Recenti sviluppi nella ricerca,
organizzazione e formazione in etica degli affari
Emilio D’Orazio
Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della
rivista Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano
Maffettone. Per ulteriori informazioni potete collegarvi al sito della
Luiss Edizioni o
scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it
Premessa
L’interesse per il rapporto tra etica e affari è antico risalendo
all’inizio dell’attività economica. Il fenomeno dell’etica
degli affari invece è recente avendo preso l’avvio negli Stati
Uniti agli inizi degli anni Settanta per poi svilupparsi in quello che
è oggi un importante settore interdisciplinare di studio e di
insegnamento e un significativo movimento sociale internazionale.
In questa indagine ci proponiamo - senza pretesa di completezza - da
un lato, di collocare i recenti sviluppi in Italia dell’etica degli
affari - intendendo riferirci con questa espressione a un settore di
indagine e insegnamento e a un movimento di opinione e non a pratiche
economiche quotidiane - nel più vasto contesto internazionale (Stati
Uniti ed Europa occidentale), dall’altro lato, di fornire un
contributo conoscitivo alla corretta impostazione del problema della
istituzionalizzazione dell’etica, con particolare riguardo all’introduzione
dell’insegnamento dell’etica nelle istituzioni scolastiche e
accademiche e nelle attività di formazione aziendale e all’adozione
da parte di organizzazioni - soprattutto imprese - dei codici etici di
autoregolazione, problema ampiamente dibattuto all’estero e su cui
solo negli ultimi anni si è cominciato a riflettere nel nostro paese.
La nascita dell’etica degli affari come settore autonomo di indagine
interdisciplinare e di insegnamento - che possiamo fissare
convenzionalmente nel novembre 1974, data della prima conferenza di
etica degli affari sul tema “Ethics, Free Entreprise and Public
Policy” svoltasi negli Stati Uniti all’Università del Kansas per
iniziativa di R. De George e J. Pichler - può essere compresa se
posta in relazione soprattutto al mutamento culturale avvenuto negli
Stati Uniti grazie principalmente all’influsso esercitato nell’ambito
della riflessione morale di indirizzo analitico dalla pubblicazione
nel 1971 dell’opera di J. Rawls A Theory of Justice e dall’ampio
dibattito tra teorie etiche rivali che ne è seguito.
Caratteristica principale del nuovo clima culturale è lo spostamento
dell’interesse degli studiosi di etica dalla logica del linguaggio e
del ragionamento morali (metaetica) e dalle questioni “formali” ad
essa legate, dall’inizio del Novecento oggetto quasi esclusivo dell’etica,
alla elaborazione di teorie etiche normative - atte a fornire ragioni
valide per adottare un determinato sistema di principi etici - e alla
loro applicazione ai problemi morali “sostanziali” o “concreti”
di fronte a cui si trovano gli individui.
In generale, in quanto appartenente alla famiglia dell’etica
applicata, l’etica degli affari può caratterizzarsi come l’applicazione
delle teorie etiche normative alle decisioni e ai dilemmi di natura
etica della vita economica e professionale. Secondo questa
impostazione, l’etica degli affari ha il compito di valutare, alla
luce di “valori sociali generalmente riconosciuti”, il “significato
morale di istituzioni, politiche e comportamenti di soggetti aziendali
nello svolgimento normale delle loro attività d’affari” ed è
impegnata su tre livelli distinti di analisi : il livello macro, che
riguarda il sistema politico-economico nel suo complesso; il livello
meso, che riguarda la condotta di soggetti economici collettivi
(associazioni commerciali, settori industriali) e le azioni e le
politiche di specifiche imprese; e il livello individuale, che
riguarda la condotta di individui particolari (dirigenti, dipendenti
eccetera).
Ogni livello include agenti con i loro rispettivi obiettivi, interessi
e motivazioni. Ad ogni livello, inoltre, si suppone che gli agenti
abbiano più o meno estesi spazi di libertà decisionale, con la
conseguente ascrizione ad essi di una qualche forma di responsabilità
morale. In questo approccio quindi gli individui sono esplicitamente
considerati come agenti morali. Anche le imprese e le organizzazioni
economiche sono considerate agenti morali anche se di natura speciale.
Gli Stati Uniti d’America
I segni del progressivo riconoscimento scientifico ottenuto negli
Stati Uniti dal nuovo settore di studio possono essere rinvenuti nella
costituzione, a partire soprattutto dalla metà degli anni Settanta,
di specifici enti di ricerca e di associazioni non profit interessate
a sottolineare la dimensione etica nella conduzione degli affari e
nelle attività professionali; e, a partire dai primi anni Ottanta,
nella pubblicazione di riviste scientifiche di settore e nella
realizzazione di iniziative di formazione in etica, a vari livelli,
nelle principali università, business schools e scuole professionali
del paese.
I centri di ricerca. Gli enti di ricerca in etica degli affari, assai
numerosi oggi negli Stati Uniti, sono assai diversi tra loro per
obiettivi e programmi, per modalità di finanziamento e struttura
organizzativa e per l’impegno in termini di adesione a determinati
principi etici. In questa sede, a titolo di esempio, ci limiteremo a
segnalarne solo alcuni tra quelli accreditati.
L’Olsson Center for Applied Ethics, nato nel 1966 per contribuire a
migliorare gli standard di condotta sia nell’impresa privata sia
nell’impresa pubblica, è collegato alla Darden Graduate School of
Business Administration dell’Università della Virginia, dove il
corso di Business Ethics è tenuto da P. Werhane. Diretto da E.
Freeman, il Centro è noto soprattutto per l’importante attività di
ricerca e di consulenza aziendale in etica degli affari svolta 8.
Inoltre, a cura del Centro viene edita la prestigiosa “Ruffin Series
in Business Ethics”, pubblicata originariamente da Oxford University
Press e dal 1999 dalla Society for Business Ethics.
Collegato al Bentley College di Waltham, una grande business school,
il Center for Business Ethics è sorto nel 1976 allo scopo di creare
un forum attraverso il quale studiare le questioni etiche collegate
alla pratica degli affari nella società contemporanea. Lo sforzo
principale del Centro, diretto da W.M. Hoffman, è rivolto sia all’elaborazione
di un framework etico per la conduzione degli affari, sia alla
promozione della massima cooperazione su temi etici tra università,
aziende, governo, mondo del lavoro e gruppi di interesse. In questo
quadro si inserisce l’organizzazione dal 1977 delle conferenze
nazionali di etica degli affari e la successiva pubblicazione degli
atti.
Svolge prevalentemente attività di ricerca e consulenza l’Ethics
Resource Center, un’organizzazione privata non profit nata a
Washington nel 1977 come risposta alla crescente preoccupazione
pubblica per il venir meno dei principi etici nella comunità degli
affari e nelle attività di governo. Avendo come scopo quello di
aumentare la fiducia pubblica in tali istituzioni mediante il
rafforzamento delle loro pratiche etiche, il suo programma di
consulenza si è rivolto principalmente a grandi corporations e ad
agenzie governative federali e statali.
Le societies. L’ampia diffusione di enti di ricerca assai eterogenei
tra loro ha reso necessario ben presto la costituzione di “societies”
in grado di fornire una sede in cui affrontare i temi di comune
interesse e di facilitare la comunicazione tra tutti i soggetti
(studiosi, enti, imprese eccetera) interessati alla nuova disciplina e
al suo sviluppo.
Dalla fine degli anni Settanta opera la Society for Business Ethics,
con sede presso la Bowling Green State University la quale ha tra i
suoi obiettivi quello di promuovere lo studio dell’etica degli
affari e la diffusione del suo insegnamento nelle università e nelle
altre organizzazioni, lo sviluppo di organizzazioni etiche, la ricerca
in etica degli affari attraverso la pubblicazione regolare del
trimestrale “Business Ethics Quarterly” e della Ruffin Series,
sotto forma di fascicoli speciali.
Un particolare significato per lo sviluppo della disciplina ha
rappresentato infine la costituzione in anni più recenti della
International Society of Business, Economics and Ethics. Si tratta di
un’organizzazione non profit sorta nel 1989 allo scopo di: 1)
incoraggiare l’attività di ricerca sulle questioni di etica degli
affari a livello internazionale; 2) sviluppare un network per la
condivisione di informazioni e 3) promuovere lo sviluppo dell’etica
degli affari a livello internazionale; a questo proposito dal 1996
organizza, con cadenza quadriennale, un congresso mondiale di etica
degli affari. Attualmente l’associazione è presieduta da R. De
George, dell’Università del Kansas, e conta oltre 250 membri
(individui, imprese, centri di ricerca e organizzazioni non profit) in
oltre 20 paesi.
Le riviste. Al consolidamento del nuovo settore di studio ha dato un
apporto decisivo la pubblicazione di riviste scientifiche di settore
in quanto strumenti essenziali per l’aggregazione e il confronto tra
studiosi di diverse discipline, esperti e operatori.
Nel 1981-82 sono nate due riviste dirette da filosofi e con taglio
interdisciplinare - le prime del settore: “Journal of Business
Ethics” - rivolta all’esame delle questioni etiche collegate al
business - e “Business and Professional Ethics Journal” - rivolta
all’analisi dei problemi etici dei professionisti che operano in
organizzazioni pubbliche e private. Nel 1988 è nato “l’International
Journal of Value-Based Management”, rivolto alla chiarificazione del
ruolo dei valori nel comportamento organizzativo e nel processo
decisionale aziendale.
Nel 1991-92, il già ampio panorama delle riviste statunitensi 13 si
è arricchito di due nuove testate: “Business Ethics Quarterly”,
organo della Society for Business Ethics, e “Professional Ethics”,
organo del Center for Applied Philosophy and Ethics dell’Università
della Florida, Gainesville. Attualmente le due riviste più importanti
e diffuse sono sicuramente “Journal of Business Ethics” e “Business
Ethics Quarterly”, che si caratterizzano per l’adozione di due
approcci diversi: più applicato ed empirico la prima, più teoretico
la seconda.
La letteratura. Non sorprende quindi constatare, in questo fermento di
iniziative, culminato nell’inserimento, per iniziativa di Richard De
George, di una tavola rotonda sull’etica degli affari nel programma
del Congresso mondiale di filosofia del 1988 - evento decisivo per l’accreditamento
a livello internazionale del nuovo campo di studi - che dal 1978, data
di pubblicazione, a cura dello stesso De George e di J.A. Pichler, di
una fondamentale raccolta di saggi dal titolo Ethics, Free Enterprise
and Public Policy (Oxford University Press), la bibliografia relativa
a questo settore di studi sia enormemente cresciuta e ad esso siano
specificamente dedicate alcune collane di volumi come la già citata
Ruffin Series in Business Ethics (edita dal 1989 al 1999 da Oxford
University Press), e successivamente dalla Society for Business Ethics,
la Issues in Business Ethics (edita da Kluker Academic Publishers), la
Notre Dame Series in Business Ethics (edita da University of Notre
Dame Press) e la Foundations of Business Ethics (edita da Blackwell).
Tra i numerosi temi affrontati, a partire dagli anni Settanta, dagli
studiosi statunitensi vanno almeno ricordati quelli della giustizia
economica, della responsabilità sociale delle imprese, della teoria
del contratto sociale, della teoria degli stakeholders, della teoria
dell’impresa come comunità morale, della teoria della virtù, dei
modelli di comportamento etico delle imprese, del problema decisionale
nel marketing, della moralità e della coscienza aziendali, dei
diritti dei dipendenti, dei “delatori” aziendali, del ruolo dell’etica
nel curriculum nelle business schools e dei codici etici di impresa,
dell’autorità manageriale, dell’etica nel marketing, delle
questioni ambientali e dell’etica nel business globale.
La letteratura scientifica può essere anche classificata secondo
quattro tendenze dominanti: letteratura di tipo normativo, metaetico,
descrittivo e prescrittivo. La letteratura di tipo normativo si è
concentrata soprattutto sull’esame della teoria del contratto
sociale e della teoria dell’impresa basata sul modello degli
stakeholders. La nozione di contratto sociale, introdotta dai filosofi
politici (da T. Hobbes a J. Rawls) al fine di fondare la legittimità
morale di particolari forme di governo e di definire gli obblighi
reciproci di governanti e cittadini, è stata applicata a partire dai
primi anni Ottanta anche alle istituzioni economiche e alle
organizzazioni produttive.
Nella prospettiva contrattualista le corporations, come gli Stati
politici, sono “manufatti” creati dall’uomo e in quanto tali
necessitano di giustificazione. Le domande fondamentali da porre a
questo riguardo sono: perché le corporations esistono? Qual è la
giustificazione della loro attività? Quali obblighi la società
dovrebbe imporre ad esse? Il riferimento a un contratto implicito tra
corporations e società fornisce una risposta a tali questioni. Nella
prospettiva contrattualista, infatti, il “fondamento morale” della
corporation, intesa come organizzazione produttiva, risiede nella sua
capacità di promuovere “il benessere della società attraverso la
soddisfazione degli interessi del consumatore e del lavoratore”.
La teoria dell’impresa basata sul modello degli stakeholders,
elaborata compiutamente da W. Evan e E. Freeman in un articolo del
1988 dal titolo A Stakeholder Theory of the Modern Corporation:
Kantian Capitalism sostiene che la dottrina secondo cui i manager
sarebbero responsabili esclusivamente verso gli azionisti dovrebbe
essere sostituita da una teoria più generale secondo cui essi hanno
un “rapporto fiduciario” verso una ampia serie di stakeholders
dell’impresa, intendendo con questo termine “fornitori, clienti,
dipendenti, azionisti e la comunità locale, come pure il management
nel suo ruolo di agente di questi gruppi”, cioè quegli individui o
“gruppi che hanno un interesse legittimo o una pretesa legittima
sull’impresa”.
Il fondamento morale della teoria risiede nel principio kantiano del
rispetto delle persone secondo cui esse (stakeholders) devono essere
trattate come fini in sé e non meramente come mezzi per qualche fine;
sulla base di questo principio Evan e Freeman sostengono che i diritti
di proprietà degli azionisti non sono assoluti e pertanto non possono
giustificare l’uso degli stakeholders come mezzi in vista di fini
aziendali. Il manager, dunque, nel prendere delle decisioni aziendali
deve attribuire simultanea attenzione agli interessi legittimi di
tutti gli stakeholders.
La letteratura di tipo metaetico si è concentrata: a) nello studio
dei frameworks cognitivi che sono implicati nel processo decisionale
etico individuale e aziendale e b) nello sviluppo di dettagliati
modelli decisionali manageriali normativi.
La letteratura di tipo descrittivo ha indagato tra l’altro: a) le
credenze etiche di manager con specifiche responsabilità funzionali e
b) le credenze di individui e aziende attraverso le culture.
La letteratura di tipo prescrittivo, infine, allo scopo di
incoraggiare la business community ad essere più etica, ha teso a
fornire agli uomini d’affari indicazioni su come ciò può essere
raggiunto attraverso l’istituzionalizzazione dell’etica nelle
organizzazioni mediante l’adozione di codici etici e l’insegnamento
dell’etica.
Come si può desumere da questo quadro sintetico, l’etica degli
affari negli Stati Uniti ha affrontato nel corso degli ultimi trent’anni
prevalentemente questioni emergenti al livello micro (degli individui)
e al livello meso (delle organizzazioni). A conferma di ciò, questo
quadro tematico può essere utilmente confrontato con l’insieme
delle diverse questioni trattate nei fascicoli speciali pubblicati
negli anni Novanta dalle due maggiori riviste sopra richiamate (“Journal
of Business Ethics” e “Business Ethics Quarterly”).
