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Linconscio
Giovanni Jervis con Silvia Calandrelli
Professor Jervis, può darci una definizione di "inconscio" e descriverci
l'evoluzione storico-critica di questo concetto, a partire da Freud?
Secondo una definizione intuitiva, l'inconscio è l'insieme di quegli aspetti della mente
che non sono accessibili alla coscienza. In questo senso si può parlare di meccanismi
inconsci, in quanto si suppone che esista una "fabbrica" dei pensieri e delle
idee che noi non conosciamo. Ma si può parlare anche di idee inconsce e anche di fantasie
inconsce. Si suppone che ci sia un mondo dietro lo specchio: da una parte il mondo che ci
è accessibile, il mondo fenomenologico della coscienza; dall'altra parte dello specchio
una specie di doppio, in cui esistono altre idee, altri pensieri, altre immagini, altri
ricordi.
L'idea di inconscio è effettivamente legata a Freud. Si può dire che tutta la dottrina
freudiana è una teoria dell'inconscio, che la psicoanalisi è una teoria dell'inconscio.
Ma spieghiamoci meglio. Quello che caratterizza il concetto di inconscio in Freud, non è
tanto l'inconscio in sé - perché di inconscio si parlava già molto prima di Freud -
quanto il fatto che Freud dà una versione psicologica dell'inconscio, più che filosofica
- com'era stata prevalentemente fino a quel momento - e la dà secondo curvature
particolari.
Ciò che caratterizza l'inconscio in Freud è da un lato il concetto di rimozione,
dall'altro l'idea di una sessualità dell'inconscio. Cioè da un lato l'idea che al centro
dell'inconscio vi sia un particolare meccanismo, cioè quel meccanismo - inconscio
anch'esso - per il quale noi ci proibiamo di conoscere certe cose che sono essenzialmente
idee, ricordi e fantasie; e tali elementi, che stanno dentro di noi e che sono interdetti
alla coscienza e tuttavia agiscono su di noi. Questa è l'idea della rimozione.
Dall'altro, l'idea di una sessualità dell'inconscio, cosa che ci porta a parlare
dell'inconscio nei termini di una concezione materialista della psiche.
Freud riprende la nozione di inconscio in parte da una serie di autori - filosofi e
psicologi che avevano affrontato questa tematica - in parte ascoltando, per così dire, un
certo tipo di dibattito che era presente alla fine dell'Ottocento, sia in ambito
filosofico, sia in ambito scientifico, nella psicologia e nella psichiatria, sia più
generalmente in ambito culturale. L'idea che noi siamo in qualche modo condizionati, e in
particolare forse anche agiti, da forze che stanno dentro di noi, è un'idea espressa con
particolare forza e pregnanza prima da Schopenhauer e poi da Nietzsche. Freud si riferiva
prevalentemente a Schopenhauer. L'idea, in sostanza, è che quella soggettività che noi
chiamiamo "io", non sia primaria, ma sia in qualche modo effetto di qualche
cosa. Questo lo troviamo in Nietzsche abbastanza chiaramente.
Freud riprende questi temi entrando in una polemica duplice: da un lato con l'immagine
dell'essere umano tipica del "rispettabilismo" borghese vittoriano
dell'Ottocento, per cui l'essere umano, nella sua espressione più alta - quella del
gentiluomo civilizzato - è caratterizzata dal pieno dominio dell'autocoscienza sulla
mente, sul comportamento. Da un altro lato Freud si contrappone anche alla nascente
psicologia sperimentale - quella degli ultimi decenni dell'Ottocento - la quale consisteva
nello studio della psiche, cioè nello studio dei contenuti della coscienza, ed era quindi
una psicologia della coscienza.
La concezione di Freud dell'inconscio è il frutto sia di una messa in discussione etica e
metodologica a carattere critico, sia di una istanza più polemica e eversiva, che va nel
profondo. In questo senso dobbiamo ricordarci che la sua concezione dell'inconscio è
eminentemente materialista, secondo un tipo di materialismo che noi oggi possiamo
considerare scontato, ma a quell'epoca aveva un significato particolarmente pregnante,
proprio perché, per Freud, alla base dell'inconscio stanno le pulsioni, in primo luogo
proprio quelle sessuali. Noi oggi abbiamo inglobato la sessualità nella cultura di tutti
i giorni, ma alla fine dell'Ottocento non era così.
