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Attualita'



La costruzione di una intelligenza collettiva.



Guido Martinotti




Milano e la sua area, e più in generale il sistema metropolitano lombardo, stanno completando una trasformazione profonda da centro di produzione manifatturiera, ma con forti e radicate tradizioni commerciali e finanziarie, a uno dei maggiori casi mondiali di knowledge society. Cioè di una società largamente basata su attività creative, attività di accumulazione e trasmissione delle conoscenze e attività di produzione di beni e servizi per il consumo culturale.

L’unitarietà di questo processo generale rimane ancora relativamente in ombra perché è il prodotto di dinamiche indipendenti ed è finora sfuggita al dibattito pubblico, da tempo impegnato a cogliere le novità della situazione milanese corrente, ma ancora imbrigliato in categorie obsolete, che oscurano l’analisi e anche l’azione politica che ne deriva. Eppure i fatti sono abbastanza chiari ed evidenti: ne elenco alcuni.

Uno. Da tempo l’editoria è una delle componenti portanti dell’industria milanese e negli ultimi anni, industrie come quelle della moda, del design, della pubblicità e delle connesse attività di ricerca e consulenza, che peraltro hanno sempre avuto radici profonde nel tessuto produttivo della città, si sono affiancate all’industria editoriale in un significativo complesso con forti nessi interni. A queste attività va aggiunto il settore televisivo, non soltanto quello di Corso Sempione, ma, ovviamente, anche quello di Segrate che, essendo vagamente fuori porta ha sofferto della opacità che i milanesi riservano a tutte le attività non direttamente osservabili dai Navigli.

Due. Senza troppo chiasso, ma con notevole determinazione, Milano è arrivata oggi ad avere 7 università (11 in tutta la Lombardia) di cui tre - lo IULM, il San Raffaele e UNIMIB, l’Università degli studi di Milano-Bicocca - sono di recente formazione e in forte espansione. Si noti che il contributo economico del Ministero dell’Università (MURST) per queste iniziative, nonostante l’impegno del Sottosegretario uscente, è stato assai inferiore a quello profuso in altri sistemi universitari metropolitani della penisola.

Va aggiunto che quattro dei sette atenei milanesi sono privati, così come lo era originariamente il Politecnico, il più antico. Tutti stanno contribuendo al cambiamento della città, in particolare il Poli e UNIMIB con insediamenti, la Bicocca e la Bovisa, che rappresentano casi di rinnovo urbano di classe europea. Eppure anche questo sviluppo rimane alquanto all’orizzonte degli eventi: Bicocca e Bovisa, vengono confuse tra di loro e talvolta anche con la lontana Barona persino nel mondo dei responsabili ufficiali.

Tre. A Milano si sta realizzando una rete digitale che collegherà imprese e privati e che permetterà di inviare una quantità grandissima di informazioni e che si inserisce in un contesto di elevata informatizzazione della città, sia da parte dei privati che delle imprese.

Quattro. E’ fuor di dubbio che nella passata attività della giunta gli sforzi per dotare Milano di istituzioni di alto livello per la cultura, dall’Auditorium degli Arcimboldi alla Grande Biblioteca, grazie all’impegno di Salvatore Carrubba, abbiano ricevuto un impulso significativo. Con le azioni di abbellimento simbolico del centro storico, dove si addensano le attività culturali, hanno rappresentato l’attività della Giunta che più si è distinta dal prosaico profilo condominiale propugnato dal Sindaco.

Cinque. Eppure su queste stesse pagine, qualche giorno fa si poteva leggere un interessante articolo di Carlo Bertelli, che dichiarava Milano una “Metropoli fuori catalogo”, cioè non più riconosciuta come centro culturale d’avanguardia. E’ appena il caso di aggiungere che la lamentazione di Bertelli è solo l’ultima in ordine di tempo di una lunga serie di denunce sul tema.

Come si risolve questo paradosso? Milano è un esempio di “società della conoscenza” oppure un binario morto della cultura? Penso che Bertelli abbia messo il dito sul nodo critico del problema. Dire che si sta sviluppando una società della conoscenza, non significa affatto dare un giudizio sulla qualità del risultato. La knowledge society è solo un grande contenitore che fornirà il quadro di riferimento per le società industrialmente avanzate dei prossimi anni, nel quale possono svolgersi attività più o meno redditizie e più o meno qualificanti. Possiamo ipotizzare una versione passiva ed esclusivamente di consumo di quella che Castells chiama “informational economy”, oppure pensarne una versione creativa e attiva.

Faccio un esempio del settore che conosco meglio. I sette atenei milanesi contengono un potenziale di ricerca e di conoscenze piuttosto elevato, ma la loro massa critica non è valorizzata e sono poche le strutture accademiche in cui possono essere fatte valere economie di scala a livello cittadino, mentre il resto è costituito di attività di nicchia, anche se talvolta di buona qualità. D’altro canto a breve sarà disponibile a Milano una infrastruttura tecnologica di rete piuttosto avanzata. Che se ne fa, la usiamo solo per distribuire films e videogiochi, magari prodotti altrove, o per promuovere un E-Commerce che sta già mostrando la corda? Oppure possiamo immaginare di utilizzare questa rete anche per qualcosa di più significativo sul piano della ricerca e delle conoscenze in generale?

Personalmente ritengo che occorra dar vita a quella che Pierre Levy chiama "intelligenza collettiva", cioè promuovere una operazione di grande respiro che immetta in una rete attiva, i ricercatori e le loro competenze, ma con loro anche il vasto ceto di “knowledge workers” che contraddistingue la società in cui siamo ogni giorno sempre più profondamente immersi. Da questo punto di vista l'operazione in sè diventerebbe un caso importante di innovazione tecnologica capace di collocare Milano in una posizione di leadership nella comunità scientifica europea e più in generale di offrire una arena per lo sviluppo collaborativo-competitivo di conoscenze.

E’ una operazione possibile e realistica, oserei quasi dire necessaria, ma tuttaltro che facile, che richiede una non comune capacità di progettazione strategica e la mobilitazione di notevoli risorse economiche. Ma nella società della conoscenza ci si può porre tra chi ha qualcosa da offrire o finire tra chi può solo consumare e pagare il conto.

 

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