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Ds, per un congresso onesto



Michele Salvati




Come è cambiata l’Italia? Ei quali sono le politiche che questi cambiamenti suggeriscono ad una sinistra socialista e liberale. Politiche diverse da quelle che Keynes e Beveridge - due liberali - proposero per la grande fase di sviluppo industriale del dopoguerra; politiche che fecero allora la fortuna dei grandi partiti socialdemocratici ed ora sono sostenute -dopo essere state fieramente avversate- da tanti nostri compagni. Cambiata radicalmente la fase di sviluppo le politiche che possono fare la fortuna della sinistra oggi devono anch’esse cambiare: i valori restano, le politiche si devono adattare ai mutamenti della fase. Affronterò, in modo schematico, tre punti: le ragioni della sconfitta; il destino dell’Ulivo; la sinistra e i Ds.

Le ragioni della sconfitta

Si capisce meglio la nostra sconfitta se la si analizza dal lato della vittoria di Berlusconi. Berlusconi ha costruito la sua vittoria su tre pilastri: (a) una unificazione egemonica delle forze politiche della destra e del centro.destra; (b) un messaggio elettorale semplice e spudoratamente populistico, attraente per i ceti emergenti (..ed emersi), ma rassicurante per le persone più isolate, meno colte, più lontane dalla politica; (c) le debolezze della nostra azione di governo e soprattutto della nostra coalizione.

L’unificazione egemonica è stata il pilastro fondamentale. Come ormai anche i bambini sanno, una condizione necessaria (anche se non sufficiente) per vincere le elezioni politiche è quella di compattare il proprio “polo”, dal centro al confine estremo. Così com’è molto importante - in un confronto elettorale di cui la spoliticizzazione e i media hanno esasperato gli aspetti personalistici - mostrare che la coalizione ha un vero capo, che il messaggio si incarna in una persona. Berlusconi ha compiuto, in questi ultimi due anni, un altro miracolo politico, se ricordiamo le condizioni in cui si trovava ai tempi del governo Prodi. Un miracolo che partiva, però, da una valutazione realistica della sua forza, come capo del partito più grande e più spostato verso il centro della coalizione (se si esclude il piccolo Biancofiore), e della debolezza relativa della Lega e di An. Oggi la Casa delle Libertà è posseduta da Berlusconi. Non c’era nel passato prossimo e non c’è nel futuro prevedibile nessun partito della nostra coalizione che era e sarà in grado di “possedere” l’Ulivo nello stesso modo in cui Berlusconi possiede la Casa delle Libertà. Il più grave errore di D’Alema è stato di ritenere il contrario, ma sul problema tornerò in seguito.

Circa il “messaggio”, cerchiamo di non cadere nella pseudo-sociologia marxisteggiante di Tremonti, con il suo “blocco liberale” rappresentato da Berlusconi e il blocco “statalista” rappresentato da noi: basta vedere cos’è successo in Sicilia e nel Sud per diffidare di queste semplificazioni, se già prima la parola blocco non ci metteva il prurito. C’è un messaggio di semplificazione, deregolazione, riduzione fiscale che ha sicuramente attratto ampi settori di lavoratori autonomi e di piccolissima impresa, ma insieme c’è un messaggio di protezione e sicurezza per tutti. C’è soprattutto una straordinaria capacità di Berlusconi di entrare nella pelle di una gran massa di persone sole, spoliticizzate, anzi odiatrici della politica, a bassi livelli di cultura, in cui l’unico tramite col “mondo grande” è la televisione.

Di entrare nella loro pelle, dicevo, cioè di capirne i modi di pensare, di assecondarne i pregiudizi, di incarnarne i miti di ricchezza e di successo: insomma, il mondo di Iva Zanicchi. ( consiglio la lettura del saggio di Berselli e Cartocci, sul numero de “Il Mulino” appena uscito: è essenziale per capire questa variante nostrana di populismo e per liberarsi della tendenza ad analizzare risultati elettorali esclusivamente sulla base di categorie economiche, di blocchi e di ceti). La cura contro il populismo, in un regime democratico, è la prova del governo e dell’opposizione. Governando, Berlusconi dovrà scegliere, si troverà di fronte a difficoltà enormi, e una opposizione appena decente dovrebbe saperne approfittare. Come dice quel detto americano: una singola persona la puoi ingannare tutte le volte, ma non puoi ingannare tutti tutte le volte.