Per quanto si parlasse moltissimo di sessualità, tuttavia esisteva ancora una frattura
fra una cultura di avanguardia - quella che trattava temi sessuali in sede scientifica e
anche in sede artistica - e, potremmo dire, una cultura rispettabile. Freud rompe tutto
questo, nel senso che l'inconscio di Freud è un inconscio pieno di cariche - potremmo
dire - non pienamente governabili. La sessualità in Freud è ancora, fino ai primi
decenni del nostro secolo, una forza eversiva. Infatti il messaggio freudiano
sull'inconscio viene facilmente interpretato, nei primi decenni del nostro secolo - in
particolare negli anni Venti - come un messaggio anticonformista in senso ideologico e
perfino politico. Chi si interessava di psicoanalisi - cioè le avanguardie colte europee
e americane degli anni Venti - si interessava alla psicoanalisi associando i temi
psicoanalitici dell'inconscio all'emancipazione femminile, all'idea di una libertà
sessuale, che però in Freud non c'è, e anche al marxismo. Quindi erano temi in questo
senso pienamente anticonformisti.
Forse oggi abbiamo perduto un pochino questo aspetto scardinante, eversivo,
anticonformista, scandaloso, che c'era a quell'epoca, in rapporto a una cultura dominante,
che malamente accettava queste cose. E si può anche notare che il concetto di inconscio
freudiano in qualche modo non si è rinnovato, nel senso che, avendo inglobato l'inconscio
sessuale e l'inconscio materiale, l'inconscio pulsionale, istintivo, nella psiche, ha
finito per normalizzare queste cose. Quindi, noi oggi parliamo di inconscio come di
qualcosa che, potremmo ben dire, è stato normalizzato. Ma se vogliamo ritrovarne la
matrice, dobbiamo ricordarci che l'intenzione di Freud non era questa.
Dunque si può dire che vi sia un certo contenuto "rivoluzionario"
nell'elaborazione del concetto di inconscio da parte di Freud. Ma quali esiti clinici,
quali sviluppi clinici ha avuto per Freud l'elaborazione di questa nozione? E come propone
di "gestire" i rapporti con l'inconscio?
Da un punto di vista clinico, questo comporta l'apertura del discorso freudiano a una
serie di elaborazioni - che costituiscono poi la psicoanalisi freudiana - che riguardano
essenzialmente gli effetti, occulti e palesi, dell'inconscio sulla coscienza. Quindi la
"clinica" è innanzitutto, potremmo dire, la clinica dei lapsus: cioè la
scoperta del fatto che, all'interno dell'autocoscienza quotidiana - che Freud vede in
qualche modo come primaria - si infiltrano questi aspetti mal governabili, in qualche modo
sovversivi, profondamente animali, istintivi, materialistici, per certi lati anche grezzi
- che sono per esempio i lapsus, gli errori, le dimenticanze, e, via via senza soluzione
di continuità, le nevrosi, il disturbo psichico. Quindi, le conseguenze sulla clinica -
volendole dire in una parola - sono date dal fatto che, se l'inconscio è presente nella
vita quotidiana, la patologia si infiltra nella normalità e in qualche modo la mette in
discussione.
Freud, ritenendo che la sofferenza, e in particolare la sofferenza nevrotica, sia legata -
per così dire - a una cattiva gestione dei rapporti con l'inconscio, propone
essenzialmente canali di consapevolezza maggiori tra inconscio e coscienza. Propone che
l'"Io", e in particolare l'"Io cosciente" dell'individuo, in qualche
modo si appropri di una parte dei contenuti dell'inconscio e, soprattutto, governi in modo
più consapevole, più razionale - anche se non interamente consapevole, non interamente
razionale - i propri rapporti con l'inconscio. Qui ci sono anche alcuni limiti del
pensiero freudiano. In Freud - a differenza che in Jung - l'inconscio ha qualche cosa di
primitivo, quindi qualcosa di limitativo, qualche cosa - quasi direi - di grezzo. E c'è
una difesa della nobiltà della coscienza, considerata tutto sommato come primaria, come
un dato, che in seguito verrà messa in discussione.
