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Diavoli e altre storie



Paolo Nori con Costanza Macchi



L’antitesi di un romanzo d’avventura. I deliri di un ossessivo incoercibile. La follia battuta a ritmo di intercalari. E ancora, il falò delle idee, dei ragionamenti, dei dubbi, degli interrogativi, degli impulsi. Delle improvvise intuizioni che non portano a niente perché a niente vogliono portare.

Non solo. Un’allegra e musicale cattiveria, che trascina e si frena da sola. E poi la saga di un eroe alla rovescia le cui gesta si compiono nell’anno "novantanove del Novecento". E i suoi assilli, le sue azioni, gli atti mancati che caratterizzano il protagonista e lo legittimano a essere, più di ogni altro, lui.

Potrebbero essere queste, -ma sarebbero comunque insufficienti- le definizioni possibili per Diavoli, l’ultima fatica di Paolo Nori -la quarta in tre anni- edita da Stile libero di Einaudi. Learco Ferrari, il protagonista del romanzo, non è cattivo ma vuol illudersi di esserlo, si convince di essere un diavolo inviato da Satana a "dividere, confondere, calunniare". Ha un sogno, essere scrittore, e un problema, trovare qualcuno che lo pubblichi. E su questa falsa riga di vita e di illusione costruisce la sua logica cronaca della paranoia.

E’ un romanzo breve, come lo stile dell’autore pare imponga, eppure indubbiamente efficace se è vero che le ripetitive gesta di Learco, alter ego di Nori - che declina ogni autobiografismo, anche quelli più evidenti - restano nella mente come ritornelli fastidiosi ai quali poi ci si affeziona. Come quel "mi dice - gli dico", inclemente al termine di ogni battuta o come quell’"un-due-tre" che serve al protagonista per rappresentare i suoi passi, è vero, ma anche per dare un ritmo alla cantilena della sua vita, che altrimenti non avrebbe una colonna sonora.

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E se la lingua è reginetta assoluta, e gioca con le parole mantendendo sempre un tono rispettoso, è anche vero che non c’è nessun intento didascalico da parte dell’autore: se gli si domanda perché un giorno decise di scrivere, sorride e dà due risposte: "Perché non sapevo che cosa fare". Poi ci pensa un attimo: "Perché mi piace leggere".

Paolo Nori, 1963, è nato a Parma, ha un diploma di ragioniere alle spalle, nell’88 la laurea in lingue e "un dottorato mancato perché non m’hanno preso". Poi tre anni di lavoro in Francia, in un’impresa edile: "Dovevamo costruire un metanodotto". E poi ancora l’estero: "Ho fatto il traduttore di russo e francese".

Qual è stata la sua prima opera a vedere la luce?

Le cose non sono le cose. Era il marzo del 1999. La pubblicò Fernandel, una piccola casa editrice di Ravenna. Alle spalle avevo un altro romanzo finito nel ’98, ma rimasto irrisolto. Avevo però una certezza: la mia voglia di scrivere era in realtà la mia voglia di farmi leggere. Volevo dire qualcosa agli altri.

Poi Bassotuba non c’è.

Sì, lo pubblicò Derive e Approdi. Fu una grande festa. Le piccole case editrici sono così: era quasi una cena di famiglia ogni volta che ci si vedeva.

Perché? Adesso è diverso?

Bassotuba
era il terzo libro di una collana. Con Einaudi è tutto diverso: tanto per cominciare non ci sono rapporti con l’editore. Ho quasi difficoltà a incontrare chi si prende cura del dattiloscritto. Però è vero che ho cominciato a vivere con la letteratura proprio da quando la casa editrice è più grande perché ho ottenuto maggiore visibilità.

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Come ha vissuto l’impatto con il successo?

Non parlerei di successo. Mi ricordo una serata trascorsa con lo scrittore Emidio Clementi. Ecco, lì si poteva parlare di successo. Fu una serata "difficile", perché quando ti conoscono non c’è niente da fare: ti rompono le balle. Ma nel mio caso tutto questo ancora non c’è.

Si dice che nei suoi libri ci siano forti riferimenti a se stesso. Quanto è vero?

A me interessa raccontare e di sicuro non si può dire qualcosa che non si conosce. E’ inevitabile che io ricordi e porti alla luce i risultati delle mie esperienze. Di certo mi sento molto vicino alla prospettiva del filosofo che osserva e mette da parte. Molto spesso ne risento durante l’editing, dove il lavoro duro è poi quello di depurare il testo di tutti i riferimenti e le impressioni "troppo mie".

Ci sono degli autori che considera i suoi maestri?

Per quanto riguarda la tradizione italiana, amo Sciascia, Celati, Cavazzoni, Malerba. Ma vengo da una formazione imperniata di letture della tradizione russa. E' questa la mia vera officina: Pushkin, Gogol’, Dostoevskji.

Che cosa consiglierebbe a un aspirante scrittore?

Quello che mi diceva sempre il mio insegnante di russo, riferendosi allo studio della lingua troppo imperniato di analisi della grammatica: "per parlare bisogna parlare". Ecco, a chi si avvicina alla scrittura direi che per scrivere bisogna scrivere. Non solo. Gli direi che bisogna scrivere con accanimento. Detto questo, poi bisogna pubblicare.




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