Da questo confronto si può desumere che le questioni dell’insegnamento
dell’etica degli affari, dell’etica nel marketing e del ruolo dell’etica
nel business internazionale sono tra le più discusse dagli esperti
negli anni Novanta, inoltre, che nella prima metà degli anni Novanta,
accanto allo studio delle teorie normative degli stakeholders e del
contratto sociale, emerge un’attenzione particolare per il metodo
impiegato nelle ricerche empiriche e per la distinzione
normativo/descrittivo in etica degli affari, e che nella seconda metà
emerge un’attenzione per temi inediti quali quello del ruolo delle
donne nella gestione aziendale e dell’applicazione della teoria dei
giochi allo studio dell’etica degli affari.
L’insegnamento universitario. Fornito questo quadro sintetico della
ricerca in etica degli affari, occorre precisare che gli sviluppi più
significativi dell’etica degli affari negli ultimi venticinque anni
riguardano, probabilmente, l’insegnamento in ambito accademico, sia
a livello undergraduate sia graduate, della nuova disciplina. Già
alla fine degli anni Ottanta, infatti, in oltre il 50 per cento delle
business schools statunitensi l’etica era entrata a far parte del
programma di studi. La considerazione di tale dato, soprattutto se
confrontato con la situazione registrata quindici anni prima, ha
portato alcuni studiosi a ritenere che attualmente negli Stati Uniti
“l’appropriatezza dell’insegnamento dell’etica nelle business
schools sembra essere ampiamente accettata”.
Secondo stime recenti, negli Stati Uniti (e Canada) esistevano a metà
degli anni Novanta oltre quaranta cattedre di etica degli affari e
delle professioni - istituite prevalentemente grazie a donazioni
private - e oltre cinquecento corsi di etica in college, università e
business schools, con più di quarantamila studenti. È il sistema
delle donazioni private che ha infatti consentito alle business
schools statunitensi di essere in molti casi innovative, favorendo l’introduzione
nel curriculum di nuove materie di insegnamento senza per questo
mettere in discussione la struttura esistente dei programmi e
minacciare le posizioni accademiche consolidate.
Presupposto di questo sviluppo è la convinzione, ampiamente accettata
tra gli esperti e docenti statunitensi, che l’etica possa essere
insegnata non solo negli asili d’infanzia ma anche nei college e
nelle università. Per quanto riguarda in particolare le business
schools è importante a questo proposito ricordare che la American
Assembly of Collegiate Schools of Business - l’autorevole agenzia
che accredita nel Nord America i programmi delle business schools -
abbia deciso di accettare, già dal 1974, solo piani di studio con una
componente etica, stabilendo nei suoi criteri di accreditamento che
“i curricula, a livello sia undergraduate sia MBA, offrano una
interpretazione delle prospettive che formano il contesto del business”
- includendo le “questioni etiche e globali” e “le influenze dei
problemi politici, sociali, legali, ambientali e tecnologici” - per
cui agli studenti dovrebbe essere fornito “un background dell’ambiente
economico e giuridico […] insieme a considerazioni etiche e
influenze sociali e politiche in quanto toccano le organizzazioni”.
La tendenza attuale nelle business schools - che si inserisce in un
più generale programma, in discussione negli Stati Uniti, tendente ad
un ampliamento della business education attraverso l’integrazione
negli studi di management di discipline umanistiche come la filosofia,
la sociologia, la letteratura, lo studio dei classici e la storia -
consiste nel ritenere che i piani di studio non prevedano soltanto un
corso separato, facoltativo o obbligatorio, di etica degli affari, ma
che l’etica sia anche integrata adeguatamente all’interno dei
corsi obbligatori che già fanno parte del curriculum. Istruttive, a
questo proposito, sono le strategie didattiche concepite a partire
dalla metà degli anni Ottanta alla Wharton School of Business dell’Università
della Pennsylvania e al College of Business della Northern Illinois
University sia per quanto attiene al livello graduate sia
undergraduate di insegnamento.
Esaminiamo qui nelle sue linee generali l’esperienza di
progettazione e implementazione realizzata presso la Wharton School in
quanto essa è diventata per molte business schools statunitensi un
modello da seguire.
Nell’anno accademico 1987-1988 un progetto di studio sull’insegnamento
dell’etica nei programmi di MBA nelle business schools ha concluso
che questo insegnamento doveva essere incorporato direttamente nei
corsi fondamentali del master e che, in vista di ciò, i docenti delle
materie funzionali dovevano essere attivamente coinvolti nell’insegnamento
dell’etica degli affari. L’idea non era infatti quella di “aggiungere”
semplicemente l’etica alla trattazione delle funzioni aziendali
quanto di accentuare la dimensione etica di queste. In vista di ciò,
un project team, costituito da studenti, docenti di etica e docenti di
business, ha elaborato un programma per l’integrazione dell’etica.
Il primo passo in questa direzione è stato quello di individuare
alcuni corsi fondamentali nel curriculum del MBA dove l’integrazione
dell’etica poteva essere appropriata. I corsi selezionati sono stati
i seguenti quattro: “Management and organizational behaviour”, “Marketing
management”, “Corporate finance” e “Business policy”.
L’integrazione dell’etica venne realizzata attraverso l’impiego
di due componenti fondamentali: a) una introduzione generale all’etica,
rivolta a familiarizzare gli studenti con letteratura e concetti di
etica degli affari e b) alcuni moduli di etica sistematicamente
integrati nei corsi fondamentali precedentemente individuati. Uno
degli esiti più interessanti dello studio condotto alla Wharton
School è stato quello di scoprire che molti corsi del Master sono
candidati possibili per l’inclusione di moduli di etica. Per un
esempio di corsi e di argomenti da affrontare nei moduli di etica si
può vedere la tavola seguente:
Caratteristica essenziale dell’approccio seguito alla Wharton School
è la ricerca di un coinvolgimento diretto - da ottenere in modo non
autoritario - di un ampio numero di docenti delle materie funzionali.
L’esperienza della Wharton School mostra che una modalità efficace
per ottenere ciò consiste prima di tutto nel realizzare un incontro
con i docenti che insegnano le materie fondamentali per presentare
loro l’idea dell’integrazione dell’etica nel curriculum delle
business schools; in secondo luogo nel chiedere ad ognuno di essi di
descrivere che cosa già facciano nei loro corsi relativamente alle
questioni etiche. Tale modalità dovrebbe consentire di avviare quanto
meno una discussione in cui i docenti di business scoprono che a) già
affrontano questioni di etica nei loro corsi e b) le tematiche di
etica professionale sono affrontate ampiamente nelle riviste
specializzate nelle loro discipline.
La Wharton School, inoltre, nell’anno accademico 1991-92 ha avviato
un progetto per l’integrazione dell’etica anche nel curriculum
degli studi a livello undergraduate. In vista di ciò sono stati
individuati dodici corsi fondamentali, inclusi quelli di contabilità,
finanza, management e marketing. Scopo del progetto era quello di
contribuire alla crescita della capacità degli studenti di affrontare
responsabilmente le questioni etiche nel business e, in particolare:
convincere gli studenti che l’etica è una parte importante delle
funzioni chiave del business; fornire una trattazione di una ampia
gamma di questioni etiche a tutti gli studenti e non solo a quelli
frequentanti un corso facoltativo di etica; aumentare la
consapevolezza dello studente riguardo alle questioni etiche nel
business; fornire agli studenti l’opportunità di sperimentare
processi decisionali in cui sono presenti questioni etiche.
In ognuno dei dodici corsi selezionati, le questioni etiche sono
presentate agli studenti in una o due lezioni, oppure sono
periodicamente messe in evidenza lungo tutto il semestre. In questo
modo si intende fornire agli studenti la possibilità di avere un
esauriente confronto con questioni di equità e responsabilità
sociale. Inoltre, attraverso le diverse opzioni disponibili nel
curriculum, l’etica viene trattata in modo non uniforme consentendo
così agli studenti di fare esperienza in modo vario di questioni
etiche in contesti realistici.
Poiché lo scopo dell’iniziativa inaugurata alla Wharton School è
quello di insegnare agli studenti un approccio generale alle questioni
etiche, e non di insegnare loro una risposta specifica a particolari
dilemmi etici, la strategia didattica adottata non garantisce che i
laureati nella loro vita professionale si comporteranno eticamente: la
comprensione intellettuale degli obblighi etici infatti può non
essere sufficiente a garantire ciò; tuttavia, essa può fornire un
importante contributo in vista di ciò.
Nonostante l’importanza delle esperienze realizzate alla Wharton
School, occorre tuttavia sottolineare che una delle difficoltà
maggiori che si presentano ancora oggi nelle business schools
statunitensi, relativamente all’introduzione di un approccio
integrato all’insegnamento dell’etica, sia a livello undergraduate
sia graduate, è connessa al fatto che, pur essendo l’etica
applicata agli affari un settore di studio interdisciplinare, vi è
attualmente ancora una scarsa integrazione tra il lavoro dei filosofi
morali, da una parte, e quello degli economisti ed esperti di
management, dall’altra, con la conseguenza che pochi filosofi sanno
a sufficienza di business e pochi economisti ed esperti di management
sono preparati adeguatamente in etica per insegnare e scrivere con
competenza di questioni etiche nella vita professionale e pubblica.
Per ovviare a questa difficoltà si è suggerita da più parti l’ideazione
di programmi di specializzazione in etica degli affari. Tuttavia, la
proposta di specifici dottorati di ricerca in etica degli affari si
scontra con la constatazione del fatto che, come ha osservato nel 1992
De George, in nessuna università statunitense esiste un dipartimento
autorevole in cui siano presenti in numero sufficiente docenti e
ricercatori di etica degli affari in grado di fornire una formazione
adeguata a studenti impegnati in un PhD. Solo a metà degli anni
Novanta, la Darden Graduate School of Business Administration dell’Università
della Virginia ha avviato un programma di dottorato, della durata di
tre anni, che prevede la specializzazione nelle seguenti materie: “Finance”,
“Marketing”, “Operations Management”, “Management Science”
e “Management”. Quest’ultima materia contempla come sottocampi,
oltre a “Organizational Studies” e “Strategic Management”,
anche “Business Ethics”.
Per rispondere alla necessità della creazione di una comunità di
esperti e docenti preparati ad affrontare le questioni etiche che
sorgono nella vita pubblica e in particolare nel mondo degli affari,
nella pubblica amministrazione, nel diritto e in medicina, è nato nel
1986 il Program in Ethics and the Professions, avviato dalla
Università di Harvard, che prevede l’assegnazione annuale di borse
di studio per un numero ristretto di giovani laureati in economia,
scienze politiche, giurisprudenza o medicina, oppure in possesso di un
dottorato in filosofia, teoria politica o teologia, che consentano
loro di frequentare per un anno accademico un corso di studi rivolto a
sviluppare la loro competenza ad insegnare e scrivere su questioni
etiche nella vita pubblica e professionale.
Dalla sua istituzione il Program è progressivamente divenuto, sotto
la direzione di D. Thompson, il cuore di ciò che è ora ad Harvard -
dove ogni facoltà nell’ultimo decennio ha avviato corsi e programmi
di etica costituendo un proprio gruppo di docenti specializzati - un
consolidato movimento per dare all’etica un posto significativo nei
piani di studio dell’università e nell’agenda della ricerca. A
questo proposito il Program fornisce la consulenza necessaria per
sviluppare nuovi corsi di etica non solo nell’Università di Harvard
ma anche nelle altre istituzioni educative del paese che ne facciano
richiesta.
Tra le professional schools di Harvard, interessante ai nostri fini è
l’esperienza maturata presso la Graduate School of Business
Administration che dal 1988 ha varato un piano di studi MBA denominato
Leadership, Ethics and Corporate Responsibility, diviso in tre parti.
La prima parte prevede l’attivazione di un modulo di tre settimane
sul tema “Decision Making and Ethical Values” la cui frequenza è
obbligatoria da parte di tutti gli studenti che iniziano il MBA. Il
corso, basato sulla discussione di casi aziendali, ha lo scopo di
introdurre gli studenti del primo anno alla vasta gamma di questioni
etiche del management e può contare sulla presenza di nove docenti
tra cui alcuni esperti di etica. Attraverso questa iniziativa la
business school è impegnata a coinvolgere sui temi dell’etica il
maggior numero possibile di docenti e a sottolineare agli studenti,
attraverso l’inserimento del modulo all’inizio del loro programma
di studi, la centralità delle questioni etiche nel processo
decisionale manageriale.
La seconda parte prevede l’integrazione della dimensione etica in
tutte le materie funzionali. In vista di ciò gruppi di docenti delle
varie aree funzionali, con il supporto dei docenti di etica, hanno
provveduto alla elaborazione di nuovi materiali didattici,
principalmente studi di casi e riveduto programmi di corsi
obbligatori. La terza parte del piano di studi consiste, infine, nella
attivazione di ulteriori corsi facoltativi di etica degli affari nel
secondo anno. A questo riguardo due docenti della scuola, Lynn Sharp
Paine e J. Gregory Dees, hanno tenuto recentemente due corsi dedicati,
rispettivamente, a “Managing for Organizational Integrity” e a “Profits,
Markets and Values”. Inoltre, altri corsi facoltativi già esistenti
sono stati ripensati alla luce dell’integrazione dell’etica come,
per esempio, quello tenuto da Joseph L. Badaracco sul tema “Moral
Dilemmas of Management”.
Se l’Università di Harvard guida la promozione dell’etica degli
affari a livello di MBA, occorre però ricordare che è soprattutto a
livello undergraduate - generalmente nei Dipartimenti di filosofia,
management e teologia - che negli Stati Uniti è stato introdotto l’insegnamento
della nuova disciplina. A tale livello di insegnamento l’etica degli
affari trova generalmente una trattazione più sistematica e completa
che nei corsi di master, caratterizzati invece da una maggiore
specializzazione e da una minore importanza attribuita alla formazione
umanistica.
Un esempio interessante di introduzione sistematica all’etica degli
affari è rappresentato dal corso facoltativo di base, dal titolo “Moral
Issues in Business”, tenuto da R. De George nel Dipartimento di
filosofia dell’Università del Kansas, a Lawrence, e considerato da
molti esperti - per l’autorevolezza del docente - un modello da
seguire.
Il corso è suddiviso in quattro parti dedicate, rispettivamente, a
“Il ragionamento morale”, in cui si esaminano la natura dell’etica
e le tecniche standard di argomentazione morale; “La moralità e i
sistemi economici”, in cui si esaminano l’etica del capitalismo e
del socialismo; “Le questioni morali per le imprese statunitensi”,
in cui si discutono questioni specifiche quali le responsabilità
morali delle imprese e di coloro che vi lavorano, i diritti dei
lavoratori, la verità nella pubblicità eccetera, e “Le
multinazionali e il business internazionale”, in cui si esaminano l’etica
del sistema economico globale e gli obblighi etici delle
multinazionali.
Per quanto riguarda la metodologia didattica, il programma prevede l’uso
di lezioni teoriche, discussioni in classe e studi di casi. Gli
studenti sono tenuti a conoscere due testi specifici, a elaborare tre
brevi papers in cui il ragionamento morale viene applicato a casi e a
sottoporsi a due test in classe e ad un esame finale.
