Ragioni dell’impresa e vincoli
morali*
Sebastiano Maffettone
1. Come si può pensare alla questione etica che riguarda problemi
correnti del capitalismo contemporaneo in termini filosoficamente
adeguati? Questa è la domanda globale, che mi sono posto, riflettendo
sul nostro progetto di ricerca sull’etica degli affari. Suppongo che
voi tutti conosciate nelle linee generali temi e problemi dell’etica
degli affari, nonché la natura delle singole competenze impiegate.
Ciò mi esime dal riassumere dall’inizio i contributi individuali,
anche se dopo ci tornerò alla luce di una presa di posizione più
coerente.
Prima di entrare nel merito della risposta, mi sia però consentito di
aggiungere qualche parola sugli aspetti pratici che una corretta
posizione del problema può implicare. Questo, naturalmente, non per
sfiducia nelle vostre capacità di svolgere autonomamente tale
compito, ma solo per chiarire che non si tratta di un esercizio quasi
metafisico e fine a se stesso. Sono, infatti, convinto che impostare
correttamente il problema generale in termini filosofici abbia delle
conseguenze concrete evidenti. Non intendo anticiparle qui, se non
nella misura minimale di suggerirne l’impatto totale.
Si tratta di qualcosa del genere: come vedremo, non ci sono tesi
moralmente neutrali quando si sceglie tra due politiche dell’impresa
differenti. Il vantaggio di uno sfondo intellettualmente coerente e
culturalmente adeguato ai tempi consiste così innanzitutto nel
selezionare un punto di vista etico-politico in base a ragioni se non
valide almeno sensate e plausibili.
Ragioni, in altre parole, che saremmo in grado di difendere qualora se
ne mettesse in dubbio la pretesa teorica. Questo sfondo consentirà
poi di scegliere una linea di condotta unitaria, evitando così
comportamenti pratici puramente emotivi e casuali.
Ma non si tratta qui esclusivamente di amore per la coerenza tra
logica e pratica. Credo, infatti, che avere una posizione
etico-politica significativa equivalga anche a decidere al meglio i
casi controversi, che si presenteranno inevitabilmente. Lo scopo di un
esercizio come il nostro è, in ultima analisi, quello di influenzare
il legislatore non meno del giudice, il pratico non meno che il
teorico.
Se il modello che propongo ha senso, e se lo ritenete globalmente
accettabile, allora tenderete a risolvere i casi controversi in un
modo invece che in un altro. E il vostro giudizio etico-politico
diverrà più solido. Comincerete a pensare che legislatori, giudici e
pratici dovrebbero guardare alle politiche di impresa in maniera non
troppo difforme da quella che voi suggerite.
Ma è tempo di cominciare a entrare nel merito della risposta alla mia
domanda iniziale. Ho parlato finora di “politiche di impresa” per
adoperare una terminologia volontariamente vaga e generica. Forse, “governo
societario” sarebbe più idoneo a quanto sto per dire. Tuttavia, non
si tratta di una questione terminologica, ma teorica.
Inizio, come è mia consuetudine, dalle fondamenta. Siamo abituati a
pensare all’impresa nel suo complesso come a una scatola nera. Una
sorta di unità minima di indagine, sotto cui non si può scendere. La
mia tesi potrebbe essere riassunta dicendo che propongo di aprire la
scatola nera per vedere cosa c’è dentro ed esaminare alcuni di
questi contenuti così scoperti.

Fuor di metafora, io sostengo che si tratta qui di estendere un
principio classico dell’analisi scientifica: analizzare un dato
complesso equivale a scinderlo nelle sue parti semplici per cercare di
capire quali leggi e tendenze generano un’aggregazione del tipo di
quella che osserviamo fenomenicamente. Come è anche comprensibile,
non intendo fare qualcosa del genere in una maniera qualsiasi, ma
piuttosto avendo in mente un progetto teorico preciso. Cerchiamo
dunque di capire perché bisogna - a mio avviso - fare qualcosa del
genere, e soprattutto come si dovrebbe farlo.
Nella teoria economica classica, l’impresa è una sorta di
eccezione. I processi decisionali classici sono infatti pluralistici e
periferici, mentre l’analisi dell’impresa è spesso basata su
presupposti organicistici e istituzionalisti. I processi decisionali
classici vanno dal basso in alto, sono bottom-up come si
potrebbe dire rozzamente, e gli esiti finali - per esempio i prezzi di
mercato - sono frutto di un equilibrio vettoriale, che possiamo
immaginare come una sorta di componente delle forze singole
rappresentate dalle variabili rilevanti.
Come è noto, questo paradigma assai robusto - gli strumenti di
decisione collettiva più importanti del tipo di mercato e democrazia
si articolano concettualmente su qualcosa del genere - si arresta di
solito quando si analizza l’impresa. Qui, i processi decisionali
diventano all’improvviso gerarchici e centralizzati. Vanno - per
continuare nella metafora spaziale precedente - all’alto in basso o,
se preferite, top-down.
Le imprese, come è stato detto con espressione felice, sono “gerarchie”,
e come tali trasmettono informazione dal vertice in direzione delle
periferie, più o meno in maniera opposta a quanto fanno, come si
diceva, mercato e democrazia.
Ciò è quanto ci suggerisce un’analisi puramente istituzionalista e
organicista. Supponiamo, però, che non sia così. L’analisi
micro-economica dell’impresa, e in genere delle istituzioni, ci
offre una via per comprendere la direzione che può prendere un
percorso alternativo.
La struttura motivazionale e organizzativa di stampo weberiano si
spezza - se seguiamo questa via - fino a prendere la forma di una
sorta di reticolato di ragioni e azioni che spiegano il comportamento
dell’impresa in maniera diversa da quella tradizionale. La scatola
nera non c’è più, in questo caso, e anzi comprendiamo meglio i
fenomeni in una prospettiva che - come nel caso del mercato e del voto
- parte dal basso.
Se vogliamo, possiamo parlare in proposito di una necessaria
integrazione tra il metodo microeconomico e l’analisi istituzionale.
