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Storia di una vittoria annunciata
Ilaria Favretto
Storia di una vittoria annunciata: sarà ricordato così l’imminente
e scontato trionfo di Tony Blair alle elezioni politiche del prossimo
7 giugno. Il vantaggio del New Labour sui conservatori è incolmabile.
E cresce ogni giorno che passa. La distanza che a poco più di una
settimana dalla tornata elettorale, divide i due partiti si avvicina
al 20%. Gli ultimi sondaggi danno il partito laburista al 48% e i
conservatori al 30%. Se tali previsioni dovessero trovare conferma
alle urne, il partito di Tony Blair otterrebbe una maggioranza di 267
deputati. Un vero e proprio record. Dal 1931, l’anno del governo di
unità nazionale di Ramsay MacDonald, nessun cabinetto ha mai potuto
contare su un margine così ampio.
Il ritorno del New Labour a Downing Street dopo diciotto anni di
governi conservatori nel 1997 seguì di un solo anno la vittoria dell’Ulivo
con Prodi: entrambi furono salutati nei rispettivi paesi come una vera
e propria svolta nella politica britannica e italiana; l’inizio di
una nuova era. E’ per questo che quando le nostre televisioni
passeranno le immagini di un Blair raggiante pronto per una nuova
legislatura, la recente sconfitta della coalizione di centro-sinistra
in Italia brucerà ancora di più. Viene da chiedersi: perché loro
sì e noi no? Dove ha sbagliato la sinistra italiana? Qual’è la
ricetta del successo di Tony Blair e compagni?
I confronti -anche se quanto mai salutari- sono sempre difficili: le
due sinistre si giocano il consenso dei rispettivi paesi con due
sistemi elettorali radicalmente diversi. Facile, molti diranno -e a
ragione-, governare uniti e compatti con un sistema che penalizza, per
usare un eufemismo, qualsivoglia scissione o divisione. Italia e Gran
Bretagna sono, inoltre, due paesi con storia, struttura sociale e
cultura politica, assai distinti. Tutti qui sanno e non fanno neanche
troppa fatica ad ammetterlo, come le numerose dichiarazioni di Tony
Blair a riguardo testimoniano, che gli anni della Thatcher hanno
facilitato e non poco il compito dei laburisti una volta tornati al
governo: con il potere dei sindacati fortemente ridimensionato, un
welfare decurtato e gran parte del settore pubblico già in mani
private, il lavoro di Blair e dei suoi ministri non poteva che essere
in discesa.
La sfida di fronte alla quale si trovano oggi i partiti della ‘nuova’
sinistra è quella di adattare lo stato sociale e il sistema di
relazioni industriali, tagliati su misura sul modello fordista, alla
nuova realtà postfordista. Si tratta quindi di disfare per poi
ricostruire. Diversamente dai propri corrispondenti d’oltremanica,
il New Labour è potuto passare direttamente alla fase della
ricostruzione. Tant’è che le critiche che lo investono da sinistra,
non riguardano tanto le classiche malefatte di cui oggi i governi
socialisti sono normalmente accusati (come i tagli alla spesa
pubblica), ma il ‘non fatto’ e le ingiustificabili esitazioni nel
restituire ai cittadini britannici -anche se in forma diversa, più
aggiornata, più third way- una società più equa rispetto a
quella lasciata loro in eredità dalla Lady di Ferro e i suoi seguaci.
Come si vincono le elezioni
Premessi tutti i distinguo del caso, vediamo quali sono i fattori che
spiegano il successo del Labour. Da anni i politologi ci ricordano
come al momento di vergare la propria crocetta sulla scheda
elettorale, la percentuale di elettori che lo fa a seguito di un’analisi
sistematica e ponderata del programma dei partiti in gara, è a dir
poco minoritaria. L’elettore medio è scarsamente informato e nell’
optare per una forza politica o per l’altra, nella maggior parte dei
casi, contano di più fattori come la credibilità, la competenza e, last
but not least, la compattezza e la solidità degli schieramenti in
gioco.