Come ha contribuito Jung allo sviluppo ed all'elaborazione del concetto di
"inconscio"?
Mentre in Freud l'inconscio esprime innanzitutto dei bisogni e dei desideri, cioè esprime
le pulsioni - qualche cosa che ha a che fare col sottofondo organico, istintivo
dell'individuo, - in Jung c'è una visione molto discussa - e, per certi lati, discutibile
- dell'inconscio. La visione junghiana contiene una maggiore consapevolezza della
complessità e anche, potremmo dire, della ricchezza della produzione inconscia. In Jung
noi vediamo che l'inconscio è un mondo più articolato che in Freud, ha una sua dignità
maggiore, ha una sua maggiore autonomia, e soprattutto si esprime maggiormente in
strutture autonome e in un discorso autonomo.
Jung è stato uno studioso - fra gli altri filosofi - di Kant, da cui è stato molto
influenzato, e ritiene che la coscienza - in generale, la vita psichica dell'individuo -
si esprima secondo delle forme, delle categorie, che poi assumono degli aspetti anche in
qualche modo immaginali. Si può discutere fino a che punto sia valido oggi il concetto di
"inconscio collettivo", cioè di un sottofondo non individuale della psiche.
Fatto sta che Jung riteneva che ci fosse una sorta di eredità, di ricordi ancestrali -
cosa oggi difficilmente accettabile. La cosa invece interessante è che Jung si rende
conto che l'inconscio si esprime secondo un linguaggio, secondo una simbologia - in Freud
invece il concetto di simbolo è abbastanza marginale, più di quanto non credano di
solito i profani - e che in qualche modo questa simbologia è strutturazione di un
discorso. Questo, a differenza che in Lacan, non è un discorso in senso linguistico, ma
in senso immaginale.
Al tempo stesso però, potremmo dire che le influenze romantiche permettono a Jung di
liberarsi, in parte, da certe pastoie positivistiche, illuministiche - che erano tipiche
di Freud - e di consegnare all'inconscio il crisma di una maggiore dignità, potremmo
dire, non tipicamente in senso irrazionalistico, anche se Jung ha degli aspetti mistici e
irrazionalistici, su cui, personalmente, avrei qualche riserva.
Jung ritiene infatti che la vita emotivo-affettiva sia qualche cosa di più ricco di
quanto non lo ritenesse Freud, e in questo probabilmente egli ha ragione. Freud, in fondo,
è un cartesiano. Mantiene un primato della ragione, come entità autocosciente, autonoma,
legata al logos; e ritiene anche che l'inconscio sia espressione, come in Cartesio, del
corpo.
Cartesio non parla di inconscio, ma parla delle influenze, delle passioni, delle influenze
dei moti corporei, sulla psiche. Freud rimane in questo ambito, quindi in un una visione
dell'inconscio di tipo un po' riduzionistico. In Jung c'è invece la percezione del fatto
che l'inconscio più che agire sulla psiche cosciente, è esso stesso psiche, nel senso
che è un mondo in cui esiste una razionalità, esistono dei discorsi, delle storie che si
creano, si disfano, che in qualche modo influenzano non soltanto i lapsus e le nevrosi, ma
tutta la produzione psichica dell'individuo. In questo senso Jung è più moderno di
Freud.
Qual è l'importanza del concetto di "inconscio collettivo"? E in generale,
che cosa è ancora considerato valido - all'interno della tradizione psicoanalitica -
dell'elaborazione freudiana e junghiana del concetto di "inconscio"?