In questi termini, mercato e impresa sono due modi alternativi per
risolvere un medesimo problema. Quest’ultimo può essere
efficacemente descritto come un problema di “costi di transazione”.
Se sarà il mercato o l’impresa la soluzione ottimale, dipenderà in
questi casi dall’efficienza comparata delle due alternative, quest’ultima
vista come capacità di minimizzare i costi di transazione. L’impresa
è in grado di sostituire un solo grande contratto incompleto, il
contratto di impiego, con una miriade di contratti completi, che
diventano, nel caso si opti per questa soluzione, disponibili sul
mercato. L’impresa può dunque sperare di essere competitiva, nei
confronti del mercato puramente atomistico, se in questo modo fa
risparmiare sui costi negoziali legati a queste microtrattative.
La scelta dell’impresa, basata sul confronto tra i suoi costi di
transazione e quelli del mercato, non è però indolore. Come una
cospicua letteratura sui fallimenti del mercato ci ha insegnato, l’idea
di affidarsi a contratti incompleti ha un costo in termini di
affidabilità. Ma non è detto che la stessa cosa non debba valere per
l’impresa, che genera costi organizzativi non indifferenti.
Parallelamente ai fallimenti del mercato, si possono così ipotizzare
dei fallimenti dell’organizzazione. È lecito pensare che questi
dipendano da fattori umani, che vanno dai limiti della razionalità
all’opportunismo delle parti. In parole povere, le singole parti
dell’impresa non si comportano sempre in maniera coerente con gli
scopi d’impresa, e spesso fanno valere i propri interessi
individuali indipendentemente da quelli generali.
A questi fattori umani, e in particolare a quelli legati all’opportunismo
naturale delle parti, si volge l’etica degli affari. Da questo punto
di vista, si può dire che l’etica degli affari sia costituita dai
vincoli morali che si ritiene opportuno accettare da parte dei singoli
in nome di un miglior perseguimento di fini collettivi.
Mi scuso per questa presentazione quantomai affrettata e piuttosto
dilettantistica della visione microeconomica dell’impresa e dell’etica
degli affari in relazione ad essa, ma - fortunatamente - essa serve al
mio argomento solo come un termine di paragone e non come un puntello
importante. Perché la mia analisi non si muove sul piano positivo, ma
su quello normativo.
Non intendo cioè spiegare il comportamento economico dell’impresa
(non sarei tra l’altro particolarmente adatto a farlo) quanto
suggerire un modo per articolare meglio i suoi aspetti normativi.
2. Comincio dal rapporto generale tra economia e politica. Ho già
citato prima il mercato e il voto come due esempi classici di un
argomento esplicativo che muove analiticamente dal particolare all’universale,
dal basso all’alto. Quando pensiamo a modelli del genere, noi
immaginiamo sullo sfondo una sorta di imperialismo dell’economia.
Supponiamo cioè che l’economia sia l’explanans e la politica l’explanandum.
O, come altrimenti si può dire, che il metodo della scienza economica
serva ad analizzare meglio di altri il campo dei fenomeni politici.
Alla base di questa convinzione diffusa, c’è ovviamente l’idea
che la scienza economica sia la più “hard” delle scienze umane, e
che quindi importare suoi metodi e modelli non possa che essere d’aiuto
alla nostra comprensione dei fatti politici e sociali. Ma c’è,
sotto sotto, una convinzione che a me pare ancora più radicata e
profonda.
Secondo questa convinzione nascosta e potente, la politica è nella
sostanza il regno del mistero, o come spesso è stato detto il dominio
degli “arcana imperii”. Se si assume un’ipotesi del genere,
allora è del tutto naturale procedere adoperando il metodo economico,
ma in fondo qualsiasi altro metodo purché non politico
intrinsecamente, per comprendere le vicende politiche. Semplicemente
perché queste ultime sono inerentemente incomprensibili.
Bene, la mia tesi è che forse questa visione della politica come
mistero, arcano quintessenziale, non sia quella giusta. O meglio, che
essa si adatti alla politica di uno Stato diverso da quello
democratico. Sarebbe, in altre parole, una visione forse adatta al
principato di Machiavelli, ma non adatta agli Stati democratici del
nostro tempo. Corrisponderebbe, in sostanza, a uno Stato gerarchico o
totalitario ma non potrebbe essere idonea alle procedure e ai metodi
della democrazia. Quest’ultima non è arcano ma trasparenza.
Se ragioniamo a partire da questa convinzione, allora forse non è
neppure vero che la politica sia così incomprensibile come una
convinzione diffusa e potente suggerisce. Forse la teoria politica
della democrazia è in grado di spiegare i fenomeni politici. E,
volendo azzardare, getta anche luce sui fenomeni economici. Rende
questi ultimi, guardandoli in una prospettiva diversa, ancora più
comprensibili di come si ritiene di solito.
Ma quale teoria politica della democrazia si ha qui in mente? Rispondo
in maniera breve e diretta: ho in mente una versione della teoria del
contratto sociale, del tipo di quella formulata di recente dal
filosofo americano John Rawls. Senza entrare nel dettaglio della
teoria, l’idea centrale è quella che il consenso democratico poggi
su un contratto virtuale tra le parti sociali.
Una società è così moralmente legittimata se e solo se la pratica
del governo corrisponde in linea di massima all’accordo ipotetico
che si potrebbe avere su determinati assetti delle istituzioni
maggiori. Un retroterra del genere assicurerà insieme stabilità
istituzionale e coerenza tra motivazioni autointeressate e morali dei
soggetti.
L’idea ha quindi un significato innanzitutto normativo, ma può
anche fornire delle spiegazioni positive se si assume una certa
corrispondenza tra soddisfazione delle preferenze etiche e adesione
democratica. In altre parole, si può dire che l’ottica
liberal-democratica prescelta presupponga una corrispondenza tra un
modello di ingegneria istituzionale e le preferenze morali dei
soggetti. Questa corrispondenza dovrebbe garantire sia la stabilità
dell’equilibrio istituzionale prescelto sia il rispetto di un
trade-off ottimale tra efficienza ed equità.
