare una sorta di ambito
privilegiato in cui la separazione fra sociologia e filosofia possa
cominciare a essere ricucita.
In una ricostruzione della separazione «fra la sociologia e il
pensiero sociale che la precede», Alain Touraine ha scritto: «[La
filosofia politica] aveva affermato con estrema forza l’indipendenza
dei fatti sociali dal pensiero religioso, creando l’immagine del
cittadino che attinge l’espressione più elevata della sua forza dal
pensiero di Rousseau e dalle idee di volontà generale, di sovranità
popolare e di contratto sociale. Essa è stata ridotta però in pezzi
dalla scoperta dell’azione economica, del lavoro della produzione.
[...]
La sociologia è nata come riflessione critica su una società
lacerata e contraddittoria quale la società odierna, società
industriale e società capitalistica». Ora, però l’idea di
Touraine è che questa contrapposizione è superata nei fatti dal
profondo modificarsi della società: «Tutte le società precedenti
sono state società di produzione e i personaggi più importanti della
società industriale sono stati a ragione individuati negli
imprenditori e nei lavoratori». Questo spiega naturalmente il modo in
cui sono stati sin qui concepiti non solo i rapporti sociali ma anche
i rapporti tra lavoro e impresa. Ora, però, secondo Touraine tutto
questo non è più vero e tutto questo si è profondamente modificato.
Ma se fin qui possiamo facilmente seguire Touraine, incomprensibile ci
appare la svolta che a questo punto il suo pensiero imbocca. Da qui in
poi infatti tutta la sua ricerca è volta a mostrare che non v’è
nulla di recuperabile nelle idee con cui abbiamo sin qui operato, che
i cambiamenti sociali sono tali da metterci di fronte a un mondo in
cui nulla di quello che credevamo ha più alcun senso. Ecco, a me pare
che piuttosto che imboccare vie così tormentate e rischiose sarebbe
dopo tutto assai più semplice provare a riformare ciò che ci appare
non funzioni più al meglio. La mia proposta di integrare l’etica
degli affari e le relazioni industriali ha esattamente lo scopo di
provare a costruire come meglio è possibile un’attrezzatura che ci
metta in condizione di comprendere il mondo per renderlo quanto più
è possibile un posto in cui vivere come meglio possiamo.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da
fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio
Attualita' |