Io non credo che in Jung il concetto di inconscio collettivo sia così centrale come si
può pensare. Centrale - a mio parere - in Jung, è l'idea che esistano delle forme, delle
strutture, che poi si traducono in immagini, cioè che esiste in qualche modo un
linguaggio non verbale dell'inconscio. Credo che questo sia senz'altro vero e anche in
qualche modo confermato, per certi lati, dagli studi recenti; anche se oggi - questa è la
grande novità - la distinzione fra coscienza e inconscio, per certi lati, è venuta a
cadere.
Riguardo a Freud, la parte più valida è quella attinente al discorso clinico. Freud, da
questo punto di vista, continua a giganteggiare nella critica quotidiana alle apparenze
della coscienza. In fondo il discorso di Freud è un discorso paradossale, potremmo dire
che è un discorso contro il buon senso, ma per certi lati è un discorso intuitivo. Che
cosa dice Freud e, in fondo, per certi lati anche Jung? Freud dice: "Benissimo, cari
signori, nella vostra vita di tutti i giorni voi partite da un'idea, da un presupposto di
dominio della vostra autocoscienza sui vostri atti quotidiani, sui vostri pensieri, vi
sentite padroni di voi stessi. Ebbene, non lo siete".
In un certo senso questo è un discorso molto empirico, che fa appello alla fenomenologia
della vita quotidiana, al contenuto normale della coscienza di ciascuno, e introduce una
critica, perché dice: siete meno coscienti di quello che voi pensate, o, per meglio dire
- soprattutto in certi momenti; voi razionalizzate, vi date delle spiegazioni inventate,
ma c'è un altro discorso, nel fondo, che agisce dentro di voi, che in qualche modo vi
condiziona e sul quale poi voi giocate ambiguamente, nel senso che ne tenete e non ne
tenete conto, vi date le vostre spiegazioni, eccetera. Per questo quello di Freud, è, se
vogliamo, un discorso critico, nel senso di essere una critica della rispettabilità,
della apparente "datità" della coscienza quotidiana. E' anche un richiamo
continuo alla possibilità di essere, per così dire, più scettici verso se stessi, ma al
tempo stesso più consapevoli: dunque si tratta di tenere conto di una ricchezza di
motivazioni, di fattori motivazionali - come si dice da alcuni decenni a questa parte -
che oltre a non essere tutti consapevoli, sono per noi difficili da accettare.
Questo discorso freudiano che è essenzialmente dialettico, polemico, ci richiama a un
tema fondamentale, quello della malafede, che ci dice: viviamo un po' tutti nella
malafede. In Jung c'è, rispetto a ciò, una sorta di riscatto: c'è una concezione più
complessa della personalità dell'individuo, ci sono delle fughe a carattere
mistico-irrazionalistico, e perfino a carattere gnostico, in certe sue elaborazioni .
Però al tempo stesso c'è un atteggiamento, per certi lati, meno riduttivo. Potremmo dire
che l'inconscio, in Jung, "pensa di più", anche se pensa essenzialmente per
evocazioni e per immagini.
Come è stato riformulato il concetto di "inconscio" al di là della
psicoanalisi? Lei parlava prima di un vero e proprio rivolgimento.
In Freud, abbiamo detto, c'è una posizione teorica che riguarda la vita quotidiana, le
intenzioni e la malafede di tutti noi, con un sottofondo etico-filosofico sulla
materialità degli istinti, sul materialismo della sessualità, che oggi, con la
normalizzazione della vita sessuale, si è un po' perso. Questo però lascia scoperta una
parte del discorso freudiano, cioè la parte più teoretica, quella riguardante la
concezione della mente, che per molti aspetti è superata. I motivi sono diversi: quello
principale è che Freud non si chiede mai cos'è la coscienza. Egli infatti definisce
l'inconscio, ma dà della coscienza delle definizioni piuttosto sommarie, perché la
considera come un dato. E qui c'è l'aspetto singolare del pensiero freudiano.
Il discorso freudiano, come tipo di linguaggio, di sistematizzazione, è di tipo
oggettivistico-meccanicista: c'è una mente inconscia, fatta di luoghi, di forze, di
energie, che funziona per conto suo. La soggettività, ciò che l'individuo sente,
l'esperienzialità non è realmente chiamata in causa: è trasferita in una serie di
luoghi, più o meno metaforici, che sono la censura, il Super-io.