Assumiamo ora che il modello rawlsiano presenti una giustificazione
normativa ragionevole della liberal-democrazia. Il problema consiste
nel vedere in che modo esso - rendendo più chiara la politica iuxta
propria principia - possa servire anche all’analisi dei
comportamenti economici nella prospettiva normativa che è tipica dell’etica
degli affari.
Riflettiamo anche sul fatto che la cosa in quanto tale è meno strana
di quanto alcuni credano. In generale, non è sbagliato supporre che
la politica preceda storicamente l’economia, nel senso per esempio
in cui la libertà olandese e quella inglese favorirono
comparativamente lo sviluppo capitalistico di quei paesi.
La visione contrapposta - da Marx ad alcuni marginalisti - basata sul
primato dell’economico sul politico non è poi così scontata come
pure si potrebbe credere. Il mercato concorrenziale presuppone la
libertà degli scambi e una struttura adeguata dei diritti di
proprietà, come è noto. Tutto ciò a sua volta assume un pluralismo
di forze sociali, che consenta una crescita della sfera economica
relativamente autonoma dalla politica.
La differenza tra paesi in cui il mercato concorrenziale ha avuto
successo e quelli in cui non lo ha avuto - se analizzata storicamente
- dipende così in maniera decisiva dalla struttura politica di base:
dove c’era un solo potere (politico-religioso) il mercato non si è
sviluppato con successo, dove invece è stato possibile un pluralismo
di base si è sviluppato.
Non si può naturalmente in questa sede entrare nel merito di una
questione storico-critica tanto complessa. Per cui, assumiamo “par
provision” che il ragionamento fili fino a questo punto. E vediamo
quali conseguenze può avere sul tema che ci riguarda. Cominciamo
dalla questione generale dello statuto concettuale e morale dell’impresa.
Cerchiamo in altre parole di vedere come questo modello politologico
ci aiuti a leggere la scatola nera dell’impresa di cui si è detto.
La mia tesi è che l’applicazione del modello politologico ed etico
contrattualista alla realtà economica dell’impresa abbia una
conseguenza teorica generale di estrema importanza. È più facile
enunciarla facendo ricorso parzialmente all’inglese: si tratta del
passaggio da una concezione della responsabilità di impresa
sostanzialmente organicistica, basata sul rapporto tra dirigenti e stockholders,
a una liberal-democratica basata sul rapporto tra stakeholders.
I dirigenti devono concepire - se prendiamo sul serio il modello
proposto - l’impresa non come una gerarchia diretta a soddisfare i
desideri della proprietà, ma come un organismo complesso che ha di
mira la soddisfazione delle preferenze di un insieme articolato di
referenti, che vanno dagli azionisti ai clienti, passando per gli
impiegati e la comunità in cui si opera. In sostanza, questa tesi
afferma un principio generale di straordinaria importanza: la
legittimazione di impresa non deve esser diversa dalla legittimazione
politica. E se quest’ultima è liberal-democratica, anche quella ha
da esserlo, e perciò il modello degli stakeholders funziona
meglio.
Tutto ciò, lo ripeto, è semplicistico. Sorvola su questioni
importanti, a cominciare da che cosa voglia dire “responsabilità di
impresa”. Tuttavia, indica una direzione normativa chiara: l’impresa
va concepita sempre più come una struttura democratica, là dove gli stakeholders
nel complesso sono quello che il popolo è nella concezione classica
della democrazia.
Molti ripetono questo assunto oggi, appellandosi alla teoria
cosiddetta del principale-agente. In questo caso, gli stakeholders
sarebbero il principale, e la dirigenza di impresa l’agente. E l’agente
ovviamente dovrebbe tutelare i diritti del principale in modi e forme
da verificare. Ma non mi sembra che la questione così tradotta cambi,
se non nel vocabolario. L’origine politologica della teoria del
principale agente mi sembra infine del tutto chiara, potendosi fare
chiaramente risalire alla teoria politica della rappresentanza.
Possiamo, facendo magari qualche sforzo, anche ipotizzare una
specifica versione della teoria del principale-agente basata sul
contrattualismo rawlsiano nella mia interpretazione.
3. Il ragionamento proposto per l’etica degli affari si fonda sulla
corrispondenza tra due elementi principali: la teoria politica del
contratto sociale e il modello degli stakeholders come suo
corrispettivo nell’analisi dell’impresa. Vale la pena di
soffermarsi su questo punto nodale della tesi proposta.
Partiamo dall’idea di contratto sociale, così come nella tradizione
filosofica è stato normalmente concepito, cioè un contratto che
vincola i cittadini tra loro e con lo Stato. Lo scopo principale del
contratto, in questa tradizione, è quello di fornire una
giustificazione teorica dell’obbligo politico. Il che vuol dire
spiegare e difendere la fonte dell’autorità dello Stato.
Quest’ultima viene analizzata - dai contrattualisti - in termini di
responsabilità reciproca tra Stato e cittadini. L’analogia che io
propongo è da questo punto di vista semplice e intuitiva: se il
contratto è uno strumento concettuale adeguato per giustificare l’autorità
dello Stato, si può pensare che lo sia anche per giustificare il
ruolo dell’impresa come motore dello sviluppo economico.
Questa tesi presuppone in primo luogo che abbia senso ripetere la
questione classica della political theory, “perché lo Stato
e non il nulla?”, sostituendo alla parola “Stato” la parola “impresa”.
E, in secondo luogo, che la domanda non sia esaurita da una risposta
in termini di mero profitto. Ciò significa che se la giustificazione
dell’impresa fosse solo il profitto allora tutto quello che diciamo
qui avrebbe scarso senso. Credo che si possa evitare una risposta
riduzionista di questo tipo, e per varie ragioni.
La più chiara di queste ragioni mi sembra la seguente: il problema
filosofico centrale del contratto sociale - quello che abbiamo
ereditato da Locke e Hobbes, Rousseau e Kant - nasceva dall’importanza
dello Stato nelle nostre vite, dalla assoluta rilevanza delle
conseguenze, per i cittadini, dovute alle sue azioni. Non si può
negare che la medesima cosa può oggi essere detta perlomeno per le
grandi imprese. Esse condizionano le nostre vite in maniera
macroscopica. Da questo presupposto, è facile ipotizzare una
responsabilità sociale generale dell’impresa, che ecceda la
vocazione al profitto.