Sotto la guida severa e rigorosa di Gordon Brown (Cancelliere delIo
Scacchiere), il governo Blair vanta oggi un tasso di inflazione dell’
1% e un tasso di disoccupazione che si aggira intorno al 4% (entrambe
le due percentuali, corrispondono a meno della metà della media
europea). Nel passato, i governi di marca laburista sono stati scossi
non di rado da pesanti crisi: per ben due volte (1947 e 1966-67) i
laburisti si sono dovuti macchiare, durante il loro mandato, del
peccato capitale della svalutazione della sterlina. Per anni nell’immaginario
inglese il Labour è stato associato a solidarietà e giustizia
sociale, ma non certo ad una gestione dell’economia nazionale ferma
e competente.
Per quella, era opinione diffusa, ci si doveva mettere nelle mani dei
conservatori. Dopo cinque anni di crescita economica inarrestabile, la
sindrome da ‘partito dal cuore buono ma incapace’ pare oggi
totalmente superata. E pure brillantemente. In un’inchiesta condotta
di recente, più del 50% dei cittadini britannici (percentuale quindi
che include anche elettori conservatori) ha dichiarato di fidarsi più
del Labour che dei Tories quanto a competenza e affidabilità. Ben
più importante, buona parte della comunità imprenditoriale -il
cosiddetto Big Business- ha ormai da tempo spostato il proprio
sostegno a favore degli avversari di un tempo: il New Labour si è
guadagnato i gradi sul campo grazie alla rigorosa politica fiscale
portata avanti da Gordon Brown; a suo vantaggio è andato anche il
maggiore pragmatismo e realismo, rispetto al partito conservatore,
relativamente alla questione dell’euro, un treno che importanti voci
dell’economia britannica hanno più volte ribadito di non voler
perdere.
Veniamo ora alla compattezza e all’unità del governo. Anche qui un
successo. Attraverso una serie di riforme interne soprattutto relative
al sistema di voto e quello decisionale, Blair si è disfatto negli
anni che hanno preceduto la sua elezione a primo ministro, di
qualsiasi nemico interno al partito. La vecchia sinistra trotzkista
che aveva spadroneggiato negli anni ottanta durante l’era Foot è
ora totalmente annichilita. Gran parte di essa si è autoesiliata in
piccoli formazioni politiche sorte alla sinistra del Labour, prive di
alcun peso elettorale e politico. Lo stile del leader laburista è uno
stile presidenzialista, accentratore. Nulla sfugge al suo controllo e
soprattutto a quello dei suoi consiglieri personali Philip Gould o
Alistair Cambpell (altrimenti detti Control Freaks, come recita
il titolo di un libro appena pubblicato da Nicholas Jones) attenti ad
uniformare e controllare i messaggi che fuoriescono dal partito. Nel
Manifesto prodotto dal New Labour per questa tornata elettorale ci
sono solo foto di Tony Blair. Quanto mai eloquente anche la sua scelta
di comunicare al tabloid Sun, prima ancora che al partito, la
decisione di posticipare le elezioni (inizialmente previste per i
primi di maggio).
L’idillio con la Middle England
Certo, credibilità e unità non sono sufficienti a spiegare l’idillio
fra i laburisti e la corteggiatissima Middle England, il famoso centro
senza il quale, piaccia o no, qui si perde. Disfatosi ormai da tempo
della scomoda immagine di partito working class e indossate le vesti
di partito pro-Business, il New Labour è stato infatti ben attento
durante tutta la passata legislatura a non alienarsi le simpatie del
cosiddetto Mondeo man, vale a dire di quella nutrita schiera di
elettori tories, di appartenenza sociale piccolo-medio borghese, che
nel 1997 decisero di girare le spalle a John Major.
E’ per questo che intellettuali radical come Eric Hobsbawn non hanno
esitato a descrivere le politiche di Blair come nient’altro che un
Thatcherismo riscaldato. Altri, notoriamente più moderati, e più
vicini al Labour, come David Marquand o Michael Jacobs (direttore
della celebre Fabian Society), pur non risparmiando critiche al
governo, non sono mai arrivati a tanto: specie in seguito allo
spostamento dei conservatori su un’agenda marcatamente di destra, le
differenze fra un governo laburista, per quanto moderato possa essere,
e un’eventuale ritorno dei conservatori, hanno più volte scritto,
ci sono, ed eccome. Rimane, tuttavia, ingiustificabile, aggiungono, l’eccessiva
cautela con cui il New Labour si è mosso per tutto il suo mandato.