Attraverso un corso di etica degli affari, secondo De George, è
possibile porsi solo un obiettivo di natura intellettuale: attraverso
un corso di etica non ci si propone, infatti, né di plasmare il
carattere dei discenti, per poi motivarli ad agire eticamente, né di
formare studenti in grado di affrontare solo situazioni concrete nelle
quali potrebbero venire a trovarsi immediatamente, trascurando quindi
i problemi più astratti di struttura o di politica aziendale, ma,
invece, di aiutarli a riflettere sui problemi etici che potrebbero
incontrare nel corso della loro vita professionale, mettendoli in
grado di ragionare correttamente dal punto di vista etico nel
difendere le proprie decisioni tanto di fronte ai dipendenti quanto di
fronte ai superiori e di partecipare attivamente alle discussioni di
politica aziendale e di politica pubblica.
Pertanto, con un corso di etica non si vuole trasformare gli studenti
in “persone migliori”, ma elevare la qualità del processo
decisionale aziendale. Tale scopo è raggiunto ogni qual volta un
agente riconosce che sono in gioco considerazioni circa diritti e
doveri, e che il benessere e il rispetto di tutti coloro che sono
interessati dalle decisioni e azioni aziendali meritano di essere
presi esplicitamente in considerazione.
Negli Stati Uniti la necessità di insegnare l’etica nelle
università e nelle business schools, al fine di fornire ai business
leaders di domani il framework indispensabile per prendere decisioni
etiche difficili, è stata sottolineata con forza non solo dal mondo
accademico ma anche da quello delle imprese. Nel 1987 l’Arthur
Andersen&Co. di Chicago ha istituito un Advisory Council on Ethics,
di cui facevano parte dirigenti d’impresa, docenti ed esperti di
management e business ethics, allo scopo di elaborare le linee guida
di un programma di etica degli affari. Il Council - presieduto da P.
Werhane - ha sostenuto la necessità di integrare l’etica nel
curriculum esistente nelle business schools del paese individuando in
particolare nella contabilità, nella finanza, nel management e nel
marketing le aree funzionali dove la formazione etica avrebbe potuto
rivelarsi di più grande utilità.
Sotto la guida del Council il Business Ethics Program ha elaborato un’ampia
gamma di materiali didattici, in modo particolare studi di casi, e
organizzato presso l’Arthur Andersen Center for Professional
Education di St. Charles, Illinois, seminari gratuiti di tre giorni
sull’insegnamento dell’etica degli affari per docenti universitari
- soprattutto di business. Tra il 1988 e il 1991 oltre mille docenti
provenienti da circa trecento istituzioni educative del Nord America
hanno partecipato a tali seminari.
Completato il Program, nel 1993 l’Andersen ha anche avviato, con l’intento
di favorire ulteriormente la diffusione nelle università della
formazione in etica degli affari, la costituzione di un network dei
coordinatori di etica degli affari nominati dai presidi delle varie
business schools del paese. Compito dei circa cinquecento coordinatori
reclutati, a cui è stato fornito dall’Arthur Andersen un set
completo di materiali didattici, è quello di promuovere l’adozione
di tali strumenti tra i docenti delle varie università del paese.
Dopo il successo conseguito nelle università, l’Arthur Andersen ha
infine deciso di mettere a disposizione anche di aziende, enti
governativi e organizzazioni non profit i materiali didattici
elaborati per il Business Ethics Program. Per la realizzazione di tale
programma l’Arthur Andersen&Co. ha stanziato e speso cinque
milioni di dollari in cinque anni.
Gli sviluppi recenti nel campo dell’istruzione universitaria e
postuniversitaria qui documentati sono stati preparati - occorre
rammentarlo - dall’attenzione che gli studiosi di etica ed esperti
di management statunitensi hanno posto, fin dalla fine degli anni
Settanta, ad alcune questioni fondamentali di ordine metodologico
circa l’insegnamento dell’etica nell’istruzione superiore,
cruciali nel momento in cui, diffondendosi nella società un nuovo
interesse per l’etica applicata, le istituzioni educative si
apprestavano ad inserire il nuovo insegnamento nel curriculum degli
studi universitari, in particolare economici e manageriali. Nel 1980
apparvero, infatti, due rapporti che hanno posto le linee guida per lo
sviluppo futuro dell’insegnamento dell’etica.
Il rapporto dello Hastings Center di New York, elaborato sotto la
direzione di Daniel Callahan e Sissela Bok, ha identificato cinque
scopi per i corsi di etica: stimolare l’immaginazione morale;
sviluppare capacità nel riconoscimento delle questioni morali;
sviluppare capacità analitiche; suscitare un senso di obbligo morale
e di responsabilità personale; insegnare a tollerare - e a ridurre -
il disaccordo morale. Su questa base, Power e Vogel - trattando
specificamente della formazione in etica dei manager - hanno chiarito
che specifico scopo dei corsi di etica degli affari nelle business
schools è l’integrazione della competenza manageriale con quella
etica; l’obiettivo cioè è di rendere avvertiti i futuri manager
che l’etica è parte integrante di ogni processo decisionale in cui
si troveranno coinvolti nella vita professionale. Pertanto, lo scopo
di un corso di etica degli affari non è quello di cercare di mutare
il comportamento degli studenti ma di aiutarli a sviluppare quelle
intuizioni, capacità e prospettive che preparano ad una vita
professionale moralmente responsabile, utilizzando una seria
riflessione morale.
Il rapporto del Committee for Education of Business, a sua volta, ha
fornito, tra l’altro, alcune raccomandazioni su come progettare i
corsi di etica degli affari a vari livelli di insegnamento; secondo
gli estensori, tre sono gli elementi essenziali di un corso di
formazione in etica: a) una parte dedicata al chiarimento dei concetti
etici fondamentali, come “equità”, “obbligo”, “giustizia”,
“danno”, ritenuti indispensabili per l’analisi di casi di etica
degli affari; b) una parte dedicata alla presentazione delle teorie
etiche più influenti, come utilitarismo e kantismo, e alla loro
applicazione ai problemi più urgenti nel campo dell’etica degli
affari; c) una parte di studi di casi con analisi etica.
Entrambi i rapporti ritengono che il collegamento tra competenza
manageriale e competenza etica sia assicurato dall’uso della
metodologia dello studio dei casi, casi tratti dall’esperienza
aziendale in cui si simulano decisioni manageriali da parte dello
studente dopo che questi ha incluso nella sua analisi anche la
dimensione etica. In questa prospettiva l’impiego del metodo dei
casi costituisce, per dirla con Power e Vogel, “la più appropriata
risorsa pedagogica [...] poiché sono i casi che mostrano la gamma di
tipi di dilemmi morali che stimolano la riflessione etica secondo
modalità che aiutano a coltivare il giudizio morale nella presa di
decisioni manageriali”.
Sulla scorta di tali indicazioni, il numero dei manuali e delle
raccolte di studi di casi attualmente disponibili è progressivamente
cresciuto. E al libro di testo probabilmente tra i più adottati nelle
business schools statunitensi, il volume curato da T.L. Beauchamp e N.
Bowie, Ethical Theory and Business (prima ed. 1978, quinta ed. 1996),
è possibile fare riferimento per trovare una esemplificazione del
come e del che cosa insegnare in un corso di etica degli affari.
Il volume, periodicamente rivisto e aggiornato, ha mantenuto costante
nel tempo l’attenzione sul valore e l’importanza della riflessione
morale. Il primo capitolo pone le fondamenta per il resto del volume
esaminando tre aree generali: definizioni, teoria normativa e analisi
di casi. La prima area si concentra su concetti e questioni basilari
che definiscono l’ambito del ragionamento etico. Segue una parte
dedicata alla teoria etica normativa: l’approccio deontologico e
teleologico sono discussi e confrontati. La parte finale del primo
capitolo si occupa dell’applicazione del metodo dei casi al
ragionamento etico. I curatori concludono questa parte con un
avvertimento al lettore circa la natura e i limiti dell’indagine
etica: “La filosofia può aiutarci a trovare un approccio ragionato
e sistematico ai problemi morali, ma non fornisce soluzioni
automatiche o procedure definitive per la presa delle decisioni”.
Il volume si sviluppa successivamente trattando le seguenti questioni:
a) la responsabilità aziendale; b) la regolamentazione del mondo
degli affari; c) il rischio accettabile dal punto di vista del
consumatore, del lavoratore, dell’investitore e dell’ambiente; d)
i diritti e i doveri del datore di lavoro e del dipendente; e)
discriminazione e attività lavorative; f) la pubblicità e il
trattamento delle informazioni; g) le questioni etiche nel business
internazionale; h) le teorie della giustizia sociale ed economica. In
ognuno degli otto capitoli, una introduzione dei curatori all’argomento
trattato precede una selezione di saggi di diversi autori che offrono
una gamma di punti di vista su questioni controverse. La parte
restante di ogni capitolo è costituita dalla proposta di almeno due
“prospettive giuridiche” - la considerazione delle quali dovrebbe
stimolare lo studente a tenere conto delle differenze tra teoria etica
e decisione giuridica - e dalla presentazione di quattro casi
aziendali.
Per quanto riguarda più in generale gli argomenti affrontati nei
manuali (e nei corsi), si può osservare che di solito il “modello
degli stakeholders” opera come sfondo generale consentendo che
vengano prese in considerazione le implicazioni etiche delle decisioni
aziendali riguardanti le differenti constituencies dell’impresa.
Questo approccio spesso è combinato con un “modello dei tre livelli”
in cui il riferimento ai livelli dell’individuo, dell’azienda e
della società nel suo complesso consente un’ulteriore articolazione
dei problemi esaminati in aula. Alle differenti intersezioni dei due
modelli si trovano i dilemmi morali che si devono affrontare nelle
relazioni quotidiane d’affari: dilemmi che gli individui affrontano
quando operano nei loro ruoli all’interno della gerarchia aziendale
o direttamente di fronte alla comunità sociale; dilemmi dell’azienda
in relazione a fornitori, clienti, concorrenti o enti governativi e
dilemmi dell’azienda con riguardo all’ambiente naturale, alla
società nel suo complesso e alle generazioni future.
L’etica in azienda. Il contributo più rilevante alla
istituzionalizzazione dell’etica è però venuto dal mondo delle
imprese e degli affari statunitense. A questo proposito, indicativi
sono i risultati di alcune ricerche sulla diffusione dei codici etici
nelle grandi aziende. La ricerca, effettuata nel 1984 dal Center for
Business Ethics, ha mostrato che 208 (il 75 per cento) delle 279
organizzazioni che hanno risposto ad un questionario inviato alle
1.000 imprese statunitensi classificate da “Fortune” possiedono un
codice etico inteso come uno strumento formale idoneo a esplicitare le
aspettative che l’azienda ha sul comportamento etico di tutti i
dipendenti e a definire gli obblighi e le responsabilità morali dell’azienda
verso i propri stakeholders; che tra le aziende rispondenti circa il
35 per cento organizza seminari quali iniziative per la formazione in
etica dei dipendenti; che circa il 35 per cento prevede un ethical
audit che analizza le attività aziendali in alcune aree
particolarmente delicate dal punto di vista etico; che circa il 14 per
cento possiede un comitato etico e che il 3 per cento possiede un
ethics officer, la nuova funzione aziendale preposta alla
progettazione e gestione dei programmi di etica.
L’indagine condotta nel 1990 dal Center for Business Ethics presso
le 1.000 imprese di “Fortune”, ha mostrato come, tra i modi in cui
i valori etici possono essere integrati in azienda, i codici etici
ottengano il 93 per cento (212 aziende delle 229 che hanno risposto al
questionario); la formazione in etica ottenga il 52 per cento e l’istituzione
di comitati etici il 33 per cento. Inoltre, il 43 per cento delle
aziende rispondenti utilizza i seminari per comunicare le politiche
aziendali in materia di etica ai dipendenti e il 30 per cento attua un
ethical audit. Questa tendenza è stata confermata anche da indagini
più recenti.
Come hanno rilevato diversi studi empirici condotti presso manager e
imprenditori statunitensi, alla base dell’adozione dei codici etici
nelle aziende vi sarebbe una serie ben definita di ragioni. Secondo
uno studio promosso nel 1980 dall’Ethics Resource Center, l’introduzione
di un codice etico in azienda serve a: fornire linee guida per il
comportamento dei dipendenti; migliorare l’immagine e la reputazione
aziendale presso il pubblico; aumentare il grado di conformità alla
legge tra i dipendenti; affermare elevati standard professionali entro
l’organizzazione.
Un rapporto del 1988 preparato dalla Business Roundtable di New York
ha permesso di precisare inoltre che al fondo della visione secondo
cui adottando un codice etico “l’impresa desidera e si aspetta che
il proprio personale riconosca la dimensione etica delle politiche e
attività aziendali” vi sarebbero due convinzioni ormai ampiamente
diffuse nella comunità degli affari in azienda: che la volontà umana
sia fragile e necessiti di un sostegno istituzionale; che una cultura
aziendale e un’etica solide siano le chiavi strategiche per la
sopravvivenza e la redditività aziendale in un’era altamente
competitiva.
L’idea secondo cui istituzionalizzare l’etica è nell’interesse
dell’azienda era condivisa anche dai rispondenti ad una indagine
condotta nel 1987 da Touche Ross tra personalità del mondo degli
affari, della politica e dell’università. L’indagine infatti
metteva in luce la convinzione posseduta dal 63 per cento dei
rispondenti che elevati standard etici rafforzino la posizione
competitiva delle aziende.
L’aumento consistente negli anni Novanta della diffusione dei codici
etici di impresa può essere in parte spiegato tenendo presente che
con l’entrata in vigore nel 1991 delle U.S. Sentencing Commission’s
Guidelines - che prevedono a carico delle aziende condannate per reati
federali un inasprimento delle multe fino a 290 milioni di dollari,
nel caso in cui queste abbiano tentato di occultare una violazione di
legge o ostacolato l’investigazione, o la possibilità di una loro
riduzione rilevante, se l’azienda ha rivelato di sua iniziativa la
violazione, ha cooperato nella fase di investigazione e ha attuato,
prima di commettere l’illecito, un efficace programma per prevenire
e scoprire violazioni di legge, cioè un rigoroso programma di
conformità alle leggi - è cresciuto il numero delle imprese
statunitensi che vedono nella adozione di codici etici un valido
investimento per il futuro.
Tuttavia - come ha notato a questo riguardo Paine - poiché “l’etica
aziendale richiede qualcosa di più che semplicemente evitare pratiche
illegali”, l’etica del management richiede un approccio diverso
“fondato sull’idea di integrità morale”, che combini “l’attenzione
per la legge con un’enfasi sulla responsabilità morale manageriale”.
Una strategia basata sul principio di integrità morale permetterebbe
infatti di stabilire uno standard di condotta più solido. Mentre il
principio di conformità alle leggi si basa sulla necessità di
evitare sanzioni legali, il principio di integrità si fonda sull’idea
di autogoverno e di responsabilità del management in conformità a
una serie di principi e valori etici guida.
Secondo questo approccio l’etica “è una questione che investe la
sfera organizzativa tanto quanto quella individuale”.
Le tesi di Paine hanno il merito di non trascurare la dinamica
essenziale tra individui e organizzazioni: come le organizzazioni sono
costituite di individui, gli individui dipendono dalle organizzazioni.