L’autorità dell’impresa è ovviamente diversa da quella dello
Stato, e consiste in primo luogo nella disponibilità ad agire in
prima persona da parte dell’impresa (come soggetto di diritto) e
nella possibilità che le è garantita di disporre in questo modo di
cose e persone a fini produttivi. L’impresa si presenta come un’organizzazione
a scopi produttivi che ha rilevanti conseguenze sia per i consumatori
che per gli addetti.
Nella prima prospettiva, quella dei consumatori, la giustificazione
dell’impresa - nell’ottica contrattualista - dipende dai vantaggi
in termini qualitativi e quantitativi (di prezzo) che l’impresa
sembra in grado di offrire ai consumatori nel confronto ipotetico con
una società civile senza impresa. Dal punto di vista degli addetti,
invece, i vantaggi sono in termini di stabilità e responsabilità
dell’impresa.
Si può ritenere che grosso modo un mondo di imprese possa essere
considerato vantaggioso sia nella prospettiva dei consumatori che in
quella dei lavoratori? A fronte dei vantaggi, cui ho prima accennato,
bisogna considerare gli svantaggi in termini di standardizzazione dei
prodotti, di alienazione legata alle forme produttive, di mancanza di
controllo dell’output finale che tutti conosciamo e che sono tipiche
di un capitalismo dominato dalle grandi imprese.
Questo trade-off tra pro e contro legati all’impresa verrebbe oggi
giudicato da molti positivo per il punto di vista dell’impresa.
Quello che la prospettiva dell’etica degli affari aggiunge a ciò è
un interesse speciale per le condizioni morali sotto cui un contratto
ideale del genere - atto quindi a giustificare la presenza e il ruolo
dell’impresa - dovrebbe essere siglato.
La tesi centrale dell’etica degli affari sembra essere che il
contratto sarebbe accettabile se e solo se l’impresa ottemperi a
certe condizioni morali particolarmente significative. Si può
cominciare a pensare a condizioni affatto generali come l’evitare la
frode o perseguire il rispetto dell’umanità e dell’ambiente da
parte dell’impresa. E si può procedere andando avanti nel
dettaglio.
La tesi sostenuta assume che sia possibile identificare una forma di
responsabilità morale e sociale dell’impresa, e che proprio questa
sia esaminata in forma di contratto sociale ipotetico. Ma che tipo di
impresa è implicato da un’analisi del genere? La risposta oggi
normale presuppone il cosiddetto modello degli stakeholders e
un’analisi dell’impresa in termini di tale modello.
L’idea di fondo è che un’impresa è eticamente responsabile - e
quindi valutabile positivamente alla luce di un contratto sociale
ipotetico - se e solo se fa attenzione agli stakeholders nei
processi decisionali. Meglio, si può dire che l’impresa è
accettabile, nell’ottica contrattualista proposta, se e solo se è
in grado di ottenere il consenso virtuale e unanime degli stakeholders.
Non c’è nessuno di essi che potrebbe rifiutarsi di aderire per
buone ragioni.
Ma chi sono gli stakeholders, e che cosa vuol dire tenere conto
adeguatamente dello loro esigenze? La parola “stakeholder” è
stata - come è noto - inventata negli Stati Uniti all’inizio degli
anni Sessanta per contrasto con la parola “stockholder”, che
indica i proprietari del pacchetto azionario. Il termine implica un
interesse speciale per altri soggetti, oltre i possessori di stocks,
soggetti che sono ritenuti comunque capaci di avere uno “stake”,
una specie di voce in capitolo, nelle decisioni di impresa.
Da ciò, dipende la tesi centrale della stakeholder analysis,
tesi secondo la quale le decisioni di impresa devono tener conto di
questi interessi che eccedono quelli dei titolari del pacchetto
azionario. Si tratta di impiegati dell’impresa a vario titolo, di
fornitori, clienti, creditori, concorrenti, fino a includere la
comunità entro cui opera l’impresa, l’ambiente e il governo
statale.
La tesi centrale della stakeholder analysis è coerente
con l’assunto contrattualistico. Il fatto che un’impresa debba
tenere conto, nei momenti decisionali rilevanti, degli interessi e dei
valori di tutti coloro che sono influenzati dalla sua attività può
essere infatti agevolmente tradotto in termini di una logica del
contratto sociale ipotetico (del tipo di quella sopra menzionata).
Un’impresa giusta - cioè giustificabile nell’ottica del contratto
- diventa in questo caso quella che decide alla luce delle aspettative
degli stakeholders, così come queste possono essere
incorporate nel meccanismo concettuale del contratto.
4. Accettiamo allora l’idea centrale, e cerchiamo di vedere in che
modo sia possibile applicarla a problemi etici connessi al governo
dell’impresa. Mi riferisco principalmente alle questioni della corporate
governance e della formazione. Mi sembra anche ovvio che entrambe
le questioni non possano tralasciare il peculiare livello italiano, e
che ogni seria proposta in merito debba prendere sul serio il contesto
peculiare in cui la discussione ha luogo. Comincerò comunque da un
livello più astratto, e solo dopo introdurrò qualche variabile
idonea a rendere il progetto più adatto al caso italiano.
Riprendiamo così quello che potremo chiamare il dogma della posizione
contrattualista sull’impresa - come l’abbiamo finora presentata -
cioè il principio dell’uniformità di legittimazione economica e
politica. E vediamo come questo si applica alla questione della corporate
governance. Con questo termine, come è noto, si intendono - nella
letteratura sul tema - cose assai diverse tra loro.
L’oscillazione semantica anzi è tale, per cui con corporate
governance si può intendere un modo generale di guardare al
capitalismo oppure la regolamentazione dei comportamenti di impresa in
senso stretto. Non intendo discutere qui la questione semantica, e
rimango vago sul significato del termine (che comunque adopero più
nel senso restrittivo, che è anche più banale). Possiamo pensare a
qualcosa di analogo a quello che nella letteratura italiana di diritto
commerciale si chiama di solito governo societario.