Da un altro lato, però, in Freud il punto di partenza è fenomenologico, perchè il suo
discorso inizia dicendo: "Bene, voi sapete cos'è la coscienza; adesso vi dico che
non è proprio quello che pensate voi". Anche oggi ci sono dei filosofi, come Searle,
che sostengono che tutti sappiamo cos'è la coscienza e non è necessario definirla: ma in
realtà non è così. Che cosa sia la coscienza abbiamo cominciato a chiedercelo
seriamente da pochi decenni e son venute fuori moltissime cose. Ne è risultata una grande
discussione tuttora in atto, con posizioni molto diverse, perché, in sostanza, si tratta
di decidere che cos'è la mente; ci sono stati tuttavia anche dei chiarimenti. Ora,
all'interno di questi chiarimenti, vi è un punto che è fermo: il fatto che, per certi
aspetti, gli studi moderni sui meccanismi cognitivi sulla mente e sulla coscienza, pur
essendo studi sistematici che si svolgono quasi esclusivamente al di fuori della
tradizione freudiana - cioè secondo una tradizione sperimentale di ricerche sistematiche
in psicologia, diversa da quella di Freud - sono tuttavia più "freudiani" di
Freud.
Gli studi moderni sulla coscienza ci dimostrano infatti che la coscienza è meno
cosciente, o meglio, è meno autocosciente, meno garantita anche rispetto a quanto Freud
pensasse. Mentre Freud riteneva che la coscienza fosse infiltrata dall'inconscio e
influenzata da esso, oggi si tende a pensare che la coscienza sia fondata per certi lati
sull'"inclusione" - cioè è possibile che noi non siamo veramente coscienti.
Questo può sembrare un cavillo del tutto astratto, ma non è così, perché lo studio dei
meccanismi ordinari di autoinganno della mente, è arrivato ormai molto lontano e ha dato
dei risultati piuttosto singolari.
Date queste considerazioni, che ne è, secondo lei del rapporto inconscio-coscienza? Si
può ancora parlare di "inconscio"?
Il termine "inconscio", per certi versi, ha prevalentemente un significato
clinico-empirico, ed è diventato un termine di tutti i giorni. Però ci sono degli
autori, che non fanno parte della tradizione psicanalitica, i quali hanno, in qualche
modo, ritrovato il concetto di inconscio. Per esempio, dalla metà degli anni Ottanta, si
parla di un "inconscio cognitivo" o "cognitivista", cioè di una
concezione cognitivista dell'inconscio. C'è un autore, Koestler, che ha lanciato questo
termine: l'"inconscio cognitivo". Come si arriva a questo concetto? Innanzitutto
bisogna fare una distinzione tra coscienza e autocoscienza.
Coscienza è presenza all'ambiente - anche un animale è cosciente. Quando si parla di
coscienza e di inconscio nel senso tradizionale ci si riferisce propriamente
all'autocoscienza e all'inconscio. L'inconscio è tutto ciò che non è autocosciente,
perché c'è una barriera, un'impossibilità di manifestarsi all'autocoscienza .
L'autocoscienza è l'introspezione psichica, cioè la capacità tipica degli individui,
dell'essere umano adulto - o perlomeno dopo i tre, quattro anni di età - di rendersi
conto che c'è un mondo virtuale, che è il mondo fenomenologico delle emozioni, dei
pensieri, delle fantasie, dei suoni, delle idee, i quali occupano uno spazio virtuale:
c'è un mondo interiore. Questo mondo è il mondo dell'autocoscienza, cioè il mondo della
riflessività, per cui l'individuo è in grado di esaminare non soltanto il proprio corpo
e le proprie azioni, ma anche le proprie intenzioni, le proprie fantasie. Ci sono degli
aspetti della mente, che sono accessibili all'autocoscienza, e noi diciamo che sono
"consci"; altri che non sono accessibili che però agiscono.