Le aziende, come altre organizzazioni sociali, possono infatti
influenzare le decisioni e le azioni individuali. Pertanto, le aziende
dovrebbero verificare al loro interno se le strutture e relazioni, che
vincolano e muovono i dipendenti, siano compatibili con la condotta
etica. E se non lo sono, allora certi passi dovrebbero essere compiuti
per modificarle. Pertanto la creazione di una cultura aziendale
ispirata all’etica richiede un piano di lavoro, un programma.
Aziende come Ibm, 3M, General Electric, Boeing, Champion,
International Chemical Bank, General Mills, GTE, Hewlett-Packard,
Johnson&Jonhson, Xerox, General Dynamics, McDonnell Douglas, Texas
Instruments, sono solo alcune delle numerose società che hanno
elaborato programmi formali di etica e adottato codici etici 62. Tra
questi, esemplari sono i programmi elaborati dalla McDonnell Douglas e
dalla Texas Instruments. A quest’ultima azienda, in particolare,
sono stati recentemente attribuiti numerosi riconoscimenti pubblici.
La redazione di un codice etico è un importante primo passo verso la
costruzione di un’azienda etica, ma occorre tenere presente che è
semplicemente questo - un primo passo. Per essere efficace, infatti,
il codice etico deve essere sostenuto da altri tipi di strutture
aziendali in grado di assicurarne la comunicazione attraverso l’organizzazione,
l’imposizione e revisione. In sintesi, le linee guida per redigere
(o ridisegnare) e implementare in azienda un codice etico sono le
seguenti: cercare di ottenere il sostegno in vista della sua
introduzione da tutti i livelli dell’organizzazione, in particolare
dal vertice aziendale; far sì che ogni dipendente - anche ai livelli
più bassi - partecipi allo sforzo di elaborazione del documento;
scrivere il testo del codice etico nel modo più semplice e chiaro
possibile, cercando di fornire le ragioni per le disposizioni
contenute in esso; ideare un efficace programma per comunicare il
codice alla generalità dei dipendenti e per formare questi al suo
utilizzo; una volta adottato il codice, assistere i dipendenti nella
interpretazione delle norme in esso contenute; specificare il ruolo
del management nell’implementazione del codice; ideare concrete
azioni per far valere il codice in azienda; selezionare persone
competenti per la gestione del codice etico; consentire revisioni del
codice al fine di prevedere nuove situazioni e problemi.
Un’altra parte essenziale del piano per la costruzione di una
cultura aziendale etica consiste nella nomina di un ethics officer e
nella costituzione di un comitato etico.
Una delle funzioni primarie dell’ethics officer è di incoraggiare
la presa di decisioni ispirate eticamente in ogni parte dell’organizzazione
e di promuovere programmi per accrescere la consapevolezza etica e l’importanza
dell’etica in tutti i dipendenti. Perché gli sforzi dell’ethics
officer non siano vani occorre: che la sua azione goda di un
inequivocabile e visibile sostegno da parte del vertice dell’azienda;
che la sua posizione sia centrale nell’organizzazione tanto da avere
facoltà di accesso ad ogni livello aziendale, da quello più alto a
quello più basso, tenendo presente che ciò che può provocare una
perdita di efficacia nella sua azione è una identificazione con l’alta
direzione; che esso abbia anche diretto accesso al consiglio di
amministrazione, dal momento che alcuni problemi più difficili e
delicati si verificano quando è in discussione proprio la condotta
etica dell’alta direzione aziendale.
Il disegno ottimale del piano prevede la presenza sia di un ethics
officer che di un comitato etico, in quanto un ethics officer ha
bisogno di un comitato etico da cui trarre idee, ricevere sostegno
nella comunicazione in azienda del programma di etica e assistenza nel
processo decisionale e nella revisione delle politiche in materia di
etica; e a sua volta un comitato etico ha bisogno di un ethics officer
per svolgere le operazioni quotidiane legate alla realizzazione del
programma di etica aziendale, per svolgere le funzioni di portavoce e
per avere accesso ai più alti livelli del management.
Perché un comitato etico sia efficace ed efficiente, capace cioè di
disegnare un programma di etica rilevante per l’intera azienda e di
rendere ogni dipendente partecipe alla costruzione e affermazione di
una cultura aziendale etica è indispensabile che esso sia
rappresentativo di tutti i livelli dell’organizzazione.
Il piano dovrebbe prevedere anche una diretta reporting line dall’ethics
officer e dal comitato etico al consiglio di amministrazione, per
esempio attraverso un membro del consiglio - un consigliere esterno -
con specifiche responsabilità di controllo delle attività etiche e
del clima etico aziendale.
Un elemento decisivo nel piano è l’attività di formazione in etica
per i dipendenti dell’azienda. In esso, la funzione importante per
il successo di un programma di formazione in etica è svolta dagli
incontri seminariali: attraverso tali incontri, grazie al fatto che i
dipendenti possono dialogare l’uno con l’altro sull’importanza
dell’etica degli affari e sulle questioni etiche che sorgono nelle
attività quotidiane in azienda, si cerca di: contribuire ad aumentare
la consapevolezza etica dei dipendenti; aiutare i dipendenti a
riconoscere le questioni etiche collegate direttamente all’attività
aziendale; fornire ai partecipanti strumenti e criteri per l’analisi
razionale etica e per la presa di decisioni etiche entro l’azienda;
fornire loro assistenza su come tradurre il ragionamento etico in
concreta azione etica nel contesto aziendale; esaminare le strutture,
strategie, politiche e scopi che modellano l’ambiente etico e
guidano le attività etiche aziendali; sottolineare l’importanza
della leadership etica a tutti i livelli dell’organizzazione.
Un programma di formazione in etica per essere coronato da successo
dovrebbe inoltre essere rivolto a tutti i dipendenti e non solo al
management; e vedere tra i partecipanti, in una stessa classe,
rappresentanti di differenti livelli aziendali, dall’operaio al
dirigente al consigliere di amministrazione, al fine di favorire una
migliore comunicazione e comprensione tra tutti i membri dell’organizzazione
relativamente ai problemi e agli impegni etici della azienda.
Attraverso la realizzazione di programmi di formazione in etica così
impostati dovrebbe essere possibile raggiungere l’obiettivo della
costruzione di una cultura etica d’impresa più forte e integrata.
Un piano adeguato infine dovrebbe includere anche l’impiego di un
“ethical audit”, vale a dire un processo per analizzare e misurare
le attività aziendali in alcune aree particolarmente delicate dal
punto di vista etico. In vista di ciò, alcune procedure dovrebbero
essere ideate per determinare le aree di tensione etica e per fornire
indicatori del grado di successo degli sforzi fatti per introdurre l’etica
nell’organizzazione. Affinché l’ethical audit costituisca una
parte integrante dei programmi di etica gestiti dall’ethics officer
occorre che i risultati derivati da tali verifiche vengano diffusi
ampiamente all’interno dell’azienda - non limitatamente al
management - e all’opinione pubblica intera.
In questo modo le aziende, assumendo che si stiano comportando
responsabilmente, potrebbero migliorare la loro immagine etica.
La consulenza. Qualche cenno merita infine anche il ruolo svolto dall’esperto
in etica degli affari nel Nord America, alla luce degli sviluppi della
disciplina sopra descritti. A seguito della grande importanza assunta
dai corsi di etica degli affari, il maggior numero di esperti svolge
attività di docenza a livello sia undergraduate sia graduate. In anni
recenti, inoltre, è aumentato considerevolmente anche il numero degli
esperti che svolgono attività di consulenza per società, singoli
manager, funzionari pubblici e organizzazioni diverse, tanto è vero
che la Society for Business Ethics ha sentito la necessità di
costituire un gruppo di lavoro con il compito di fissare gli standard
professionali del consulente in etica.
Compiti per il futuro. L’indagine fin qui condotta ha mostrato come
negli Stati Uniti, grazie al lavoro svolto negli ultimi venticinque
anni, l’idea della legittimità dell’etica degli affari come
disciplina autonoma sia ampiamente accolta. Tuttavia, nel concludere
questa prima parte, vorrei indicare sinteticamente alcuni compiti che
attendono i ricercatori di etica degli affari per conseguire, dopo una
fase contrassegnata da una rapida crescita, il consolidamento del
nuovo campo di studio e insegnamento.
La prima osservazione è che in futuro è indispensabile conseguire
una reale “cooperazione” tra filosofi ed esperti di business
coinvolti nell’impresa dell’etica degli affari. Occorrerà cioè
procedere ad alleanze strategiche e non a “matrimoni di convenienza”.
Questa cooperazione diventerà probabilmente sempre più essenziale
mano a mano che i ricercatori si sposteranno dalle riflessioni
normative e teoriche a studi empirici sull’etica del management.
La seconda osservazione è che, nonostante i successi conseguiti in
ambito accademico, si debbano vincere alcune “resistenze” nei
confronti della nuova disciplina esistenti ancora nelle business
schools statunitensi. Tale situazione può essere superata solo
attraverso il coinvolgimento reale dei docenti di business scarsamente
motivati a prendere sul serio l’etica in attività interdisciplinari
di ricerca e di formazione, instaurando con essi un dialogo
costruttivo.
L’ultima osservazione è che compito degli studiosi di etica degli
affari dovrebbe essere quello di proporre costantemente nuove e più
ampie teorie. Perché la disciplina si sviluppi ulteriormente occorre
infatti che il lavoro di ricerca teorica si intensifichi in vista
della individuazione di nuovi modi di descrivere la complessità della
realtà, realtà in cui opereranno i manager di domani.
Solo prendendo sul serio tali compiti sarà possibile garantire all’etica
degli affari come disciplina un periodo indefinitamente lungo di
crescita.
L’Europa occidentale
Anche in Europa il fenomeno dell’etica degli affari, pur con un
certo ritardo rispetto agli Stati Uniti, è andato rapidamente
affermandosi a partire dal 1983, anno in cui è stato creato, presso l’Università
di San Gallo in Svizzera, il primo incarico europeo di ricerca. Nella
nostra indagine ci limiteremo ad osservare come si è sviluppato tale
fenomeno fino ad oggi in alcuni paesi dell’Europa occidentale,
rinviando la trattazione dell’Italia al paragrafo successivo.
I centri di ricerca. Per quanto riguarda il settore della ricerca è
utile ricordare la nascita di alcuni centri specializzati -
generalmente collegati con istituzioni universitarie - come il Centrum
voor Economie en Ethick sorto nel 1997 presso la Facoltà di economia
dell’Università Cattolica di Lovanio in Belgio e diretto da E.
Schokkaert; l’Institute of Business Ethics, fondato a Londra nel
1986 per iniziativa della Christian Association of Business, e diretto
da Stanley Kiaer; il Business Ethics Research Centre, sorto nel 1987
presso il King’s College dell’Università di Londra e diretto da
J. Mahoney; l’Institut für Wirtschaftsethik, fondato nel 1989
presso l’Università di San Gallo in Svizzera e diretto da P. Ulrich;
il Betriebwirtschaftliches Institut, operante nella Università
Friedrich Alex di Nürnberg in Germania e diretto da H. Steinman e l’European
Institute for Business Ethics (Eibe), fondato nel 1994, attraverso un
accordo di collaborazione tra l’European Business Ethics Network e l’Università
di Nijenrode a Breukelen (Olanda), e diretto da H. Van Luijk.
Le riviste. Per quanto riguarda la presenza di riviste specializzate
nel panorama europeo, occorre segnalare la pubblicazione, dal 1992, di
“Business Ethics: A European Review”, un quadrimestrale diretto da
J. Mahoney ed edito da Blackwell, Oxford, che mira, attraverso un
approccio pragmatico all’analisi delle questioni etiche che
coinvolgono le imprese europee, a migliorare la qualità del processo
decisionale manageriale; e, dal 1995, di “Revue Ethique des Affaires”,
un quadrimestrale edito da Eska, Parigi, trasformatosi recentemente in
una pubblicazione regolare in forma di libro.
La letteratura. Particolarmente intensa è stata la produzione
scientifica negli anni Settanta e Ottanta; si possono ricordare a
questo proposito gli studi di Melrose-Woodman e Kverndal e di Harron e
Humble sulla responsabilità sociale delle imprese britanniche; di
Steinman e Oppenrieder e di Steinman e Loehr sull’etica d’impresa;
di Enderle su etica ed economia e sulla leadership etica del manager;
di Van Luijk sulla moralità dell’uomo economico e del profitto; di
Webley e di Schlegelmilch e Houston sui codici etici delle imprese
britanniche, e di Mahoney sull’insegnamento dell’etica degli
affari negli Stati Uniti e in Europa.
Nell’ultimo decennio le pubblicazioni nel settore dell’etica degli
affari sono notevolmente aumentate di numero e migliorate rispetto
alla qualità dei contributi - basti pensare ad esempio ai lavori
teorici di K. Homan e F. Blome-Drees e di H. Steinmann e A. Löhr sul
fondamento dell’etica degli affari, e al recente volume di P. Ulrich
sull’etica degli affari “integrativa” - e questo in tutte le
lingue europee.
I temi che negli ultimi anni hanno destato maggiormente l’interesse
degli esperti europei sono desumibili, per esempio, dalla
considerazione dell’insieme degli argomenti trattati nei focus che
“Business Ethics: A European Review” dedica periodicamente all’analisi
di questioni etiche particolarmente rilevanti per il mondo del
business contemporaneo. Da questo esame emerge che negli anni Novanta
i temi più ricorrenti sono stati quelli del ruolo sociale dell’impresa
e del rapporto tra etica e accountancy; inoltre, che le questioni dell’etica
nel marketing e del ruolo delle donne nelle imprese - presenti anche
nelle riviste statunitensi - trovano qui una trattazione approfondita
già nei primi anni Novanta; e che altri temi come il problema della
lealtà aziendale, del rischio accettabile dal punto di vista dell’investitore
e delle cure mediche come business, sono invece affrontati per la
prima volta rispetto al panorama editoriale internazionale.
L’insegnamento universitario. Sul versante dell’insegnamento,
dalla metà degli anni Ottanta un numero sempre maggiore di
università, di business schools e di istituti professionali ha
avviato - pur con ritmi diversi nei vari paesi europei - corsi di
etica degli affari.
La prima cattedra di etica degli affari in Europa è stata infatti
istituita nel 1984 in Olanda presso la School of Business dell’Università
di Nijenrode a Breukelen e ne è titolare H. Van Luijk; attualmente
sono oltre 25 le cattedre istituite in vari paesi d’Europa, anche se
occorre tenere presente che solo la metà di queste ha un reale “peso”
accademico per la ragione che alcune scuole in cui esse sono state
istituite non possono vantare uno status universitario pieno.
La difficoltà principale che incontra l’istituzionalizzazione dell’etica
degli affari a livello accademico è probabilmente connessa alla
scarsa diffusione nei paesi europei del sistema delle donazioni
private che, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, hanno
consentito alle business schools del Nord America di essere
innovative.
Nei primi anni Novanta sono stati istituiti gli insegnamenti di
Business Ethics and European Civilization, affidato a G. Marion,
presso la Groupe ESC di Lione, di Corporate Responsibility, affidato a
B. Harvey, presso la Manchester Business School e di Business Ethics
and Social Responsibility, affidato a Mahoney, presso la London
Business School. Inoltre, recentemente è stata avanzata la proposta
di introdurre un corso specialistico di Business Ethics nel Master
organizzato dal Cems (Community of European Management Schools), un
consorzio di cui fanno parte sedici università europee, fra cui la
Bocconi di Milano, e cinquanta imprese europee, tra cui l’italiana
Comit, allo scopo di rispondere al crescente bisogno di manager
europei.