Proprio l’idea di un governo societario anzi mi serve per avere una
conferma dell’intuizione centrale da cui muove questa mia
presentazione, e cioè che la teoria politica in generale - e la
teoria contrattualista più in particolare - sia utile per comprendere
le questioni fondazionali del mondo del business.
Innanzitutto, anche banalmente, quando parliamo di “governo” dell’impresa
o societario, è chiaro che adoperiamo un termine preso a prestito
dalla politica (trascuro qui il fatto sia pure non privo di
significato che “governance” non è identico a “government”,
differenza semantica e sostanziale che in italiano non può essere
adeguatamente resa). In secondo luogo, quando entriamo più a dentro e
per esempio - nell’ambito di un problema tipico di corporate
governance - discutiamo i rapporti equi tra maggioranza e
minoranza dell’azionariato, ci muoviamo pur sempre nell’ambito di
una terminologia, e di una sensibilità direi, che sono strettamente
politiche e politologiche.
Ma ovviamente non è solo questione di parole. L’idea più generale
che possiamo imputare a un ideale di governo societario è infatti una
sorta di costituzione dell’impresa societaria, un insieme degli
obblighi generali cui un’impresa societaria deve ottemperare. Ma
questo è in fondo un altro modo per ribadire il dogma della
legittimazione uniforme tra politica ed economia.
Se guardiamo alle preoccupazioni - implicite e esplicite - che stanno
dietro i lavori preparatori del Testo unico sui mercati finanziari
elaborato dal gruppo Draghi e recentemente emanato in Italia ciò
viene ampiamente confermato. E lo stesso vale anche per le regole sul balance
dei vari boards societari nella corporate governance,
nella formulazione di regole elettorali, nel modo in cui si
riorganizzano le relazioni con gli stakeholders eccetera.
Ancora più in generale a me sembra interessante guardare nell’ottica
contrattualista ai problemi tradizionali posti dai fondamenti
giuridici del governo di impresa. Per esempio, se seguiamo la mia
impostazione, allora scompare il dualismo classico tra una fondazione
istituzionalistica e una contrattualistica. In democrazia, infatti, le
istituzioni sono essenzialmente fondate sul consenso e quindi sul
contratto nel senso in cui ne ho fin qui parlato. Perciò anche l’istituzionalismo
è un contrattualismo, e non c’è problema di doppia fondazione.
Lo stesso si può dire per la distinzione di metodo tra approcci
microeconomici e macroeconomici, oppure istituzionalisti, alla teoria
del governo di impresa. L’etica degli affari nasce in un contesto
dove i costi di transazione non sono trascurabili, e quindi il regime
istituzionale ha un suo specifico rilievo concettuale e pratico.
L’ottica contrattualistica, basata sulla stakeholder analysis,
riconosce questa base economico-politica di una teoria delle
istituzioni, e parte dall’assunto che le istituzioni sono
giustificabili quando risolvono i fallimenti del mercato - che ne
generano la necessità - in maniera stabile e rispondente alle
preferenze degli individui, mantenendo bassi i costi di transazione.
Ciò avviene - nell’ottica proposta - quando le decisioni di impresa
tengono conto adeguatamente della volontà degli stakeholders e
passano il test del contratto sociale ipotetico.
Questo vuol dire che - nell’ottica contrattualistica - la società
generale è una sorta di società di società più speciali e che
tutte sono legittimate dal vincolo contrattualista (questa è una
sorta di Grundnorm per la riforma del diritto pubblico dell’economia).
La regolazione dei rapporti nell’ambito della società per azioni
tende a estendere la legittimazione politica a un ulteriore dominio.
Ciò sembra implicare che nei consigli di amministrazione delle
imprese debbano essere presenti rappresentanti di tutti gli stakeholders
in omaggio a un principio di rappresentanza basilare.
Non c’è dubbio, inoltre, che qualora si accetti la mia proposta
teorica si abbia a disposizione anche un potente strumento
interpretativo-giuridico di natura generale. Si può ipotizzare
infatti una sorta di governo societario ideale, che corrisponde al
contratto sociale. Con questo in mente, si può pensare che il giudice
abbia facoltà di interpretare al meglio casi giuridici controversi.
5. Finora, ho cercato di esplicitare l’ottica implicita nella mia
visione dell’etica degli affari, quella stessa che ha guidato dall’inizio
il nostro progetto di ricerca. Vorrei ora, prima delle conclusioni,
cercare di mostrare in che modo i vari contributi individuali degli
autori della ricerca hanno svolto il loro compito nell’ambito del
progetto più generale.
Il contributo di Diego Corrado, uno studioso di law ed economics
che negli ultimi anni ha specificamente lavorato sulla corporate
governance, è quello che si muove più direttamente nell’ottica
delle mie ultime considerazioni, e, proprio per questo, può esserne
letto come una sorta di prosecuzione naturale.
Naturalmente, c’è una differenza evidente che non dovrebbe sfuggire
al lettore: Corrado si pone nell’ottica giuridica, adoperando a
latere gli strumenti di etica degli affari come un supporto filosofico
per la migliore comprensione e l’auspicata riforma di istituti di
diritto positivo. I suoi scopi, in altre parole, non sono filosofici
ma legali.
Lo sfondo, entro il quale, la sua analisi prende significato, è
quello dei radicali cambiamenti che hanno caratterizzato il regime
economico delle società, in particolare delle società per azioni da
cui parte la sua ricerca. La progressiva separazione tra proprietà e
gestione dell’impresa, che è evidente nel caso delle public
companies e delle imprese finanziarie, testimonia di questo
mutamento drastico della situazione di fatto.
A quest’ultimo deve corrispondere, negli auspici dell’autore ma
anche, suppongo, di tutti noi, un simmetrico cambiamento della
situazione di diritto. In altre parole, gli istituti del governo
societario devono diventare più idonei alle mutate circostanze.