E vengo al terzo pilastro di Berlusconi, la critica delle nostre prove di governo e soprattutto dell’eterogeneità e dei conflitti della nostra coalizione politica. Noi viviamo una situazione, in tutti i paesi sviluppati, in cui il vecchio detto di Andreotti sul potere che logora chi non ce l’ha si applica sempre di meno. Rimanere in sella per più legislature non esige solo buon governo (oltretutto gli esiti dipendono in larga misura da situazioni esterne, da caratteri dell’economia e delle istituzioni derivanti da un lontano passato, da semplice fortuna): esige notevoli capacità mediatico-persuasive accoppiate con errori pesanti degli avversari, e il caso di Tony Blair illustra bene il problema.

Mi spiego subito, utilizzando una coppia di obiettivi, quella tra la flessibilità e la sicurezza dei lavoratori. Non si tratta di un trade-off o di un ossimoro (una flessibilità sicura? Una sicurezza flessibile?), ma poco ci manca, perché combinare insieme la flessibilità richiesta dall’economia con le sicurezze richieste dai lavoratori più deboli non è cosa facile e può essere fatto solo in modo imperfetto e criticabile. Criticabile perché troppo squilibrato verso la rigidità e le sicurezze, di alcuni quantomeno; o verso la competitività delle imprese. Trovare soluzioni che tengano insieme questi due obiettivi, convincere la gran parte della popolazione che il contrasto è solo dovuto alla permanenza di un pensiero conservatore e scompare nella radiosa prospettiva del governo, esige straordinarie capacità di inventiva istituzionale e soprattutto una grande capacità di egemonia politica e culturale.

Questo, in particolare, in un paese che è stretto da vincoli che altri non conoscono, che ha un debito pubblico che ci porta via tre punti di Pil più degli altri per ripagarlo, che ha una amministrazione pubblica che non ci consente di fare (se non sulla carta) gli interventi che altri fanno sul serio, nel quale il Mezzogiorno è ancora assai più un peso che una risorsa. Il nostro governo, eccellente nella macroeconomia dei primi due anni (“difficile, ma semplice”, come ho ricordato altrove), non lo è stato altrettanto nella micro degli ultimi tre, difficile sempre, ma assai più complessa. Non ce l’ha fatta, al di là di una incessante e farraginosa produzione legislativa, nel comunicare un’idea di fondo di che cosa voleva e di dove stava andando. E questo perché quest’idea di fondo non c’era, perché convivevano conflittualmente tra le forze politiche che lo sostenevano idee diverse, in continuo e palese contrasto di fronte all’opinione pubblica. Tony Blair può piacere o meno, la sua miscela di flessibilità e sicurezze può sembrare (e probabilmente è) troppo sbilanciata a favore della prima: ma che differenza di inventiva istituzionale, di determinatezza nelle scelte e di capacità di comunicazione!

Il destino dell’Ulivo

Conclusa questa sommaria analisi delle ragioni della nostra sconfitta, vengo al secondo punto che volevo toccare, quello della struttura e dell’immagine della nostra coalizione. Se l’analisi cui ho fatto cenno è corretta, il nostro problema è quello di riuscire a presentare agli elettori di domani un’immagine d’insieme semplice e unitaria, nonché un candidato premier sul quale la coalizione fa un investimento non soggetto a continue revoche e ripensamenti.

Una coalizione ampia, un messaggio semplice e un leader
: non ci sono altri modi per partecipare al gioco elettorale con qualche probabilità di vincere. Questa è l’operazione politica cruciale e prioritaria, a fronte della quale i dibattiti interni ai vari pezzi del nostro schieramento vanno intesi in modo puramente strumentale, per quanto forti possano essere le passioni che li alimentano. Insomma, vanno bene quelle scelte dei Ds e di Margherita che favoriscono gli obiettivi che ho appena indicato, e vanno male quelle che li ostacolano: il problema fondamentale, non mi stancherò mai di ripeterlo, è quello dell’Ulivo e del Premier designato.

E’ un problema difficile, ma una soluzione è esclusa: esso non può essere affrontato come l’ha affrontato Berlusconi nel suo schieramento, e cioè imponendo la sua schiacciante supremazia. Così ha tentato di fare D’Alema e in questo sta il suo maggiore errore politico, come ho già ricordato. Berlusconi poteva riuscirci, lui no. Al di là del fascino del suo messaggio, Berlusconi era a capo del più grande partito politico della sua coalizione, e del più spostato verso il centro, con margini molto ampi di conquista dell’elettorato centrista; D’Alema era sì il capo del partito più grande del suo schieramento, ma anche di quello percepito come partito di sinistra, un partito la cui revisione ideologica verso una socialdemocrazia con vocazione maggioritaria, con la capacità di lanciare un messaggio affascinante per gli elettori di centro, era ed è tuttora largamente incompleta, se mai completa sarà.