Per quanto riguarda i metodi didattici usati nei corsi di etica
avviati in università e business schools europee, sono simili
rispetto a quelli impiegati nei corsi statunitensi: lezioni,
discussioni in classe, presentazione di casi costituiscono i
principali metodi impiegati per avvicinare gli studenti alla materia.
Si rileva a questo riguardo un’enfasi particolare da parte dei
docenti europei sulla necessità di disporre quanto prima per la
didattica di studi di casi tratti dal contesto europeo da sostituire
ai casi americani o per integrarli.
Anche per quanto riguarda i contenuti dei corsi non si registrano
differenze significative: ciò che occorre notare è che l’introduzione
agli approcci morali tradizionali, utilitarismo da un lato e kantismo
dall’altro, si accompagna a volte a una particolare attenzione alle
caratteristiche proprie dell’economia di mercato o ai problemi
connessi al declino del welfare state e alle implicazioni che ciò
comporta per il ruolo dell’impresa.
Relativamente agli scopi dell’insegnamento dell’etica degli
affari, come negli Stati Uniti, anche in Europa con i corsi di etica
si intende principalmente contribuire all’aumento della
consapevolezza etica degli studenti e arricchire la loro dotazione di
strumenti analitici, migliorando in questo modo la qualità morale del
processo decisionale nelle imprese.
In questa sede può essere utile guardare all’esperienza didattica
consolidata di H. Van Luijk per precisare il contributo specificamente
“europeo” allo sviluppo dell’insegnamento dell’etica degli
affari. Attraverso un corso rivolto a studenti delle business schools
o a dirigenti che partecipano a programmi di sviluppo manageriale, ad
avviso di Van Luijk, non si deve tendere ad insegnare né una
specifica teoria etica né un dato comportamento etico, ma a
sviluppare una “competenza” etica: competenza nella determinazione
degli elementi normativi presenti in una data situazione; nell’analisi
di tali elementi; nella elaborazione di un proprio punto di vista
etico da difendere in una discussione con altri. Per ottenere ciò Van
Luijk propone l’adozione del “modello dei sei stadi”. Tale
modello presenta tre livelli, ognuno dei quali ha due stadi, che
devono essere visti come tappe successive, comportanti difficoltà
diverse, nello sviluppo della competenza etica.
Limitatamente alle caratteristiche generali del modello possiamo dire
che al primo livello (analitico) gli studenti sono stimolati 1) a
determinare gli elementi normativi di un dilemma etico concreto che
altri o loro stessi hanno proposto attingendo all’esperienza
personale o semplicemente alla lettura dei quotidiani e 2) ad
analizzare tali elementi con l’ausilio di strumenti teorici,
concettuali e metodologici; al secondo livello (discussione) ogni
studente è incoraggiato a formulare il proprio punto di vista
normativo sulla situazione in esame e a difenderlo esclusivamente
mediante “buone ragioni” in una discussione pubblica con altri (la
classe, la comunità di appartenenza, le diverse culture); al terzo e
ultimo livello (integrativo) gli studenti sono invitati ad
approfondire la conoscenza del contesto socio-politico da cui è
emerso il dilemma in esame e a valutare la forza del punto di vista
normativo difeso nella fase precedente alla luce di tale conoscenza.
Questa è la parte più difficile da affrontare perché richiede allo
studente di calarsi nel contesto sociale e politico, mediante l’analisi
strutturale dei fatti e dei concetti fondamentali. In conclusione,
secondo Van Luijk, lo sviluppo della competenza etica, nelle modalità
descritte, è l’unica via per conseguire l’“integrità
manageriale”, obiettivo finale del percorso formativo.
L’impiego di tale modello didattico, a giudizio di Van Luijk,
dovrebbe ovviare a ciò che, guardando agli sviluppi recenti nell’insegnamento
dell’etica degli affari negli Stati Uniti e in Europa, costituisce
un aspetto critico: a suo avviso, infatti, la teoria etica, pur
essendo disponibile, non sarebbe usata in aula in maniera adeguata.
Gli studenti americani nei corsi di etica di solito imparano ad
applicare ad ogni singolo argomento due o tre approcci etici
fondamentali e “questo è tutto”. Impiegando le teorie etiche
normative presentate in un qualsiasi libro di testo, gli studenti sono
sicuramente in grado di distinguere alcune possibili implicazioni
etiche del caso esaminato, ma, secondo Van Luijk, “non c’è alcuna
garanzia che essi siano in grado di cogliere la sua specificità”.
L’utilizzo adeguato della teoria etica richiede, secondo Van Luijk,
che si assumano, al terzo livello del suo modello, due ulteriori
prospettive tra loro distinte. La prima è la prospettiva teorica
delle “questioni fondamentali”, del tipo: “perché essere morali
sul mercato?”; la seconda è la prospettiva strutturale che mira a
rendere giustizia alla specificità del caso in discussione: una cosa,
infatti, è individuare in astratto le condizioni in cui, per esempio,
l’attività di “whistleblowing” in azienda è moralmente
giustificata, un’altra è determinare quando tale attività deve
essere considerata un dovere morale in un sistema - diffuso nell’Europa
occidentale - in cui il diritto non protegge il “delatore” dalla
possibilità di licenziamento. Pertanto, per rendere giustizia al
contesto strutturale che determina la specificità del caso occorre
che siano valutate le sue dimensioni organizzative, economiche,
politiche e storiche.
Tale impostazione - secondo Van Luijk - ha delle implicazioni anche
per quanto riguarda la tesi che vede l’etica come una dimensione di
tutte le discipline fondamentali dei programmi delle business schools
in quanto, una volta che si è individuato un “elemento etico” in
una situazione, per esempio, di marketing, adottando la prospettiva
strutturale l’esperto di etica perde il suo ruolo privilegiato di
unico competente nella trattazione delle questioni etiche e diventa
soltanto uno dei contributori ad un approccio integrato al management.
Lo sforzo per sviluppare un approccio europeo all’etica degli affari
si è concretizzato nella pubblicazione di un manuale, a cura di B.
Harvey, dal titolo Business Ethics. A European Approach (Prentice-Hall,
New York 1994), e di una raccolta di casi, a cura di B. Harvey, H. Van
Luijk e H. Steinmann, dal titolo European Casebook on Business Ethics
(Prentice-Hall, New York 1994). Entrambi questi volumi soddisfano un
bisogno reale ben presente in passato. Scopo della prima opera, il cui
impianto è tradizionale, è quello di fornire, attraverso un insieme
di saggi predisposti da studiosi provenienti da differenti paesi
europei, un testo esauriente che si concentri soprattutto sulle
questioni etiche urgenti che emergono nel contesto europeo.
Scopo della seconda opera è quello di offrire agli studenti non
semplicemente la narrazione di una serie di fatti ma una analisi
dettagliata di casi. Attraverso una selezione, necessariamente non
esaustiva, di dieci casi tratti dall’esperienza europea i curatori
aspirano a fornire una valida introduzione all’etica degli affari in
Europa.
Ciò che caratterizza questa raccolta di casi - come chiarisce Van
Luijk nella introduzione al volume - rispetto alle numerose altre
attualmente disponibili nel panorama editoriale internazionale è l’inclusione
nella presentazione dei casi - oltre all’elemento narrativo
(spiegare le circostanze del caso) - di un’analisi dettagliata
(indicare che tipo di problema etico il caso rappresenta) e di un
elemento normativo (una valutazione etica argomentata del caso fornita
dall’autore). Per i curatori dell’opera la presenza degli elementi
analitico e normativo è infatti indice di uno studio di caso di
qualità.
Questo approccio metodologico - fornendo una assai ampia assistenza al
lettore, tanto che il volume sembra più adatto a uomini d’impresa e
a studenti universitari che a laureati impegnati in un master - sembra
però ridurre quello che solitamente è considerato il vantaggio
principale derivante dall’uso dei casi a scopo didattico. Come ha
spiegato a questo proposito C. Gragg: “Nel processo di
apprendimento, la cooperazione dinamica da parte del principiante è
necessaria. […] In verità, è essenziale che venga avviata da parte
dello studente una riflessione indipendente e costruttiva”.
Come riconosce a questo proposito Van Luijk, “tutti e tre questi
elementi non sono sempre presenti nella presentazione di un caso.
Molte raccolte di casi infatti si limitano a dare spazio all’elemento
narrativo, lasciando il resto all’iniziativa del lettore”.
Tuttavia, egli difende la tesi secondo cui “un’analisi etica di un
caso rimane incompleta e perciò solo parzialmente efficace se non
viene prestata la dovuta attenzione a tutti e tre gli elementi”,
richiamandosi al cosiddetto “argomento della difficoltà al cubo”
nell’operare con i casi; secondo questo argomento, una cosa è
affermare: “Questa è l’esposizione dei fatti, questo è il
problema, questi sono i possibili argomenti, questa è la posizione
finale assunta dal protagonista - Sei d’accordo?”; e un’altra
cosa è affermare: “Questa è l’esposizione dei fatti, questo è
il problema, quale è la tua posizione e quali sono i tuoi argomenti?”;
ed è una cosa diversa, ancora più difficile, affermare: “Questa è
l’esposizione dei fatti, che cosa tu ne pensi è il problema, quale
è la tua posizione morale e perché ritieni che sia convincente?”.
Per Van Luijk, pertanto, “raccontare semplicemente i fatti e
lasciare ai lettori il compito di reagire in un modo moralmente
giustificabile non necessariamente rende ad essi più facile il
compito”. Per cui in un’analisi standard di un caso tutti e tre
gli elementi devono essere presentati in modo ordinato, procedendo da
una narrazione accessibile, attraverso sforzi analitici, a una
preferenza morale non ambigua.
Per articolare un dato caso Van Luijk propone l’impiego - in primo
luogo nell’ambito di corsi di etica - del “modello dei sette passi”.
Tale modello, in sintesi, dopo che è stata fornita una descrizione
del caso, prevede la formulazione delle seguenti domande: 1) Qual è
il problema morale in gioco? 2) Quali persone o gruppi sono coinvolti?
3) Quali persone o enti sono moralmente responsabili? 4) Di quale
informazione abbiamo bisogno per giungere ad una decisione fondata? 5)
Quale tipo di argomenti possono essere addotti per chiarire il caso, e
quali contro-argomenti ci si può attendere? 6) Qual è la conclusione
suggerita da un ponderato bilanciamento degli argomenti? 7) Che cosa
penso a questo punto? Sono preparato a sostenere in pubblico la mia
posizione? La mia preferenza morale sarà simile in tutti i casi
simili? Sono disposto a difendere la decisione proposta come una
personale ferma convinzione?
Secondo Van Luijk, in conclusione, “ciò che conta è che più una
presentazione di un caso mostra consapevolezza dei requisiti
narrativo, analitico e normativo, più essa contribuisce alla nostra
comprensione di ciò che è moralmente in gioco, non solo in uno
specifico caso, ma anche nei dilemmi morali simili”.
I network. Accanto ad una disciplina accademica emergente troviamo in
Europa anche un movimento sociale nascente: in tutto il continente,
infatti, stanno sorgendo iniziative (convegni, dibattiti,
pubblicazioni eccetera) relative alle principali questioni di etica
degli affari, promosse non solo da appartenenti al mondo degli affari
o a quello accademico ma anche da rappresentanti di organizzazioni
sociali, chiese, enti senza scopo di lucro, gruppi politici e di
interesse, che testimoniano la diffusione di un autentico interesse in
questo campo.
Allo scopo di coordinare e sfruttare al massimo le potenzialità
insite in queste sempre più numerose iniziative si è proposta sul
piano organizzativo, nella seconda metà degli anni Ottanta, la
costituzione di network. Un risultato importante in questa direzione
è stato conseguito attraverso la costituzione nel 1987 dell’European
Business Ethics Network (Eben), un’associazione internazionale non
profit di accademici, uomini d’affari e professionisti con sede a
Breukelen in Olanda, attualmente presieduta da Van Luijk. Nel 1998 l’Eben
poteva contare su 750 soci. Lo statuto precisa che scopo dell’Eben
è “sostenere e migliorare la qualità etica del processo
decisionale aziendale a tutti i livelli”.
Il network europeo organizza in città europee, allo scopo di fare
periodicamente il punto sulle principali questioni etiche al centro
del dibattito europeo, una conferenza annuale a cui partecipano
numerosi studiosi e uomini d’affari provenienti da tutto il mondo.
Di tali conferenze pubblica generalmente gli atti.
Due iniziative significative dell’Eben attuate nell’ultimo
decennio sono state la promozione di network nazionali e la
costituzione del già ricordato Eibe. Per quanto riguarda i network
nazionali, la sfida che essi hanno di fronte è quella di trovare un
equilibrio tra iniziative su base nazionale (con linguaggio e cultura
comuni) da un lato, e comunicazioni regolari a livello transnazionale
dall’altro, in vista di un reciproco scambio di informazioni e, dove
possibile, di una reciproca cooperazione tra i vari paesi.
L’etica in azienda. A fronte delle numerose iniziative di studio
sopra ricordate si registra tuttavia una minore inclinazione delle
imprese europee rispetto a quelle statunitensi ad adottare codici
etici. Secondo un’indagine sulla diffusione dei codici etici
condotta nel 1988 presso le 600 più importanti società britanniche,
francesi e tedesche, delle 189 organizzazioni che hanno risposto al
questionario inviato loro 78 (il 41 per cento) hanno codici etici; il
35 per cento di queste ultime però fa capo a una casa madre
nordamericana. Considerando solo le imprese nazionali, le
organizzazioni con codici etici sono 51 (il 33 per cento). In Francia
la diffusione dei codici etici riguarda il 18 per cento delle imprese;
in Germania il 47 per cento e nel Regno Unito il 31 per cento. L’indagine
pertanto concludeva che “agli attuali ritmi di diffusione dei
codici, occorreranno altri otto anni prima che la percentuale delle
imprese europee dotate di codici etici possa eguagliare il livello del
75 per cento raggiunto dagli Stati Uniti già a metà degli anni
Ottanta”.
La stessa indagine ha consentito anche di rilevare differenze
significative, rispetto al contenuto, tra i codici etici aziendali
delle imprese europee - per esempio British Telecom, Bmw, Hoechst e
Bouygues - e quelli delle imprese statunitensi: tutti i codici etici
adottati dalle imprese europee censite, a differenza di poco più
della metà di quelli delle imprese statunitensi, disciplinano la
condotta del personale; di contro, quelli delle imprese statunitensi
disciplinano per l’80 per cento i rapporti con la clientela, mentre
in Europa questa percentuale scende al 67 per cento. Infine, quasi
tutti i codici di impresa statunitensi regolamentano i rapporti con il
governo e l’86 per cento di essi anche i rapporti con i fornitori,
mentre gli stessi argomenti sono trattati solo nel 20 per cento dei
codici etici di imprese europee.