Naturalmente, il punto fondamentale è che buona parte delle nostre conoscenze non sono
autocoscienti: noi sappiamo fare delle cose, però non le sappiamo spiegare. Sappiamo
andare in bicicletta, sappiamo usare le regole grammaticali anche senza sapere che
esistono, perché abbiamo tante "mappe" dentro di noi. La maggior parte delle
persone che utilizzano una tastiera di macchina da scrivere o il computer, sa mettere
esattamente il dito sulla lettera giusta, in ogni momento. Però, a meno che uno non sia
un dattilografo di professione, nessuno sa dove stia la 'g' o la 'n': quindi noi siamo
coscienti della mappa delle lettere sulla tastiera, perché la usiamo; ma non ne siamo
autocoscienti, nel senso che non la possiamo descrivere. Quindi esiste un saper fare, che
comprende l'uso di mappe cognitive, come la mappa della tastiera, che non si può tradurre
in un saper dire, in un saper descrivere. Ci sono quindi delle forme ambigue di coscienza.
GIOVANNI JERVIS
VITA
Nato a Firenze nel 1933, Giovanni Jervis ha conseguito la laurea in Medicina a Firenze nel
1957, e la specializzazione in Neurologia e Psichiatria a Roma nel 1960. Nel 1968 ha
ottenuto la libera docenza in Psichiatria. Dal 1959 al 1963 ha collaborato con l'etnologo
Ernesto De Martino in ricerche sul tarantismo pugliese e sul tema culturale e
psicopatologico della fine del mondo. Dal 1966 al 1969 ha collaborato con lo psichiatra
Franco Basaglia lavorando a tempo pieno nella Comunità terapeutica di Gorizia. Dal 1969
al 1977 è stato Direttore dei Servizi psichiatrici territoriali di Reggio Emilia. Dal
1977 insegna all'Università "La Sapienza" di Roma. Attualmente è ordinario di
Psicologia Dinamica nella Facoltà di Psicologia di questa Università. È stato, negli
anni Sessanta, membro del consiglio editoriale della casa editrice Einaudi e in seguito
consulente per la Feltrinelli e la Garzanti. Ha una formazione psicoanalitica freudiana.
OPERE
Le pubblicazioni principali di Jervis comprendono, oltre a numerosi articoli, a voci di
enciclopedie e alla cura di libri, i seguenti volumi: Manuale critico di Psichiatria,
Feltrinelli, Milano, 1975; Il buon rieducatore: scritti sugli usi della psichiatria e
della psicanalisi, Feltrinelli, Milano, 1977; Presenza e identità, Garzanti,
Milano, 1984; La psicoanalisi come esercizio critico, Garzanti, Milano, 1989; Fondamenti
di psicologia dinamica, Feltrinelli, Milano, 1993; Sopravvivere al Millennio,
Garzanti, Milano, 1995; (con g. bartolomei) Freud, La Nuova Italia Scientifica,
Roma, 1996; La conquista dell'identità: essere se stessi, essere diversi,
Feltrinelli, Milano, 1997.
PENSIERO
Le aree principali di ricerca dalla fine degli anni '50 fino a oggi sono state due: la
psichiatria (e psicologia) sociale e i fondamenti delle teorie psicoanalitiche. Jervis è
stato uno dei protagonisti, insieme a Franco Basaglia, del movimento anti-psichiatrico che
ha combattuto per l'abolizione dei manicomi (il Buon rieducatore racconta
l'esperienza, a Gorizia, del primo manicomio aperto in Italia). Successivamente si è
allontanato dalle posizioni di Basaglia, per divergenze sul modo di intendere l'abolizione
dei manicomi e ha ripensato criticamente l'esperienza dell'anti-psichiatria (Manuale
critico di psichiatria). Jervis, inoltre, ha elaborato una sistematizzazione,
all'interno del quadro della psicologia dinamica, degli elementi comuni sia alla
psicoanalisi che alla psicologia non psicoanalitica (Fondamenti di psicologia dinamica).
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