La corporate governance diviene, in quest’ottica, lo
strumento destinato a conciliare gli interessi di investitori,
imprenditori e altri che hanno a che fare con l’impresa, in maniera
equa. Un nuovo regime giuridico per la corporate governance
costituisce in questo modo l’integrazione naturale per la
tradizionale disciplina civilistica delle società per azioni.
Ma come tutto ciò può avvenire in maniera equa e ragionevole? La
risposta si può trovare nella visione di teoria politica normativa
contrattualista che abbiamo prima discusso. Un nuovo regime giuridico
per il governo societario dovrebbe ispirarsi a criteri di equità tra
gli stakeholders. I processi formativi di diritto come anche i
giudici dovrebbero tenere conto di ciò. In questo modo, la politica
integra l’economia - come sopra io auspicavo - ed entrambe
progettano una svolta nella storia delle istituzioni giuridiche che si
occupano del diritto societario.
Diverso da quelli giuridici di Corrado è, invece, l’intento di
Emilio d’Orazio, direttore di Politeia, il centro studi che ha
probabilmente introdotto in Italia la riflessione sistematica sull’etica
degli affari. Basandosi sull’esperienza di Politeia, d’Orazio
tratta la questione della formazione in etica degli affari. In questo
campo, la formazione assume senza dubbio un rilievo speciale, poiché
davvero non ha senso proporre codici etici o comunque tentare di
istituzionalizzare l’etica degli affari, se non lo si fa
coinvolgendo gli stakeholders. E, naturalmente, si può
ritenere che la formazione sia lo strumento principale per ottenere
questo risultato.
Organizzazione di impresa e formazione vanno dunque a braccetto. Ma
per formazione non dobbiamo intendere angustamente l’attività
formativa in senso stretto. Dobbiamo invece pensare a una famiglia
complessa che include centri di ricerca, società che promuovono l’etica
degli affari, riviste specializzate, comportamenti aziendali mirati.
Questa prospettiva allargata a me sembra di per sé molto promettente.
D’Orazio ha il merito, inoltre, di non presentarla in un’ottica
puramente teorica ma di integrarla con una sorta di riflessione
storica comparata. Segue, in questo modo, la sua traccia su tre
percorsi di formazione e organizzazione paralleli ma diversi: quello
statunitense, quello europeo e quello italiano. Il quadro risultante
è davvero perspicuo e assai informativo.
Gli altri tre contributi di ricerca, pur nella loro specificità,
hanno tuttavia un significativo elemento in comune: i limiti dell’etica
degli affari e in particolare i limiti del modello proposto (la stakeholder
analysis). Ingrid Salvatore, una studiosa di filosofia
giuridica e politica particolarmente attenta al lavoro del sindacato,
è del tutto esplicita in questa sua intenzione critica. A suo avviso,
l’etica degli affari è astratta e non rende conto adeguatamente
delle questioni moralmente significative del mondo del lavoro. E ciò
in sostanza perché il suo paradigma dominante non si misura con i
problemi delle relazioni industriali.
In questo modo, la critica dell’etica degli affari diviene
automaticamente critica del modello degli stakeholders. Quest’ultima
- a parere dell’autrice - sottovaluta gli aspetti politici e
istituzionali entro il cui ambito pure prende le mosse. In
particolare, l’etica degli affari è, per l’autrice, troppo
restrittiva, tendendo a ridurre le questioni etiche collettive a
problemi morali individuali, nell’ottica prevalente della
responsabilità individuale del manager. L’allargamento del
paradigma fino a introdurvi le relazioni industriali, e in genere uno
studio sistematico della struttura istituzionale e organizzativa, è
la ricetta proposta.
Mi sembra ci sia un’indubbia originalità in questa proposta, che d’altronde,
per certi aspetti, riprende la mia enfasi sulla necessità di
riflettere sulle vicende politiche che accompagnano i dilemmi etici,
nonché l’insistenza di D’Orazio sull’organizzazione aziendale
come elemento della missione di impresa.
Ho qualche dubbio, invece, su quella che può sembrare una condanna in
blocco della stakeholder analysis da parte di Salvatore.
Si potrebbe, ad esempio, pensare che il modello statunitense, che
troppo spesso gli studiosi italiani adottano in blocco, non tenga
conto di stakeholders indispensabili per comprendere il
panorama italiano, in particolare del sindacato.
In questo modo, si salverebbe un paradigma fruttuoso, e si sosterrebbe
che il metodo della stakeholder analysis deve essere
integrato con le caratteristiche specifiche di ogni universo
imprenditoriale. Salvatore e io abbiamo discusso spesso, durante i
lavori del gruppo di ricerca, su quale delle due opzioni - la sua più
radicale o la mia più riformista - fosse migliore. Credo che entrambi
nutrissimo dubbi in proposito, ma sono sicuro che questo contributo
introduce nel dibattito un elemento di originalità significativo, su
cui si ritornerà a discutere nei prossimi anni.
Nicola Pasini, politologo e sociologo, vuole integrare l’etica degli
affari, introducendo al suo fianco la riflessione sistematica sul lobbying,
e più in genere sull’associazionismo aziendale. Ma questa
intenzione diretta non si comprenderebbe al meglio, se non si tenesse
conto dell’esigenza più generale - particolarmente sentita dall’autore
- di far lavorare fianco a fianco teoria politica e sociale normativa
con teoria politica e sociale positiva. Il tema etico della
responsabilità dell’impresa viene, in quest’ottica, collegato al
ruolo pubblico della comunità del business.
Le teorie politiche positive del corporativismo e del pluralismo
vengono così adoperate per riflettere sistematicamente sul fenomeno
dell’associazionismo imprenditoriale e la sua rilevanza pubblica. D’altra
parte, non è difficile vedere che lo studio della politicizzazione
degli interessi, come emerge dalla formazione delle lobby
imprenditoriali, è una condizione di possibilità di quella
commistione tra politica ed economia, su cui io stesso invitavo a
riflettere.
Dal punto di vista della strategia individuale, le imprese competono
sul mercato economico e creano lobby su quello politico, mentre dal
punto di vista della strategia collettiva formano accordi di cartello
nel primo e ricorrono all’associazionismo politico.