La diffusione a livello internazionale dei codici etici di impresa non
deve tuttavia portare a sottovalutare le problematiche etiche connesse
allo sviluppo di un mercato globale. L’era della globalizzazione in
cui ci troviamo, infatti, pone una serie di sfide a qualsiasi
tentativo di definire standard etici globali per le multinazionali: le
imprese dotate di codici etici hanno le carte in regola per affrontare
il mercato globale? I codici etici d’impresa, le cui norme e
procedure sono state pensate per guidare il comportamento aziendale
all’interno di determinati confini nazionali, possono essere - senza
modifiche - impiegati dalle multinazionali che operano all’estero?
Oppure devono essere modificati per tenere conto delle caratteristiche
proprie di altre culture? La nascita di un mercato globale pone quindi
in primo piano la necessità di promulgare codici etici
transnazionali.
L’urgenza di “identificare una serie di valori condivisi a livello
internazionale, di conciliare valori in conflitto e di sviluppare una
prospettiva comune e onorata da tutti per il comportamento economico
accettabile” ha ispirato i Caux Round Table’s Principles for
Business, un documento proposto alle imprese di tutto il mondo nel
1992 dalla Caux Round Table, organizzazione svizzera a cui aderiscono
numerose aziende multinazionali tra cui la giapponese Canon e la
statunitense Chase Manhattan Bank. Business leaders provenienti dal
Giappone, dall’Europa occidentale e dal Nord America hanno lavorato
insieme per quasi dieci anni giungendo a impegnare le loro società
nei confronti di quei principi guidati dagli ideali etici della
dignità umana e del kyosei (“lavorare e vivere insieme per il bene
comune”).
Il documento, imperniato su sette principi generali (sez. 2)
riguardanti la responsabilità dell’impresa verso gli stakeholders,
l’impatto economico e sociale dell’attività imprenditoriale, il
comportamento negli affari, il rispetto delle leggi, il sostegno agli
accordi multilaterali sul commercio, il rispetto per l’ambiente, la
condanna di attività illegali e su regole (sez. 3) concernenti il
trattamento dei vari stakeholders dell’impresa, nasce dallo sforzo
di adattare i principi americani (un impegno verso onestà e rispetto
dei diritti umani) al presupposto comunitario giapponese, in un
contesto europeo.
La consulenza. Va infine segnalato il fatto che l’attività di
consulenza in etica degli affari è in rapido sviluppo, per lo meno in
alcuni dei paesi europei. Essa consiste meno nell’attività di
docenza in corsi di etica - ancora poco diffusi in Europa - e
maggiormente nel supporto fornito a aziende e settori economici in
vista della elaborazione o revisione di codici di condotta e della
progettazione di iniziative di formazione aziendale in etica. L’esperto
in etica degli affari offre la sua consulenza alle aziende anche in
merito alla introduzione di sistemi di ethical audit e alla
ricognizione dei valori etici fondamentali di una organizzazione.
Un confronto. Giunti a questo punto della nostra indagine può essere
utile tentare un confronto tra il modo in cui l’etica degli affari
è concepita nell’Europa occidentale e il modo in cui è concepita
negli Stati Uniti, al fine di far emergere le differenze più
significative tra i due approcci e, soprattutto, di creare le premesse
per la elaborazione di una concezione dell’etica degli affari più
generale e più integrata rispetto a quella corrente negli Stati Uniti
e in Europa.
A questo riguardo, G. Enderle, dell’Università di Notre Dame,
Indiana, Usa, ha proposto come base di confronto una matrice che
include tre modi differenti di intendere l’etica degli affari (come
questione semantica: “parlare di etica degli affari”; come
questione pratica: “agire eticamente negli affari”; e come
questione teorica: “pensare circa l’etica degli affari”) oltre a
tre livelli qualitativamente differenti di azione (individuale [micro],
organizzativo [meso] e sistemico [macro]). Impiegando questa griglia
interpretativa, Enderle ha individuato alcune caratteristiche
peculiari dell’etica degli affari in Europa. Mentre l’etica degli
affari nel Nord America tende ad occuparsi prevalentemente di
questioni etiche che emergono al livello micro (degli individui),
talvolta a livello meso (delle organizzazioni) e raramente a livello
macro (dei sistemi), nell’Europa occidentale - segnatamente nei
paesi di lingua tedesca - l’enfasi è posta soprattutto su questioni
etiche presenti a livello macro, talvolta su questioni micro. Per
quanto riguarda le questioni etiche presenti a livello meso, al
livello delle organizzazioni, gli esperti europei solo di recente
hanno cominciato ad interessarsene.
Gli studiosi europei tendono a dare priorità al livello macro poiché
sostengono che solo le regole a livello macro (le cosiddette regole
del gioco) e la loro implementazione hanno rilevanza dal punto di
vista morale mentre la condotta degli individui e delle organizzazioni
è semplicemente una questione di “efficienza”. Nelle aziende
americane invece è forte la convinzione che manager e aziende possano
e debbano comportarsi eticamente; che non dovrebbero limitarsi a
seguire le regole del gioco economiche e giuridiche dal momento che
queste regole a livello macro non possono determinare completamente i
corsi di azione a livello micro e meso. Chi sostiene questa visione
insiste pertanto sull’idea di responsabilità individuale e
aziendale e sull’idea di autoregolazione attuata attraverso regole
“supplementari” espresse nei codici etici di impresa. Da qui anche
la maggiore diffusione dei codici etici tra le imprese statunitensi
registrata sopra.
Osservazioni illuminanti sono state fatte da Enderle anche in merito
all’orientamento generale dell’approccio alla business ethics, al
paradigma dell’etica degli affari e all’insegnamento dell’etica
degli affari.
Relativamente all’orientamento generale, l’approccio all’etica
degli affari seguito nel Nord America è molto più pratico di quello
seguito in Europa, per lo meno riguardo ai livelli micro e meso. In
Europa infatti si tende a privilegiare maggiormente l’analisi delle
questioni teoriche di tipo fondazionale (per esempio le condizioni di
possibilità dell’etica degli affari, il ruolo delle considerazioni
economiche nella fondazione dell’etica) rispetto alle sfide pratiche
generate dalle questioni normative.
Inoltre, nonostante non esista, al di qua e al di là dell’Atlantico,
un “paradigma” della business ethics accettato dalla comunità
degli esperti e nonostante sia difficile tenere distinto l’approccio
americano da quello europeo, a causa delle numerose interazioni
esistenti tra i due continenti, possono essere comunque segnalate due
differenze di carattere generale tra i due punti di vista: da un lato,
gli studiosi europei di etica degli affari, in modo particolare quelli
di lingua tedesca, sono più interessati al contributo fornito all’etica
degli affari dalle scienze sociali, in particolare dall’economia,
dall’altro gli studiosi nord americani sono sorretti da un più
forte riferimento alla filosofia morale e politica.
Per quanto riguarda l’insegnamento dell’etica degli affari, mentre
nel Nord America, come abbiamo visto sopra, un gran numero di business
schools offrono corsi di etica degli affari e molte cattedre di etica
degli affari sono state istituite, in Europa il processo di
istituzionalizzazione dell’etica degli affari a livello accademico
è ancora piuttosto lento. Tale situazione può essere spiegata, da un
lato, facendo riferimento alla convinzione ormai diffusa e consolidata
nell’America del Nord - mentre non lo è affatto in Europa - che l’etica
possa essere insegnata nei college e nelle università, dall’altro,
considerando il diverso contesto istituzionale presente nel Nord
America e nell’Europa continentale. Il primo contesto è
caratterizzato soprattutto dal sistema delle donazioni private (da
parte prevalentemente di uomini d’affari interessati all’educazione
morale dei futuri business leaders) - poco diffuso in Europa - che ha
consentito l’istituzione della maggior parte delle cattedre di etica
degli affari attualmente esistenti negli Stati Uniti.
Evidenziate le differenze esistenti tra i due approcci, è
indispensabile sottolineare anche alcuni aspetti di complementarità
presenti in essi e trarre qualche conclusione per l’elaborazione di
una concezione dell’etica degli affari più generale e meglio
integrata.
Il confronto svolto sopra ha mostrato che ognuno degli approcci
considerati pone in modo diverso una maggiore enfasi su uno dei tre
livelli dell’azione umana sopra individuati; poiché tutti e tre i
livelli sono interrelati intrinsecamente, trascurare tali legami porta
inevitabilmente a perdere di vista aspetti essenziali dell’etica
dell’ordine economico, dell’etica aziendale e dell’etica
manageriale. Pertanto, sebbene non tutti gli aspetti possano essere
trattati contemporaneamente, essi dovrebbero essere almeno inclusi
nell’approccio generale all’etica degli affari. Ne risulterebbe
così una concezione dell’etica degli affari assai più ricca e più
aderente alla complessità dell’impresa moderna. In questo quadro,
poiché le questioni meso - concernenti l’etica aziendale - sono
state fino ad ora trascurate, anche se in misura diversa, da entrambi
gli approcci, esse dovrebbero diventare oggetto privilegiato degli
sviluppi futuri della disciplina.
Inoltre, con riguardo al paradigma dell’etica degli affari, gli
esperti europei dovrebbero prestare maggiore attenzione alle questioni
normative, mentre quelli nord americani potrebbero trarre vantaggio da
una maggiore integrazione delle scienze sociali, in particolare l’economia,
nel loro approccio dominato dal riferimento alla filosofia.
Tali considerazioni, come ha chiarito Enderle, hanno riflessi
importanti non solo per la ricerca quanto anche per l’insegnamento
della disciplina; infatti, finché non è disponibile una concezione
più integrata dell’etica degli affari è difficile riuscire a
convincere i docenti in varie aree funzionali della rilevanza dell’etica
degli affari per gli studi manageriali e quindi a cooperare con gli
esperti di etica degli affari per l’integrazione dell’etica nel
curriculum. Pertanto, Enderle non esagera quando afferma che la
sopravvivenza e lo sviluppo dell’etica degli affari nelle
università e nelle business schools dipende in larga misura dallo
sviluppo dell’etica degli affari come disciplina.
L’Italia
In sintonia con quanto è avvenuto in Europa, anche in Italia alla
fine degli anni Ottanta si è assistito alla nascita di un dibattito
sull’etica degli affari e quindi di un movimento che ha coinvolto
non solo studiosi ma anche professionisti, manager, imprenditori,
formatori, religiosi e sindacalisti.
I centri di ricerca. Questo movimento è stato preparato da un intenso
lavoro di ricerca e discussione sull’etica pubblica, intesa come
teoria normativa della politica e delle istituzioni fondamentali della
società, e sull’etica applicata avviato, prevalentemente al di
fuori della cerchia delle istituzioni accademiche, già alla fine
degli anni Settanta, per iniziativa di alcuni studiosi ruotanti
attorno ai seminari della Fondazione Feltrinelli di Milano e
proseguito, dalla metà degli anni Ottanta, attraverso le attività
scientifiche del Centro studi Politeia di Milano - lavoro che ha
consentito di colmare il gap esistente soprattutto nei confronti della
cultura anglosassone.
Sorto nel 1983 per iniziativa di un gruppo di studiosi provenienti da
approcci disciplinari differenti ma accomunati da un’identica
proposta di etica laica e razionale, il Centro studi Politeia, nel cui
ambito operano la sezione di etica degli affari e la sezione di
bioetica, attualmente coordinate, rispettivamente, da E. D’Orazio e
M. Mori, ha probabilmente conseguito in Italia i risultati scientifici
più interessanti nel campo dell’etica applicata. A questo
proposito, con riferimento specifico all’etica degli affari, occorre
ricordare la partecipazione di esperti di Politeia alla ricerca Il
manager di fronte ai problemi etici promossa dall’Asfor (1989), la
realizzazione di Uno studio per un codice quadro di etica del servizio
per la Fendac (1991) e della ricerca Etica manageriale e strategie
dell’impresa pubblica per l’Eni (1991).
Queste attività sono state svolte attraverso l’impiego di una
prospettiva contrattualista in etica e di una originale metodologia di
indagine circa le concezioni etiche di manager e imprenditori basata
sulla nozione di “equilibrio riflessivo” tra intuizioni e teorie
etiche; tali attività hanno consentito anche la costituzione di un
gruppo stabile e interdisciplinare di ricerca.
Per quanto riguarda in particolare la metodologia impiegata nelle
indagini empiriche, che si avvale, come strumento di rilevazione dei
dati, dell’intervista semidirettiva in profondità, essa assume che
persone competenti (quali sono sicuramente i dirigenti e
amministratori intervistati) esprimono dei giudizi morali che possono
valere alla stessa stregua delle evidenze empiriche nelle scienze
positive e che pertanto possono confutare o confermare le teorie
normative di riferimento. In particolare, i giudizi trovano riscontro
nella teoria morale solo fino a che quest’ultima non nega qualche
aspetto del singolo giudizio valutato come “irrinunciabile” dal
decisore competente: sarà allora la teoria a dover essere mutata
introducendo nuove ipotesi che consentano di considerare anche gli
aspetti irrinunciabili dei giudizi.
Forniamo, in sintesi, alcuni dei risultati più significativi
derivanti da queste indagini empiriche, le prime realizzate in Italia
nel campo dell’etica degli affari.
La ricerca Asfor ha consentito, tra l’altro, l’identificazione dei
tratti del profilo morale del manager italiano (la ricerca ha infatti
interessato oltre 200 manager di altrettante aziende pubbliche e
private). Il riferimento costante degli opinion leader intervistati a
principi etici quali 1) onestà, lealtà contrattuale e rispetto delle
leggi, 2) rispetto dei diritti individuali e 3) bene dell’azienda,
ha portato i ricercatori a caratterizzare come “etica del mercato”
il profilo prevalente: per il manager italiano, infatti, esistono
delle premesse morali del mercato (cioè il rispetto dei diritti
individuali e della lealtà contrattuale) ed è solo nel rispetto di
questi vincoli che può essere legittimamente perseguito il bene dell’azienda.
Nella ricerca Fendac il criterio etico di riferimento impiegato nella
elaborazione del codice etico quadro per i dirigenti di aziende
commerciali e di servizi è stato trovato nella nozione di un
contratto ideale tra fornitore del servizio e cliente, nel quale le
parti sono completamente libere, razionali e informate, perfettamente
in grado di controllare l’esecuzione e la qualità delle
prestazioni, cioè un contratto nel quale si esprime l’autonomia
delle parti. Nonostante che le situazioni contrattuali reali spesso
non soddisfino le caratteristiche per un contratto ideale, l’idea
qui soggiacente è che il fornitore ha il dovere morale di trattare il
cliente “come se” la situazione fosse definita dal contratto
ideale. Il codice etico, allora, se si assume questa idea, diventa l’ideale
regolativo del fornitore. Sulla base dello Studio di codice quadro la
conferenza permanente sull’etica del servizio, su proposta della
Fendac, ha approvato un documento denominato Principi generali e linee
guida che, individuati i destinatari del documento in tutti i
fornitori di servizi pubblici e privati, enuncia i seguenti principi
generali di etica del servizio:
1) L’utente come soggetto morale; 2) La centralità dell’utente;
3) Pariteticità degli interessi del fornitore e dell’utente.
La ricerca Eni ha consentito, in particolare, l’individuazione,
attraverso un’indagine empirica basata su interviste in profondità
a manager dell’Eni, delle ragioni principali che manager pubblici
potrebbero addurre a favore o contro l’adozione dei codici etici in
azienda. A questo proposito è stata elaborata una tassonomia di
cinque argomenti a favore e di un argomento contro. Per quanto
riguarda gli argomenti del primo tipo, il codice etico sarebbe un
valido strumento per: a) la ricomposizione della cultura aziendale; b)
la formazione aziendale; c) la gestione delle risorse umane; d) la
legittimazione dei ruoli manageriali; e) il miglioramento dell’efficienza
aziendale.