Dunque, la strategia egemonica di Berlusconi era realistica, quella di D’Alema velleitaria. Bisogna che tutti i partecipanti alla competizione per la leadership si rendano conto che la guida e la coerenza d’immagine dell’Ulivo è un problema di democrazia e di consenso, di rispetto di storie e di tradizioni, di costruzione graduale (ma non troppo lenta) di un’immagine unitaria; non è un problema di imposizione egemonica. Un’immagine che non nasce dal nulla, naturalmente, ma che richiede pazienti sforzi organizzativi. Le proposte di Giuliano Amato mi vanno bene, per il pezzo di sinistra della nostra coalizione. Purché si capisca che sono strumenti per un fine, quello di fissare nella testa degli elettori (c’è tempo, ma è meglio cominciare subito) che l’Ulivo ha un leader e una visione semplice da comunicare agli italiani.

I Ds e il congresso

E vengo al terzo punto, a noi, alla sinistra laica e socialista, ai resti di quel che fu il movimento operaio, anche se identica attenzione dev’essere prestata a Margherita, se sono vere le cose che ho appena detto sulla centralità strategica dell’Ulivo. Vengo a noi “ulivisti” e al congresso dei Ds. Sempre se sono vere le cose che ho appena detto, due sono le conseguenze per il congresso. Il congresso darebbe un importante contributo alla futura vittoria dell’Ulivo: (a) se, da un lato, il gruppo dirigente che si formerà avesse dell’Ulivo la visione che ho appena cercato di dare. Dunque, senza correre troppo avanti, senza rifiutare il proprio passato, lavorasse per edificare una casa comune, nella quale avrà sempre una propria stanza, ma ben sapendo che il vero confronto è tra le due case opposte; (b) se, dall’altro lato, questo gruppo dirigente non avesse del suo ruolo nella casa comune una concezione troppo specializzata.

Nella casa comune tutti devono sapere fare tutto e le stanze non devono trasformarsi in bunker, altrimenti non è una casa ma una somma di stanze, un albergo. Questo, sia perché dalla casa dell’Ulivo deve uscire un messaggio comune per gli italiani, non una babele di lingue. Sia perché, immagino, in un futuro non prossimo, ma neppure troppo distante, non sarebbe male potesse emergere anche dalla sinistra laica e socialista, e senza egemonismi prematuri e poco giustificati, un serio e plausibile concorrente per la leadership dell’Ulivo e la premiership del paese. Cosa che difficilmente potrà avvenire se si insiste troppo sulla specializzazione dei ruoli (“la sinistra faccia la sinistra”, eccetera) e se i Ds o come si chiameranno non acquisiscono una piena fisionomia socialista liberale: insomma, come si dice, se non acquisiscono una piena vocazione e maturità maggioritaria.

Dunque, ulivismo vero e vero socialismo liberale devono essere i cardini della mozione che mi auguro vincente al congresso, questo essendo il succo delle risposte che devono essere date alle tre domande che ci ha fatto Morando nella sua relazione introduttiva. Il clima che si respira, purtroppo, non è bello. È un clima avvelenato dalle lotte non chiare del passato, dai risentimenti e dalle avversioni personali, ciò che mi ha fatto scrivere, in un recente articolo, che già sarei contento se questo congresso non facesse troppi danni. Le posizioni politiche che ho appena descritto non si affrontano onestamente, per cui stanno insieme, sotto la stessa mozione, tutti i compagni che hanno dichiarato le stesse posizioni politiche.

Molti di noi non credono alle dichiarazioni dell’altro. Se D’Alema dichiara una posizione di socialismo liberale e accetta oggi una posizione di primazia dell’Ulivo e di non egemonismo; insomma, se risponde sì alle nostre domande, quanti di noi sono disposti a firmare una mozione insieme a lui? E quanti, invece, sono pronti ad allearsi a compagni che hanno, dichiaratamente, posizioni di merito molto diverse dalle nostre, solo perché condividono la stessa sfiducia nella persona e non vogliono che prevalga nel congresso? La sfiducia ha ragioni comprensibili, e la principale è il grave errore politico che ho prima indicato, non meno grave per il fatto di essere stato condiviso da gran parte del partito per ragioni di orgoglio e patriottismo.

In questo modo, però, non si va molto avanti. Io non so come uscire da questa situazione. So soltanto che, per poterne uscire, essa dev’essere affrontata con chiarezza e senza reticenze. Solo così potremo fare un congresso onesto. Solo così riusciremo a mettere a posto la nostra stanza e daremo un contributo alla casa comune dell’Ulivo.

 

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