‘Did things get better?’
Il motto con cui i laburisti si sono insediati a Downing Street nel
1997 era Things can only get better (le cose possono solo
migliorare). E così è stato: è stata realizzata la famosa e tanto
attesa Devolution di Scozia e Galles, due ragioni che da anni
reclamavano maggiore autonomia dal governo centrale; è stato
introdotto il salario minimo; sono state varate misure di natura
redistributiva come il Working Families Tax Credit; sono stati
realizzati programmi importanti per la disoccupazione giovanile come
il New Deal; si sono fatti investimenti nella sanità e nell’istruzione.
Le cose sono andate certo meglio per buona parte della popolazione,
specie nelle fasce medio-basse. Il problema è che ‘meglio’ è un
concetto quanto mai relativo. Il ‘meglio’ come lo potrebbero
intendere in una repubblica scandinava è ben diverso da cosa ‘meglio’
può significare in un paese reduce da 18 anni di governo
conservatore. Il fatto di poter contare su un lavoro e su una
retribuzione minima di circa £10.000 all’ora è sicuramente una
conquista. Tutto sta a vedere però come quello stipendio permette di
vivere in un paese dove un biglietto del treno di andata e ritorno per
una tratta di meno di un’ora costa £60.000. Insomma, si è fatto
qualcosa ma si sarebbe potuto fare molto dipiù.
Tanto più che le condizioni per politiche ben più coraggiose ci
sarebbero state tutte: Blair ha governato questo paese con una solida
maggioranza e in un periodo di vero boom economico; a questo va
aggiunta l’assenza di una reale opposizione interna al partito; e,
ancora più importante, di qualsiasi minaccia esterna: i conservatori
sono un partito alla deriva; da anni alla ricerca di una nuova
identità, sono oggi divisi da lotte intestine fra nostalgici
Thatcheriani e chi, come Michael Portillo, pur avendo un passato di
militanza alla destra del partito, ha capito che l’unico modo per
risollevare le sorti elettorali Tories è quella di cercare di
riguadagnare il centro dello spettro politico.
William Hague -succeduto a John Major nel 1992- è talmente impopolare
che, alcuni candidati conservatori hanno scelto di togliere qualsiasi
riferimento nella propria campagna elettorale alla sua persona. Il suo
accento, la sua postura, la sua voce metallica, tutto concorre a darne
un immagine di persona fredda, artefatta, poco umana; come un
giornalista del Guardian ha scritto di recente, Hague è il
classico strambo che quando sale sull’autobus nessuno vorrebbe
vedersi sedere accanto.
C’erano quindi tutte le condizioni per osare dipiù; ma la sfida non
è stata raccolta. Per i primi due anni di governo la spesa pubblica
è stata contenuta nei limiti definiti dal precedente cabinetto Tory.
Il Labour aveva promesso di non aumentare le tasse (tra le più basse
in tutta Europa) e così ha fatto. Il divario fra ricchi e poveri,
anche se -come un recente studio dell’Institute for Fiscal Studies
ha dimostrato- è stato in minima parte ridotto, rimane enorme: il 25%
della popolazione adulta di questo paese vive al di sotto della soglia
di povertà (nel 1979 era il 9%). Non di rado, ci si imbatte, e questo
anche nella stampa di qualità, in riferimenti al sistema sanitario
nazionale come ad un sistema degno di un paese da Terzo Mondo. E’
sicuramente un’esagerazione; ma rende l’idea dell’insoddisfazione
che qui cresce di giorno in giorno per lo stato dei servizi pubblici.