Questo sfondo, sicuramente interessante, consente di ipotizzare un’integrazione
con il modello normativo dell’etica degli affari, sostenendo che
direzione e limiti dell’associazionismo apprezzabile siano da
stabilire coerentemente con i vincoli morali posti da un
contrattualismo ideale. Pure in questo caso, la traccia da seguire mi
sembra assai interessante, anche se siamo ancora agli inizi di quella
che potrebbe essere una fertile integrazione paradigmatica.
Ultimo, ma come dicono gli inglesi solo in ordine di lista, il
contributo di Alessandra Pauncz, una teorica femminista che accompagna
ai suoi studi storico-filosofici anche la pratica psicologica e
operativa a sostegno delle donne discriminate. La sua intenzione, in
questo scritto, è quella di allargare gli interessi abituali dell’etica
degli affari alle questioni della differenza di genere.
Queste ultime sono talvolta discusse in materia, per esempio vengono
menzionate nei codici etici d’impresa, ma non ricevono di solito
adeguata e sistematica trattazione. Legare, come del resto appare
naturale, le questioni di genere al mondo del lavoro, e ai rapporti
tra mondo del lavoro e società nel suo complesso, diviene così la
premessa per integrarle nel paradigma dell’etica degli affari.
Il problema tradizionale - che riguarda differenza di genere e mondo
del lavoro - è costituito dalla discriminazione. Il lavoro femminile
veniva di solito pagato meno di quello maschile nel passato, e ora,
alla presenza di vincoli giuridici che obbligano alla parità di
trattamento, questa discriminazione si trasforma in difficoltà delle
carriere per le donne, perlomeno in difficoltà ad accedere
paritariamente ai livelli più alti (è il problema cosiddetto del “soffitto
di cristallo”).
Un secondo aspetto, quello che solitamente viene trattato dai codici
etici aziendali, è l’aspetto delle molestie sessuali. Da questo
punto di vista, è interessante vedere come l’etica degli affari
possa contribuire a creare atteggiamenti sessuali moralmente più
accettabili nelle aziende. Sullo sfondo, dei problemi legati al lavoro
restano poi, inevitabilmente, le questioni legate al rapporto più
generale con la società e la famiglia.
La ricerca di Pauncz, che è del tutto originale nel suo campo, mette
l’enfasi sui limiti dell’etica degli affari tradizionalmente
intesa, se confrontata con le questioni di differenza di genere. E
soprattutto ci invita a riflettere sulla necessità di tener conto di
questo tipo di problemi nel futuro dei rapporti di impresa.
6. In conclusione, credo che questo progetto presenti nuovi strumenti
intellettuali per affrontare quella difficile ovvietà secondo cui in
Italia si starebbe meglio se le funzioni tipiche di impresa fossero
conciliate con la cultura generale. Ciò non di meno, il punto di
vista della ricerca non è strettamente nazionale, nel senso che le
necessità oggettive di natura intellettuale e culturale del progetto
me lo fanno collocare in un orizzonte più vasto.
C’è da dire in proposito che anche la struttura internazionale di
Ernst&Young, e il suo radicamento negli Stati Uniti dove questo
tipo di ricerca è più avanzato, rende facile farsi un’idea non
provinciale del progetto.
Lo sviluppo effettivo dello stesso progetto si è articolato sulla
scia di tre grandi temi di ricerca (che sono poi quelli su cui insiste
la parte sostanziale del progetto): a) la formazione, b) i codici
etici, c) la corporate governance.
a) Che la formazione rappresenti un elemento essenziale in merito allo
sviluppo di un’etica d’impresa appare evidente. Un’etica d’impresa
richiede che i partecipanti all’impresa stessa facciano propria una
attenzione ai problemi morali che le loro azioni, scelte, decisioni,
possono generare. Si tratta, in questo senso, di contribuire a creare
un nuovo expertise che, alle valutazioni più peculiarmente
legate al processo decisionale aziendale, affianchi valutazioni di
carattere morale. Occorre dunque saper riconoscere e valutare un
problema morale, sapere confrontarlo con le alternative e così via.
Da questo punto di vista, va tenuto conto del fatto che in Italia non
esiste, per varie ragioni, una tradizione di formazione accademica e
aziendale di etica, e quindi, a maggior ragione, dell’etica
applicata. Ciononostante, l’esperienza maturata finora da alcuni
esperti italiani è tale da consentire la proposta di moduli formativi
ben elaborati e vi sono esperienze e strutture a cui fare riferimento.
b) Formazione e codici etici rappresentano in un certo senso due
aspetti fortemente interrelati. Per un verso infatti, la formazione
etica ha senso nella misura in cui riesce a sviluppare atteggiamenti e
prospettive non strettamente legate al raggiungimento di risultati
soltanto economici, e dunque si rivolge in primo luogo a ciascun
individuo coinvolto in processi decisionali; per un altro verso,
tuttavia, è chiaro che le scelte aziendali sono essenziali.
La presenza di codici etici in azienda, benché poco vincolanti dal
punto di vista sanzionatorio, costituisce certo un impulso
motivazionale per valutazioni eticamente orientate.
Per converso, i codici etici a loro volta, perché non rimangano
lettera morta e perché non si riducano a un’imposizione dall’alto
ai dipendenti di una cultura e di un’etica aziendale a essi
estranea, richiedono la diffusione dei valori e delle ragioni
soggiacenti al codice etico stesso. Va da sé che il codice etico, per
queste stesse ragioni, richiede di essere stilato in stretta
connessione con l’azienda e le persone che vi lavorano.
I codici etici hanno avuto negli ultimi anni una diffusione notevole
al di fuori dell’Italia, in particolar modo nelle società
industriali avanzate. Gli Stati Uniti, per fare un esempio classico,
hanno visto dal 1980 al 1990 aumentare la percentuale di imprese che
adottano un codice etico dall’8 al 90 per cento (calcolato sulle
prime 500 imprese della classifica di “Fortune”).