Per alcuni manager il codice etico è uno strumento efficace per
consolidare nelle organizzazioni la cultura d’impresa attraverso la
sua ricomposizione in un unico documento laddove essa non sia più
acquisibile dai componenti l’impresa in quanto, a causa delle
dimensioni di impresa o della diversificazione del business, è
frammentata e non più unitaria, oppure per creare ex novo la “cultura
d’impresa” nelle aziende “giovani” o ad azionariato diffuso.
Secondo altri manager, l’adozione di un codice etico e la
conseguente attività di formazione aziendale in etica permette di “lavorare
sulle leve giovanili” proponendo loro uno specifico schema di valori
a cui si ispira l’impresa.
Da questo punto di vista il codice etico costituisce anche uno
strumento efficace sia per la gestione delle risorse umane affidate al
manager, sia come guida per le decisioni manageriali. In questo caso l’obiettivo
principale dell’adozione di un codice etico è quello di “rendere
omogenei i comportamenti delle imprese”. Un altro argomento addotto
a sostegno dell’introduzione di codici etici in azienda è quello
secondo cui essi forniscono una “legittimazione dei ruoli
manageriali all’interno delle imprese attraverso l’esplicitazione
di meccanismi di valutazione dei risultati” e la
responsabilizzazione degli individui rispetto agli stessi. In questo
senso, un codice etico che descriva esattamente gli ambiti di
competenza e permetta di valutare i risultati delle attività
manageriali diventa uno strumento per il miglioramento effettivo dei
risultati aziendali. All’“efficienza aziendale” fa riferimento
anche l’ultimo argomento addotto: il codice etico riesce a garantire
chiarezza rispetto agli obiettivi che le imprese devono perseguire e
trasparenza rispetto alle modalità di tale perseguimento.
Per quanto riguarda gli argomenti del secondo tipo, essi sono
sintetizzabili in uno solo secondo cui i codici etici non sarebbero in
grado, neppur minimamente, di incidere sui comportamenti dei
dipendenti, a causa della “debolezza” intrinseca delle norme
etiche in essi contenute in quanto prive o di un meccanismo
sanzionatorio o di un sistema di verifica e controllo dei
comportamenti opportunistici che guidano spesso gli individui e le
imprese.
Uno dei frutti più maturi dell’impegno nella ricerca teorica nella
seconda metà degli anni Ottanta è il volume del filosofo Lorenzo
Sacconi - all’epoca responsabile della sezione etica degli affari di
Politeia - dal titolo Etica degli Affari. Mercati, imprese e individui
nella prospettiva di un’etica razionale (Il Saggiatore, Milano
1991), che costituisce la più ampia e approfondita presentazione di
insieme della materia attualmente disponibile in italiano. L’analisi
condotta nel volume consente all’autore di mostrare che attraverso l’adozione
del codice etico le imprese sono in grado di difendere l’autonomia
dell’organizzazione dai vincoli imposti dall’autorità pubblica,
in risposta a eventuali comportamenti scorretti da parte dell’impresa
o dei suoi dipendenti, e di esprimere efficacemente i valori aziendali
fondamentali.
In particolare, funzione propria del codice etico è di legittimare l’autonomia
dell’impresa ai diversi stakeholders interni ed esterni all’organizzazione
annunciando pubblicamente che essa è consapevole dei suoi obblighi di
cittadinanza, che ha sviluppato politiche e pratiche aziendali
coerenti con questi obblighi e che è in grado di attuarle attraverso
appropriate strutture organizzative e sanzioni. In questa prospettiva,
il codice etico costituisce un “contratto sociale” o un “patto”
tra l’impresa e i suoi dipendenti, da un lato, e tra l’organizzazione
e i suoi vari stakeholders esterni, dall’altro.
La crescita di interesse per l’etica degli affari ha portato, negli
anni Novanta, alla nascita di altri due enti di ricerca. Nel 1990 è
sorto l’Istituto per i valori di impresa di Milano, un consorzio
senza fini di lucro tra organizzazioni economiche e università che si
propone di elaborare e diffondere i valori funzionali allo sviluppo
delle imprese. L’Istituto persegue i propri obiettivi promuovendo
ricerche fondate su indagini sul campo, organizzando workshop e
convegni, promuovendo con altri enti un osservatorio sulla
responsabilità sociale delle imprese e pubblicando materiali sul tema
dei valori d’impresa.
In occasione di un seminario organizzato dall’Isvi su “Codici
etici e cultura d’impresa”, Vittorio Coda - docente di Strategia e
politica aziendale presso l’Università Bocconi di Milano - ha
proposto una soluzione originale al problema della possibilità di una
autoregolazione estesa all’intera comunità degli affari. Tra le
obiezioni all’efficacia dei codici etici vi è infatti quella della
mancanza per ogni singola impresa di incentivi ad osservare un codice
etico in un contesto caratterizzato dalla generale inosservanza di
codici etici da parte delle altre aziende concorrenti. L’azienda
che, in questo contesto, decidesse di conformarsi ad un codice etico
rischierebbe infatti di subire uno svantaggio competitivo nei
confronti dei concorrenti. Come ha osservato a questo riguardo l’economista
K. Arrow: “Un codice di comportamento può essere di utilità per
tutte le imprese se tutte le imprese lo rispettano, e, tuttavia, sarà
vantaggioso per qualunque impresa imbrogliare; infatti, più le altre
imprese vi tengono fede, più ciò si verifica”.
La soluzione al problema sollevato da Arrow è stata individuata, più
che nell’adozione di un codice etico di un dato settore, che
rischierebbe di violare la normativa antitrust, in una autoregolazione
via codice etico estesa all’intero mondo degli affari e gestita da
un’istituzione super partes riconosciuta da tutta la comunità
economica con il compito di stabilire norme di comportamento,
individuare le violazioni e irrogare sanzioni. A questo riguardo, già
I. Maitland aveva ipotizzato la creazione di un’associazione
confederale nazionale di rappresentanza degli interessi, introducendo
la quale “un’economia di mercato potrebbe coesistere con un’effettiva
autoregolazione”.
Nella stessa direzione va la proposta, avanzata da Coda, di uno “statuto
dell’impresa” inteso come “l’oggetto di un vero e proprio
patto sociale” da “siglarsi tra le parti sociali a livello
centrale e periferico, di settore e di area territoriale, nell’ambito
pubblico come in quello privato”. Tale statuto, recependo le “norme
di buona gestione nonché i principi di fatto ad esse soggiacenti”,
vale a dire autonomia dell’azienda, responsabilità del management,
economicità, trasparenza eccetera, dovrebbe consentire alle imprese
di coordinare il proprio comportamento.
Nel 1997 è sorto, presso il Libero istituto universitario C. Cattaneo
di Castellanza, il Cele - Centro di ricerca in etica, diritto ed
economia. Diretto da L. Sacconi, il Centro si propone quale luogo di
riflessione interdisciplinare sulla funzione, l’insorgenza e l’attuazione
delle norme morali, giuridiche e sociali che regolano l’economia. L’idea
di base è che le norme etiche assolvono una funzione essenziale nel
promuovere la razionalità e l’efficienza economica e al contempo
siano indispensabili per dare alle istituzioni dell’economia - e in
particolare al sistema delle imprese - la necessaria legittimità
morale e sociale, basata sul riconoscimento della capacità di
produrre efficientemente il benessere e di distribuirlo equamente.
Per quanto riguarda la ricerca teorica, un risultato significativo è
stato conseguito con la pubblicazione nel 1997 del volume di L.
Sacconi dal titolo Economia, Etica, Organizzazione. Il contratto
sociale dell’impresa (Laterza). In questo volume l’autore intende
approfondire il tema della dimensione etica dell’organizzazione
sviluppando l’idea del codice etico come “carta costituzionale”
dell’organizzazione.
In vista di ciò, il contrattualismo per Sacconi sembra essere la
prospettiva teorica che più si presta, da un lato, a interpretare il
codice etico come un elemento della cultura organizzativa e, dall’altro,
a integrare il punto di vista morale con la visione economica dell’organizzazione
intesa come istituzione.
Secondo il contrattualismo, l’organizzazione va intesa come il
frutto di un contratto sociale che lega fra loro i diversi soggetti
economici interessati a compiere in essa investimenti specifici (stakeholders),
cioé lavoratori, azionisti, fornitori, clienti. In questo caso, a
differenza di quanto accade nella prospettiva economica, l’insorgenza
dell’autorità viene giustificata non in termini di efficienza, ma
come esito di un patto razionalmente accettato dai diversi soggetti in
vista di un reciproco vantaggio. Sotto questo profilo, il contratto
sociale rappresenta la pietra di paragone rispetto alla quale le parti
stabiliscono di impegnarsi su un piano di azione congiunto per la
produzione di un surplus cooperativo.
Da un punto di vista etico, saranno considerati moralmente ammissibili
soltanto gli esiti corrispondenti a un’ipotetica situazione di
contrattazione tra individui razionali che negoziano a partire da uno
status quo in cui nessuno di essi sia iniquamente avvantaggiato a
priori (J. Rawls). Perciò nel caso dell’organizzazione, il
contratto sociale impone che i diversi stakeholders vengano remunerati
con una quota equa del surplus, al netto dei rispettivi investimenti
specifici, finalizzata a compensare gli stessi investimenti specifici
e a risarcire la loro rinuncia al controllo dell’organizzazione a
vantaggio della parte in posizione di autorità. Secondo questo
approccio, la struttura del codice etico comporterà l’enunciazione
di diverse classi di casi critici in cui, a causa dell’incompletezza
contrattuale, può accadere che un qualsiasi stakeholder tragga
iniquamente beneficio a scapito degli altri soggetti, in quanto le
clausole contemplate dal contratto lasciano uno spazio di
discrezionalità.
Le procedure etiche del codice atte a regolare una data classe di
pratiche organizzative, pertanto, completano il contratto in modo tale
da escludere, o quanto meno limitare, che la sfera di discrezionalità
di ciascun agente dia luogo a un comportamento iniquo. In questa
visione, il codice etico rappresenta quella parte dei criteri
decisionali cui l’organizzazione fa ricorso al fine di far fronte
all’incompletezza dei contratti. Il codice etico può essere inteso
quindi come la “carta costituzionale” dell’organizzazione.
Ma quanto finora detto non è comunque sufficiente a garantire che il
codice etico venga concretamente osservato. A tale proposito, la
teoria economica fornisce un argomento a sostegno dell’esistenza di
una qualche forma di incentivo all’osservanza del codice etico
incentrato sull’analisi dei cosiddetti “effetti di reputazione”
(D. Kreps). Secondo questo argomento, la sua adozione in azienda
consente di stabilire l’appartenenza di qualsiasi tipo di evento,
anche il più imprevisto, a un principio generale (benché vago)
enunciato nel codice etico e quindi di applicare a quell’evento la
procedura di scelta che si è soliti adottare ogni qual volta si
verifica un accadimento riconducibile a quella stessa classe di casi,
permette agli stakeholders di valutare l’operato del soggetto in
posizione di autorità, in base all’osservanza delle procedure del
codice, e di generare in chi esercita il comando un incentivo
razionale a conformarsi al codice etico per sostenere la propria
reputazione, così da garantirsi al tempo stesso la cooperazione degli
stakeholders indispensabile per il successo dell’impresa.
Il network italiano. Per quanto riguarda il movimento di etica degli
affari, momenti significativi per la sua affermazione sono stati la
costituzione a Milano nel giugno 1988, per iniziativa del consulente d’azienda
Mario Unnia, del network italiano di etica degli affari. Tra gli scopi
di questa associazione non profit grande importanza rivestono quelli
di: 1) sostenere la ricerca nel campo dell’etica applicata, 2)
promuovere l’insegnamento dell’etica degli affari a vari livelli e
3) favorire l’adozione di codici etici da parte dei vari soggetti
presenti nel mondo degli affari.
La promozione del dibattito è stata realizzata principalmente
attraverso l’organizzazione nel 1988 e nel 1990 della I e II
conferenza nazionale di etica degli affari. Inoltre, nel 1990 a Milano
si sono riuniti i maggiori studiosi mondiali della disciplina in
occasione della III conferenza annuale dell’Eben tenutasi presso l’Università
Bocconi. Nonostante un avvio promettente, dalla metà del 1995 il
Network italiano non ha svolto alcuna attività e il suo consiglio
direttivo ha smesso di riunirsi, per cui la sua esperienza sembra
esaurita.
La rivista. All’intersezione tra ricerca e movimento si è posta la
rivista “Etica degli Affari”, fondata da M. Unnia nel 1988. Prima
in Europa ad essere pubblicata, essa è diventata progressivamente un
punto di riferimento obbligato per quanti si interessano, in vario
modo, alle tematiche connesse alla valutazione morale delle attività
economiche. Nonostante l’impegno profuso dal comitato di redazione,
la rivista, dal 1992 edita dal Sole-24 Ore Periodici con il titolo “Etica
degli Affari e delle Professioni”, a fine 1995 ha cessato le
pubblicazioni.
Nei suoi otto anni di vita la rivista, oltre ad affrontare questioni
squisitamente teoriche - quali, ad esempio, la natura dei dilemmi
etici negli affari, il rapporto tra etica generale e etica speciale
del manager, il rapporto tra doveri morali generali e doveri del
dipendente, la supposta “superfluità” dell’etica degli affari,
il rapporto tra relativismo culturale e principi etici, la
responsabilità morale dell’impresa, la globalizzazione delle regole
dell’etica, la leadership aziendale, l’integrità morale delle
multinazionali - trattate spesso in contributi “fondamentali” di
studiosi stranieri presentati per la prima volta in traduzione
italiana, ha dedicato ampio spazio all’analisi del problema dell’istituzionalizzazione
dell’etica e in modo particolare alle problematiche connesse all’introduzione
dei codici etici nelle imprese e dell’insegnamento dell’etica
nelle università e nelle aziende, anche con riferimento allo
specifico contesto italiano.
L’insegnamento. Per quanto riguarda, infine, la situazione italiana
rispetto all’insegnamento dell’etica degli affari occorre dire
che, nonostante la vivacità del dibattito avviato sul tema nel nostro
paese, esiguo è ancora il numero delle iniziative - soprattutto a
carattere seminariale - intraprese finora nelle università e business
schools. Anche nelle aziende pubbliche e private le iniziative di
formazione all’etica sono state ridotte di numero e di scarso peso
nei programmi formativi.
In generale, occorre rilevare come il dibattito in Italia,
diversamente da quanto è avvenuto nei paesi anglosassoni in cui, dopo
aver discusso, come abbiamo visto, alla fine degli anni Settanta di
problemi di metodologia didattica e del ruolo dell’etica nel
curriculum universitario, si è proceduto alla integrazione dell’etica
nel curriculum scolastico, si concentri ancora prevalentemente sulla
valutazione della opportunità o meno di introdurre l’insegnamento
dell’etica in generale e dell’etica degli affari nelle università
o nei programmi di formazione manageriale. Nelle università statali,
allo stato attuale, infatti, non esistono cattedre di etica degli
affari in nessun corso di laurea. Così come non esistono nelle
università private.