Quello che è ancora più grave è che anche quando si sono introdotte
alcune misure di natura redistributiva, si è fatto di tutto per
sottacerlo o addirittura negarlo. Da poco eletto, Tony Blair dichiarò
nel 1997 che il ricambio laburista a Downing Street non avrebbe
significato solo un cambio al governo ma una trasformazione dei valori
e della cultura politica del paese. Così non è stato. Si
redistribuisce, ma non lo si ammette. Si abbraccia ideologicamente il
dogma della privatizzazione anche laddove il buon senso sembrerebbe
suggerire maggiore cautela (è il caso per esempio della metropolitana
londinese, che, alla luce dello sfacelo del sistema ferroviario
gestito da anni da privati, in molti -anche nelle fila del Labour-
oggi riterrebbero più opportuno mantenere nelle mani di una gestione
pubblica). I parametri di riferimento rimangono quelli di un’agenda
neo-liberale.
Il che è assurdo soprattutto alla luce di quanto da mesi alcuni
sondaggi stanno rivelando sull’atteggiamento dell’elettorato
rispetto a questioni delicate come le famigerate tasse. Secondo un
sondaggio del Guardian/ICM del 14 maggio, più del 50% degli
intervistati sarebbe disposto a pagare più tasse pur di avere
maggiori investimenti nella sfera della sanità e nell’istruzione
(58% di questi sarebbero elettori Labour e il 35% Tory). La classe
politica sa bene che tirare frettolosamente conclusioni sulla base di
questo tipo di risultati può essere pericoloso: si risponde col
cuore, ma si vota con il portafoglio. Ma vi sono numerosi altri
segnali che sembrerebbero tutti indicare un radicale mutamento dell’opinione
pubblica in questa direzione. In un altro sondaggio che chiedeva di
indicare le questioni ritenute più importanti e sulla base delle
quali si sarebbe espresso il proprio voto, il sistema sanitario
nazionale si è guadagnato il primo posto; seguito a ruota dal
problema della criminalità (evidentemente non associato qui con la
questione dell’immigrazione che si è posizionata nona) e da quello
dell’istruzione. Insomma quello che si chiede al futuro governo sono
maggiori investimenti nei servizi pubblici.
Nuovo governo, nuove promesse
E’ opinione diffusa che la prossima legislatura sarà più
coraggiosa: lo stesso New Labour l’ha più volte ripetuto: l’obiettivo
dei cinque anni passati era quello di creare delle basi economiche
solide per un programma sociale alla cui piena realizzazione penserà
il prossimo governo. Lavori in corso insomma. Nel manifesto elettorale
del partito è previsto un incremento della spesa pubblica del 3.5%
che dovrebbe così raggiungere il 41% del PIL nazionale (la media
europea è il 47%). Sono inoltre state promesse misure come l’aumento
del salario minimo garantito.
Come recita lo slogan dei liberaldemocratici, partito che da anni si
colloca alla sinistra del Labour, You can’t get something for
nothing. I laburisti hanno escluso dal loro programma qualsiasi
incremento fiscale; anche quello non certo rivoluzionario, proposto
dai lib-dem, che prevede un’innalzamento della detrazione fiscale
fino al 50% per chi guadagna oltre £100.000 (300.000.000 di lire
italiane). Non sono in pochi a chiedersi come faranno a far quadrare i
conti; specie quando al periodo di espansione economica che procede
ormai ininterrotto dal 1997, subentrerà, cosa alquanto probabile, una
fase di recessione.
Si vedrà. Rimane che con tutti i limiti del passato governo Blair e
tutti i dubbi che si possono nutrire per il prossimo, i laburisti
restano per buona parte dell’elettorato inglese il lesser evil.
Mai come con in un sistema elettorale maggioritario secco, il voto è
più un voto contro che un voto per. Il tasso d’astensionismo di
questo paese, che pare raggiungerà in questa tornata elettorale,
record storici (si parla addirittura del 40% di possibili astenuti!)
parla da sé: una volta accertato che non vi è alcun rischio che i
Tory possano vincere le elezioni, saranno in molti, pare, a starsene a
casa (o meglio, al lavoro visto che si vota di giovedì!). Le prossime
elezioni saranno certo un’importante vittoria per Tony Blair, ma
soprattutto l’ennesima sconfitta dei conservatori.
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