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Una Medea giapponese



José Luis Sànchez-Martìn



Come chiusura della stagione teatrale del teatro Vascello, per soli tre giorni a Roma, è presentata una versione straordinaria della Medea di Euripide della compagnia teatrale giapponese KU NA’UKA Theatre Company di Tokio con la regia di Miyagi Satoshi che da dieci anni ormai ne è il leader. Satoshi è entrato da alcuni anni ormai a far parte del novero dei registi più stimati e seguiti in tutto il Giappone. Questa messa in scena, in prima europea al teatro Vascello, proseguirà il proprio viaggio con una tournée internazionale in tutto il mondo proprio in forza dell’enorme successo di pubblico e di critica che ha già raccolto in diversi paesi.

Il contesto è il Giappone di 100 anni fa, allorquando i paesi dell’Asia stanno diventando uno dopo l’altro colonie delle grandi potenze occidentali e il Giappone è l’unico tra questi che porta avanti un proprio processo di modernizzazione sul modello di quello americano ed europeo con l’intento di staccarsi sempre più dall’Asia per fare parte del gruppo delle grandi potenze a cominciare dall’annessione di alcuni paesi asiatici.

Più in particolare ci troviamo in un quartiere di piacere in cui un gruppo di uomini decide per diletto di mettere in scena un’opera di Bunraku (antica forma tradizionale di teatro di marionette manovrate a vista, su un’impronta tragica) sulla storia però della Medea di Euripide. A impersonare i protagonisti dell’opera è un gruppo di geishe scelte in modo derisorio da questo gruppo di clienti che imporranno alle giovani donne di sostituire i pupazzi del bunraku adottandone le movenze e lo stile, muovendosi in accordo alle battute che verranno pronunciate dagli stessi uomini: in tal modo ciascuno dei personaggi interpretato dalle geishe avrà un proprio interprete vocale.

Questa separazione netta tra azione e parola, tra “logos“e “pathos” come sottolinea il regista richiamando le categorie filosofiche greche, è uno dei tratti peculiari del percorso artistisco di Satoshi Miyagi che lo recupera come elemento legato alla tradizione artistica giapponese in alcune sue forme espressive -tra cui appunto il Bunraku dove a dare la voce del pupazzo é un attore a lato della scena- ma immettendolo in un tessuto drammaturgico alieno alla propria tradizione come lo può essere la tragedia greca, in una chiave di lettura contemporanea, molto puntuale e personale, che si avvale degli elementi della ricerca teatrale del novecento, rielaborando entrambi in modo da dar vita ad una sintesi artistica originale ed organica.

Il punto di vista scaturito dalla riflessione a proposito del perché Medea uccise i propri figli ( qui ridotti ad uno solo) è esposto molto chiaramente dal regista: “La figlia di Creonte che aveva sposata Giasone non aveva figli maschi, non potendo assicurare la discendenza alla casata reale almeno finché non darà alla luce un maschio pone a rischio di estinzione la propria stirpe. E perciò é Medea colei in grado di assicurarne la discendenza. Se avesse avuto una figlia anziché un maschio con Giasone, Medea non avrebbe ucciso il figlio, più probabilmente lei ha voluto distruggere quel sistema che consentiva solo agli uomini di dare ed ereditare la discendenza. In parallelo io vedo l’umanità oggi in un punto molto critico, molto prossimo all’uccisione dellla propria madre, la Terra. L’umanità può salvarsi solo se uccide quel figlio che è in procinto di uccidere propria madre. Così la storia di Medea può essere letta come il sacrificio di una madre che cerca di salvare il proprio figlio dal compiere un’azione ancor più nefanda e fatale: uccidere propria madre”.

Tutta la tematica tragica greca ruota intorno ad un conflitto insanabile tra due principi di verità inconciliabili: quello degli uomini e quello degli dei, da un lato, e dall’altro o meglio accanto e circostanziale a questo lo scontrarsi del maschile e del femminile in senso lato, e il
perentorio soccombere del secondo sotto il segno del sacrificio estremo ingiunto, causato, determinato dal primo (Ifigenia, Ecuba, Cassandra, Antigone).

