Il genio di Nat King Cole
Francesco Màndica
Route 66, CD di Nat King Cole, Dreyfus jazz, 2001, distr. Sony
music France
Non ricordo in vita mia di aver visto immagini di repertorio in cui il
grande crooner americano disegnasse su una lavagna il tracciato della
mitica Route 66. Ricordo, però, con assoluta precisione di aver visto
un altro cantante farlo qui in Italia.

Nat King Cole (1917-1965) probabilmente preferì celebrare il solco
storico della strada che inizia dal centro di Chicago (nel Grant Park)
e dopo 2.400 miglia attraverso tre fusi orari e otto stati - Illinois,
Missuri, Kansas, Oklahoma, Texas, New Mexico, Arizona e California -
termina a Los Angeles (all'incrocio del Santa Monica Boulevard con
Ocean Avenue) con un blues che lo ha reso immortale. Non vi
formalizzate sul testo: è come se qualcuno si mettesse in testa di
mettere in versi tutte le uscite dell’autostrada, autogrill compresi
(un po’ come il Guzzanti/Venditti del G.R.A.).

Svincoli a parte, una raccolta davvero bella celebra non solo i fasti
del “panino fattoria” versione yankee, ma soprattutto quel
fenomeno che fu la musica discreta e rivoluzionaria del grande
pianista e cantante di Montgomery, Alabama. Rooute 66 contiene
venti brani, sapientemente scelti dall’etichetta francese Dreyfus,
che ci restituiscono gli anni migliori della sua produzione, quelli
della Los Angeles maledetta nei racconti di Chandler, immacolata e
luminosa, incurante della guerra (il Giappone, Pearl Harbor erano a
due passi) e dei terremoti.
Il trio di Nat “King” Cole era un’istituzione: un ensemble
patinato e aristocratico che non ammetteva il fracasso della batteria
(la formazione tipo vedeva assieme al pianoforte chitarra e
contrabbasso) e che viveva il jazz come serissimo divertissement.
Il “Re”: microfono di traverso, doppiopetto, gemelli scintillanti
e dentatura al bicarbonato celebrava ogni sera il rituale dell’intrattenimento,
ben altra cosa da quello da crociera. La musica andava santificata, il
pubblico rispettato.

Il pianismo di Cole, sinergia perfetta fra ritmo e discrezione, è
stato per anni sottovalutato (ma basterebbe ascoltare lo splendido
duetto con Max Roach per ricredersi), la sua voce rianimata per
squallide operazioni di mercato (ricordate il parricidio postumo
compiuto dalla figlia con la versione necrofila di Unforgettable?).
In questo momento storico di cyber-annullamento non ci rimane che
questa scelta epicurea: il passato languido e rassicurante di brani
come Sweet Lorraine o Nature boy, la serenità
solare di Makin’ Whoopee, l’afflato romantico di Little
Girl, brani/panacea che ci aiutano a sostenere la quotidianità (e
se non mi credete provate a fare i piatti con Eminem in sottofondo,
sicuro che almeno un bicchiere andrà in frantumi).
Ora finalmente possiamo riprenderci i nostri ricordi, anche quelli che
non abbiamo mai vissuto, e mescolarli con questa musica diafana e
incorruttibile, che equivale a un tirar su con la cannuccia una noce
di cocco, o più semplicemente un chinotto.
Il Re e’ tornato.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da
fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio
Attualita' |