Indicazioni analoghe, anche se meno clamorose, vengono da Francia,
Gran Bretagna e Germania (dove circa il 50 per cento delle grandi
imprese adotta un codice etico). Per cui si può dire che il movimento
in direzione della codificazione etica, e in generale per un’istituzionalizzazione
dell’etica degli affari, non risponde a esigenze contingenti del
caso italiano.
Per procedere in direzione dell’istituzionalizzazione dell’etica
in un contesto organizzato non bastano naturalmente codici etici ben
scritti e meditati. Occorre un processo di penetrazione nelle
coscienze, che comincia con la formulazione partecipata del codice,
continua con la formazione e l’allargamento dell’area della
conoscenza del codice all’interno dell’impresa e nella società, e
si rafforza nel tempo prendendo sul serio le raccomandazioni
sostanziali del codice stesso.
I codici etici sono in ultima analisi strumenti di autoregolazione
delle imprese. È chiaro che l’autoregolazione non può sostituirsi
alla legge nel normare i rapporti intersoggettivi, e che si aggiunge
al costume come modo generale per orientare la convivenza sociale.
Sembra di per sé importante che su questioni complesse, come lo sono
quelle che riguardano gli aspetti più delicati della vita del
business, gli addetti ai lavori facciano sentire la propria voce,
autoregolandosi fin dove è possibile. In questo modo forniscono anche
strumenti indispensabili per l’eteroregolazione (la legge). Va
naturalmente ricordato che i codici etici non impongono vincoli
direttamente giuridici, ma solo impegni morali unilaterali.
c) Infine, per quanto riguarda la corporate governance, anche
qui, nonostante la cosiddetta legge Draghi, c’è un lavoro
significativo da fare in Italia, sia in relazione a nuovi orientamenti
come le privatizzazioni, sia anche in relazione a interventi della
magistratura che hanno messo in rilievo irregolarità nei
comportamenti dei consigli d’amministrazione, sia in special modo
riguardo a un generale ritardo che riguarda tutta la comunità del
business.
Si tratta ovviamente di individuare quegli strumenti e quelle formule
che siano in grado di garantire qualità e trasparenza dell’informativa
societaria, evitando che il processo decisionale sia accentrato nelle
mani di un gruppo di controllo, tenuto conto, come le ricerche svolte
segnalano, che esiste un generale interesse nei confronti di una
evoluzione del sistema, specialmente là dove è diffusa la presenza
di azionisti di minoranza.
La corporate governance, come è noto, riguarda la questione
del rapporto fra gli stakeholders di una compagnia e coloro che
ne gestiscono gli affari. Si tratta di individuare i migliori
meccanismi per cercare di assicurare onestà e integrità da parte del
consiglio di amministrazione, così come occorre fare in modo che la
direzione non persegua il suo proprio interesse economico a spese
degli interessi degli altri. Anche il ruolo e la responsabilità degli
stakeholders sono oggetto di indagine, così come lo è la
protezione che deve essere accordata ai loro interessi.
La base dell’idea, piuttosto semplicemente, è che poiché gli
investitori sono in generale dispersi, relativamente all’oscuro e
possiedono ciascuno una piccola percentuale del totale della
compagnia, accade che essi esercitino un controllo assai limitato sul corporate
management. Si crea dunque una divergenza ulteriore fra la
proprietà e il controllo, controllo che è, possiamo dire,
interamente sottratto alla proprietà stessa.
In generale, il dovere fondamentale della direzione aziendale dovrebbe
essere quello di agire nel miglior interesse della compagnia
considerata nel suo insieme, tenendo conto degli interessi degli shareholders,
dei lavoratori e talvolta anche dei creditori. Tuttavia non è detto
che le cose vadano sempre così.
Questo non solo perché, come appena ricordato, possono crearsi
interessi contrapposti fra chi possiede e chi decide, dove chi decide
è spinto da interessi propri, ma anche perché possono sorgere
divergenze su cosa sia nel miglior interesse della compagnia. In tal
senso, una maggiore condivisione del potere decisionale è fortemente
auspicabile.
Naturalmente quelli sin qui accennati sono solo alcuni aspetti
relativi alla corporate governance, limitatamente alla
partecipazione societaria e al suo rapporto con il management. Non
bisogna tuttavia dimenticare che anche a seconda di come si
considerano gli stakeholders - che possono includere, secondo
il nostro modello, non solo, certo, gli shareholders, ma anche
i lavoratori, i creditori e, al limite, l’intera comunità - all’interno
dell’ambito della corporate governance possono entrare
questioni assai più vaste.
Dal punto di vista pratico, a me pare che l’aver rivolto queste
proposte di metodo e di sostanza proprio a Ernst&Young non sia
privo di interesse. Le difficoltà specifiche del caso italiano
dipendono infatti anche dall’incapacità di uniformare gli standard
di giudizio morale.
La presenza di un’agenzia consolidata nel mondo del business come
Ernst&Young può giovare da questo punto di vista almeno per due
ordini di ragioni. Innanzitutto, può fungere da volano nel sistema,
rendendo normale che le imprese pensino alla istituzionalizzazione
dell’etica degli affari. Già adesso sta diventando pratica comune
per le imprese dotarsi di codici etici prima della quotazione in
borsa, per consolidare al fiducia. A me sembra che nel tempo sia
auspicabile che questa pratica divenga più generale e più sentita.
Ma è anche importante - come la nostra ricerca spero dimostri - che
la istituzionalizzazione sia intesa in maniera più ampia e complessa,
come una forma di coinvolgimento. Da questo punto di vista, un secondo
ordine di ragioni può rendere Ernst&Young un attore significativo
in questo processo, sarebbe a dire una difesa della qualità del
prodotto.
Il prodotto etica degli affari è senza dubbio un prodotto sui
generis, ma è importante difenderlo formalmente per ragioni
sostanziali. L’etica degli affari, se vuol essere operativa e
affidabile, deve essere sganciata dagli uffici di comunicazione e
promozione dell’immagine e, perlomeno in questa fase aurorale,
affidata alla ricerca di base.
* Gli articoli presentati in questo forum sono stati originariamente
elaborati per una ricerca commissionata dalla Ernst&Young.
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