Offerte di formazione interessanti, in questa direzione, provengono,
invece, soprattutto da enti di ricerca e formazione privati, però
limitatamente agli studi postlaurea. Vanno segnalati, infatti, il
progetto di ricerca e formazione su “Etica degli affari”
realizzato dal Formez di Napoli nei primi anni Novanta, che ha
consentito la specializzazione di un ristretto gruppo di giovani
studiosi; il corso di etica degli affari inserito nel programma del
master in “Decisioni manageriali ed etica pubblica” per giovani
neolaureati organizzato negli anni 1991-92 e 1994 a Milano dal Centro
studi Politeia nell’ambito di un progetto formativo Cee 110 e il
master in “Teoria della decisione” organizzato dal Cele del Liuc
di Castellanza, avviato nel 1997-1998 nell’ambito delle attività di
formazione postlaurea approvate dalla Regione Lombardia.
Il master di Politeia proponeva un anno di formazione
postuniversitaria per giovani neolaureati provenienti da differenti
indirizzi di studi e interessati a diventare esperti nell’analisi,
gestione, valutazione e controllo dei processi decisionali nelle
organizzazioni complesse. Il programma del Master tendeva ad integrare
lo studio dei processi decisionali nelle organizzazioni con l’esame
dei criteri etici che orientano le scelte collettive. Dopo corsi di
base e corsi avanzati il master prevedeva anche corsi di etica
applicata per professioni: tra questi il corso, coordinato da E. D’Orazio,
dal titolo “Etica applicata al management d’impresa” (45 ore d’aula)
era così strutturato: “decisioni manageriali e giudizi etici”;
“struttura della proprietà, governo d’impresa ed etica d’impresa”;
“l’etica manageriale in diverse aree di responsabilità del
management”; “codici etici d’impresa: teoria ed esperienze”;
“programmi aziendali di etica: modelli e strumenti”.
Nelle esercitazioni è stato discusso un inedito studio di caso di
etica manageriale, elaborato da E. D’Orazio e L. Savoja impiegando
la metodologia dell’“equilibrio riflessivo”. Tale studio di
caso, intitolato I dilemmi etici del manager, è basato su materiali
originali ricavati da interviste in profondità somministrate a
manager e imprenditori italiani nel corso di ricerche empiriche svolte
direttamente dagli estensori del caso nei primi anni Novanta per Eni e
per Confindustria. L’esercitazione con il caso ha come obiettivo
quello di condurre gli studenti alla redazione di una bozza di codice
etico per una data azienda passando attraverso una serie di momenti
che vanno dall’analisi di specifici dilemmi etici vissuti da un
dirigente dell’azienda all’analisi di tali dilemmi alla luce di
teorie etiche normative di riferimento, alla individuazione di
soluzioni organizzative adatte all’azienda. Attraverso questo
percorso lo studente è in grado di valutare, in una situazione del
tutto simile alla realtà, la portata dei concetti teorici appresi in
aula. Gli estensori, inoltre, hanno dotato il caso di “Domande per
la discussione”, come guida per gli studenti, e di alcune “Note”
per il suo utilizzo a fini didattici, rivolte al docente.
Il master organizzato dal Liuc ha come obiettivo formativo di
preparare esperti nell’analisi dei processi decisionali in contesti
organizzativi molteplici, dall’impresa privata di produzione di beni
e servizi, all’azienda pubblica, fino alle organizzazioni del terzo
settore e quelle di ricerca e consulenza. Il corso - che si compone di
circa mille ore complessive di attività didattica per un periodo di 9
mesi - si articola nelle seguenti aree didattiche: 1) area
propedeutica; 2) teoria generale della scelta; 3) approfondimenti in
aree di specializzazione; 4) analisi di casi; 5) stage aziendali.
Una particolare menzione, infine, meritano le conferenze annuali su
“Etica ed Economia” organizzate dal 1991 da Nemetria - centro di
formazione presieduto dall’economista Paolo Savona che si propone di
portare il dibattito sulle relazioni tra etica ed economia fuori dagli
schemi consueti dell’analisi dei comportamenti illegali degli
operatori economici per indagare le basi etiche dei principi razionali
su cui si fonda la disciplina economica - e i seminari di etica degli
affari tenuti da esperti e organizzati nell’ambito dei dottorati di
ricerca in Economia aziendale istituiti presso le Università di
Trieste e di Pisa.
Alcune sfide. Nel concludere questa panoramica intendiamo porre alcune
questioni urgenti per l’Italia - delle vere e proprie sfide -
concernenti il successo nella istituzionalizzazione dell’etica nelle
organizzazioni - e tentare di prospettare rispetto ad esse alcune
soluzioni possibili.
A mio avviso, la questione oggi più urgente nel nostro paese è
quella, più volte richiamata da Salvatore Veca, di chi educa i
formatori? A questo proposito, occorre riconoscere che, non esistendo,
per varie ragioni, nel nostro paese una tradizione consolidata nell’insegnamento
dell’etica generale e quindi, a maggior ragione dell’etica
applicata, siamo qui di fronte - dopo i risultati a cui è giunto il
pensiero economico e la teoria morale - ad una grave responsabilità
in primo luogo delle nostre istituzioni scolastiche e in modo
particolare universitarie.
Per ovviare a questa situazione si tratta quindi di far sì che le
istituzioni scolastiche e la comunità degli studiosi del nostro paese
prendano finalmente sul serio l’etica. Questo è tanto più urgente
oggi in quanto, in seguito al crescente interesse per l’etica
manifestato dalla società italiana, enti di formazione pubblici e
privati e società di consulenza si accingono a rispondere alla
domanda di formazione in questo campo proveniente dal mondo della
scuola e dal mondo delle aziende attraverso iniziative di varia
concezione fuori di ogni controllo, per cui occorrerà presto fissare
per esse standard di qualità stabiliti da agenzie accreditate e
certificati da apposite società, in particolare per quanto riguarda i
programmi di aggiornamento per insegnanti di scuola media, delle
scuole di specializzazione in etica e di formazione manageriale. A
questo riguardo, il riferimento all’esperienza internazionale sopra
descritta - con il forte richiamo ad una reale cooperazione tra
docenti di business ed esperti di etica in vista della integrazione
della competenza manageriale con quella etica - può essere di grande
utilità.
Una seconda questione concerne il perché insegnare l’etica degli
affari e più in generale l’etica ad adulti, ed è tanto più
urgente in quanto, come si è più volte detto sopra, in Italia l’insegnamento
dell’etica non trova ancora una sua piena legittimazione.
Emblematico a questo proposito è il caso delle discussioni in atto su
recenti proposte di introduzione dell’insegnamento di temi bioetici
nella scuola secondaria.
Per i sostenitori italiani del movimento dell’etica applicata scopo
principale dell’insegnamento dell’etica è quello di consentire ad
una persona, che si presume abbia già interiorizzato - attraverso
soprattutto l’influsso della famiglia - i doveri della morale di
senso comune, di sapere, in situazioni dilemmatiche, non solo che cosa
è giusto fare, ma anche perché. L’insegnamento dell’etica
consiste, allora, nel fornire ad essa gli strumenti concettuali
necessari per “criticare” e - se necessario - rivedere le opinioni
morali ricevute.
Strettamente connessa a questa è la questione del come insegnare l’etica,
cioè del metodo didattico da impiegare per sviluppare tale “pensiero
critico” nei discenti. Tra le due alternative oggi in campo, quella
che privilegia un approccio molto concreto basato sull’analisi di
casi aziendali, come abbiamo visto assai diffuso nelle business
schools americane, e quella che privilegia un approccio più astratto,
volto a indagare i fondamenti dell’etica, più vicino alla cultura
europea, probabilmente la soluzione sta nel giusto equilibrio tra
attenzione ai fondamenti teorici e studio di casi, evitando così il
rischio, da un lato, che l’insegnamento dell’etica si esaurisca
nello studio dei fondamenti, di difficile assimilazione e impiego da
parte per es. di manager e imprenditori, e dall’altro lato che l’insegnamento
si impoverisca a causa di un accostamento eccessivamente pragmatico
all’analisi dei casi.
L’uso del metodo dei casi può infatti nascondere un duplice
pericolo: il primo, di natura didattica, è connesso al fatto che,
spesso, nei corsi di etica degli affari, l’accento è posto quasi
esclusivamente su racconti di casi. Tale enfatizzazione può portare a
commettere due errori ricorrenti: la convinzione a) che la pura e
semplice accumulazione di casi generi una comprensione di ciò che è
in gioco nei dilemmi morali e b) che i casi siano rompicapi da
risolvere, nella assunzione implicita che solo una “soluzione” sia
quella appropriata. In realtà, da un lato, la semplice accumulazione
non produce altro che un ampliamento quantitativo e, dall’altro, i
casi morali non sono presentati per essere prioritariamente risolti,
ma per essere confrontati e discussi. Dal punto di vista didattico,
ciò che è importante quindi non è la scelta pratica fatta in un
caso particolare, ma il bilanciamento di argomenti che conduce alla
scelta tra alternative. Questo errore può essere evitato prestando la
dovuta attenzione agli argomenti validi e alla loro applicabilità nei
casi simili: solo un equilibrio tra descrizioni di circostanze
particolari da un lato e analisi approfondita di norme e valori dall’altro
possono impedire giudizi unilaterali.
Il secondo pericolo è di natura normativa ed è più serio del
precedente in quanto è connesso direttamente alla validità del punto
di vista morale assunto nel caso in esame. Si incorre in un abuso
quando la descrizione di un caso particolare è usata per difendere
una posizione insolita e anche indifendibile per le persone coinvolte.
Vista da vicino, ogni situazione particolare costituisce un’eccezione
alle regole generali accolte: più si sezionano gli aspetti specifici
di una situazione più si troveranno circostanze attenuanti fino a che
le responsabilità morali degli agenti coinvolti svaniranno
completamente dietro a una massa di sottili distinzioni. Non c’è
nulla di sbagliato nel raccogliere casi a scopo didattico, l’unica
avvertenza da tenere presente è che venga mantenuto un equilibrio tra
descrizione dei casi e considerazioni teoriche.
Da tali osservazioni consegue, allora, la necessità di privilegiare
una strategia didattica che parta dall’analisi di casi per giungere,
attraverso la presentazione e discussione delle ragioni pro e contro
determinate scelte etiche, ai principi etici e teorie etiche di sfondo
per poi ridiscendere, con maggior consapevolezza critica, ai casi.
Sarà così possibile giungere, attraverso un “equilibrio riflessivo”
tra intuizioni e teorie etiche, ad una valutazione critica delle
nostre intuizioni morali accettate.
Questo punto può essere ulteriormente chiarito precisando che in
etica l’impiego dei casi non solo è utile per comprendere una data
teoria morale ma è anche indispensabile per dare alla teoria un
fondamento e per renderla internamente coerente. Con riguardo alle
teorie morali, i casi devono quindi essere considerati parte del
processo che convalida una teoria morale. Una teoria morale
convincente si origina in un “equilibrio riflessivo” tra giudizi
ponderati, principi etici validi, esperienze della vita reale e
convinzioni condivise. Secondo questo approccio, la “teoria” e i
“casi” sono elementi di un processo unitario in cui, per dirla con
Kant, una teoria senza casi è vuota e un caso senza teoria è cieco.
La coerenza morale è il risultato di un continuo “va e vieni” tra
indicazioni teoriche e prove sperimentali in cui esperienze basate su
casi contribuiscono ad articolare e a modificare argomenti basati su
principi e analisi concettuali che operano per purificare situazioni
della vita reale.
In questa strategia didattica il metodo dei casi come si vede è
cruciale. I ricercatori italiani di etica degli affari, pertanto,
nella fase attuale dello sviluppo della disciplina, dovranno procedere
alla realizzazione di studi di caso originali tratti dalla realtà
aziendale ed economica italiana e non accontentarsi semplicemente di
impiegare materiali tratti dalla letteratura anglosassone, pena una
perdita di efficacia didattica della proposta formativa. In questo
processo di ricerca le aziende potranno avere un ruolo importante se
riusciranno a interagire con i ricercatori manifestando la
disponibilità a fornire loro materiali, documentazione e
testimonianze. In questa direzione va, per esempio, lo studio di caso
elaborato per il corso “Etica applicata al management d’impresa”
previsto nell’ambito del master di Politeia e ricordato sopra.
Non presenta, invece, particolari difficoltà la questione relativa al
che cosa insegnare in un corso di etica degli affari in quanto, da un
lato, dati i progressi raggiunti dalla disciplina, vi è ormai un
sufficiente accordo tra gli esperti - basta scorrere a questo
proposito uno dei tanti manuali oggi disponibili - circa i concetti,
le teorie, le questioni da affrontare in un corso standard, dall’altro
lato, l’esperienza di insegnamento maturata finora da alcuni esperti
italiani in seminari universitari, in corsi di master postlaurea e in
corsi aziendali è tale da consentire la progettazione di moduli
formativi ben strutturati.
L’ultima questione da segnalare riguarda infine un problema che
diventerà sicuramente assai pressante nel prossimo futuro,
soprattutto se crescerà ulteriormente l’interesse delle imprese
italiane per l’autoregolazione via codici etici, e che potremmo
definire come un problema di etica del formatore, soprattutto del
formatore che opera all’interno di un’organizzazione sia profit
sia non profit dotata di codice etico. Nel contesto aziendale,
infatti, l’idea della formazione in etica intesa come sviluppo nei
discenti di una capacità “critica” nel senso detto rischia di
corrompersi nel suo contrario. Come evitare, infatti, che l’attività
di formazione aziendale basata su principi e valori etici stabiliti in
un codice etico adottato dall’azienda per iniziativa dei suoi
vertici, necessaria perché il codice stesso risulti efficace e non
rimanga lettera morta, non si traduca - e non venga vissuta dai
destinatari - nella imposizione “dall’alto” ai dipendenti di una
cultura e di un’etica aziendali ad essi estranee?
A questo proposito, l’esperienza consolidata statunitense - sopra
descritta - può fornire indicazioni utili in quanto mostra come il
disegno ottimale di un codice etico debba prevedere una fase
preliminare di discussione, a tutti i livelli nell’azienda, delle
norme in esso presenti, in modo tale che la sua adozione sia preparata
da un reale coinvolgimento di tutti i dipendenti, anche di coloro che
dovrebbero conformarsi ad esso. In questo caso l’attività di
formazione successiva alla sua adozione, trattando di valori
condivisi, farà appello al consenso e non all’obbedienza passiva o
peggio alla manipolazione dei destinatari del codice. A questa
metodologia era ispirato - come si è visto sopra - il progetto
realizzato in Acea.
All’approfondimento di tali questioni dovranno soprattutto
rivolgersi, a mio avviso, nel prossimo futuro tutte le agenzie e
istituzioni (le università pubbliche e private, il Cnr, il Comitato
nazionale per la bioetica, i centri di ricerca privati, le scuole di
formazione, gli Irrsae, le associazioni imprenditoriali, sindacali,
scientifiche e professionali, le società di consulenza aziendale e di
revisione, le organizzazioni di certificazione, gli enti governativi)
realmente interessate a colmare lo scarto esistente nel nostro paese
tra domanda di etica, emergente in modo chiaro da ampi settori del
mondo degli affari e più in generale della società civile, e sistema
educativo e formativo, fornendo così un contributo essenziale al
miglioramento della qualità morale del processo decisionale aziendale
e quindi al corretto funzionamento del sistema economico e delle
singole imprese nel nostro paese.
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