Medea è la donna non greca, la barbara e selvaggia maga, venuta dalla Colchide, terra considerata incivile dai greci ma altresì ancora intrisa di elementi arcaici e legati alla natura che sono un simbolo di potere autonomo (per Satoshi Medea è coreana con un analogismo alla storia del Giappone) che per amore sacrifica tutta se stessa e viene tradita e ingannata. Ma a questa trappola “maschile” per il potere si oppone minando la radice stessa di quella società degli uomini con un gesto che fa coincidere il massimo della violenza su questa società, mutilandola della discendenza, la massima violenza su un essere umano, uccidendo il figlio, e il massimo del sacrificio personale, uccidendo il proprio di figlio.

In un tentativo così tragico e risolutivo sono annullati tutti i termini del conflitto ma il risultato ultimo é che la violenza sembra essere la “extrema ratio” per la difesa del principio “femminile” e la protezione della propria identità calpestata.

In questa versione, vi è un ulteriore salto simbolico, un’aggiunta vera e propria del regista, ed è nel finale tragico. Finita la rappresentazione mimata da parte delle geishe, dopo la scena del sacrificio del figlio, Medea e tutte le altre donne si svestono dei panni di attrici-serve e lasciando emergere una veste bianca uguale per tutte,-quasi come la divisa di un esercito clandestino- scatenano assieme un’orgia di violenza omicida contro gli uomini che hanno imposto loro il gioco scenico, uomini che incarnano quel potere oppressore maschile che sottomette e sfrutta il femminile.

Questo salto drammaturgico dalla rappresentazione al suo parallelo reale è un messaggio inquiente e drammatico tanto più perché ci scaraventa come spettatori, improvvisamente, nel cuore vivo della tragedia, nella sua cruda contemporaneità, a un passo da noi in senso letterale, lì sul palco, che accade proprio a quella donna che ci sta guardando negli occhi.

Lo spettacolo della compagnia KU NA’ UKA è fortemente stilizzato, dalla scenografia semplice e simbolica, alle musiche percussive eseguite dal vivo (di sole musiciste donne), ai moduli espressivi delle attrici. E lo è nel senso più alto del termine, ad un livello insigne di maestria, come lo è l’arte del tiro con l’arco zen Kyu-do, l’arte del giardinaggio, gli Origami, la meditazione e le arti marziali. Quel livello che altera spazio e tempo e ci lascia vagare in una dimensione meta-reale, artificiale quanto profondissima, dove il dilatarsi, il restringersi o l’annullarsi dei parametri percettivi ordinari ci consente di scendere verso dimensioni recondite in noi.

In ultima istanza è una di quelle esperienze che riconciliano profondamente con il teatro, un’esperienza sensoriale innanzitutto, che lascia lo spettatore per più di un’ora in uno stato di sospensione emotiva, di contemplazione assorta e ipnosi, con i soli mezzi della presenza degli attori e delle attrici (le vere protagoniste dello spettacolo). E in particolare di una giovane quanto bellissima Medea che con un magnetismo silenzioso impenetrabile, dipanato con un calibro da attore No o da monaco Zen lungo tutto l’arco dello spettacolo nelle vesti di una geisha-bunraku, ci tramortisce, ci fa sentire sperduti, ci incolla col fiato sospeso alla sedia senza una pausa. Ci fa innamorare persino e ci seduce con la sua carica magica, ci rende partecipi fino in fondo del dramma umano che la attraversa. E questo lo riesce a fare magari restando immobile per diversi minuti con impercettibili cambi di intenzione nello sguardo o all’opposto con una sequenza quasi danzata con l’innaturalezza di un pupazzo bunraku e con la grazia di una danzatrice.

Questo spettacolo risponde da solo a qualunque perplessità circa la possibilità di un teatro che concili la ricerca autentica e la tradizione, circa la possibilità di un teatro in cui l’azione è l’elemento espressivo forte, circa la possibilità di attingere ad altre tradizioni (come quella greca per i giapponesi) senza saccheggiarla superficialmente, senza sottovalutarla o scimmiottarla, senza restarne rinchiusi filologicamente al suo interno bensì attraversarla, facendola diventare altro, frutto di una elaborazione culturale, rendendola in grado di parlare all’uomo contemporaneo, mettendolo di fronte a domande reali.
Una lezione imperdibile, come poche volte in Italia si ha l’occasione di vedere. Il pubblico è univocamente commosso.

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